Cristina Annino, Arrivederci. (Giancarlo Locarno)

Vishnu e i suoi avatar

Risalire alle sorgenti della vita che scorrono come un fiume a onde di urli, un viaggio regressivo che porta all’attimo della nascita, per raggiungerle bisogna scordare le cose del mondo, che scorrono giù come perle che attraversano le reti tese nello scrupolo di trattenerle. Lasciamole andare giù per le scale queste perle di parole. Alle sorgenti ci sarà l’arrivederci se questo corpo ormai pesante ridotto a un moncone avrà la forza di salire verso uno degli innumerevoli paradisi. Le parole-perle cadono su chi sta sotto le scale, sugli uomini del sottosuolo o del sottoscala, hanno becchi affilati possono ferire chi le usa come cuscino e ci si siede sopra, così rimangono nel fiume dell’urlo, ma sono anche becchi aperti, parole appena nate, che aspettano il loro vermetto per nutrirsi e crescere e disperdersi per il mondo.

Se ci si ferma qui si prova una nostalgia tremenda, perché si sta procedendo verso un cielo che si pensa non ci sia più e non ci sia più nemmeno una rinascita.

Bisogna ricordarsi di scordare questa nostalgia e salire col secondo braccio, che per fortuna esiste e che il moncone nascondeva. Nessuna parola parla perché sono tutte cadute dalle scale, come perle preziose ma qualcuno le raccoglierà. Allora come in una meditazione si scacciano uno per uno i rimproveri, le lagne, si gettano dalle scale come polli a collo in giù nella salsa del mondo, che è un affluente del fiume dell’urlo, si buttano anche gli arrivederci nella minestra in questo fiume mondano, dove si stemperano i miei discorsi come i peperoni della vergogna. Vergogna di non affrontare la sorte. Anche questo fumo non serve, gettiamolo come le altre cose giù dalla scala, nei paradisi si arriva nudi con tutti i nostri monconi.

Abbiamo buttato anche l’arrivederci ma rimane l’arri e il vederci.

Da bambini per fermare il gioco si diceva arri mortis, per riprenderlo arri-vivis (sarebbe arimortis e arivivis, ma noi da bambini dicevamo così), in mezzo c’è l’arri vederci, come a dire seguendo Severino che l’ente persiste anche se si esce dalla scena del mondo e si entra in qualcos’altro, è come la legna che diventa e appare nella forma della cenere, e quindi non è sparire ma il vedersi sotto un’altra forma.

Le cose cambiano molto molto lentamente coi secoli, oggi nel trecentomilaottanta siamo ancora qui a non conoscere cosa c’è oltre il nostro naso. Che significato può avere la massa di un moncone sulla sedia che avverte il peso di tutti i secoli trascorsi? Una domanda Raskolnikoviana, il moncone può manifestare allora la vecchia usuraia, così ci rappresentavamo tutti. La risposta è nel senso della sospensione, si cancella quello che eravamo prima, nell’attesa di precipitare nell’attimo staminale, quando si diventa avatar, non un simulacro virtuale, ma l’incarnazione di una divinità, ascendere in un paradiso significa ripercorrere la storia a ritroso, e il tempo più saggio che vediamo dietro le spalle potrebbe essere invece davanti a noi.

Come nel poema di Gilgamesh attraversato in senso retrogrado, il tempo più saggio non è il differenziarsi dagli animali, dal tu e dal loro, per passare dal mondo naturale a quello dominato dalla cultura, ma ritornare a quando si era tutti uguali, alle sorgenti della preistoria quando l’urlo era bambino, allora arrivederci tutti lì.

Giancarlo Locarno

***

ARRIVEDERCI

Si afferra la sorgente
dell’urlo. Ci sono cose al mondo
che bisogna scordare, trattarle
da cinesi con le perle o reti a mano
senza scrupoli. Sarà l’arrivederci, se rivedrò
quel braccio salire le scale come un
monco, poi le parole non stanno ferme, cadono
su ognuno col becco in su. Succede
allora che sedersi è un urlo. Ci sono esempi
di nostalgia tremenda da vergognarsi, del
cielo che non c’è più e dovrebbe
rifarsi e non servirebbe neanche
un parto. Perché si deve ricordare ma
scordarsi come chi scala col secondo braccio
la rampa e nessuna parola parla. Finita
la lagna dei rimproveri e dei discorsi, dei
polli finiti a collo in giù nella salsa
dicendo arrivederci, con la schiena rifatta
a regola d’arte, gesso nella minestra
rossa di peperoni dalla vergogna. Non serve
fumo sulla tovaglia per Arri e
Vederci. Cambiano gli anni nella scossa
dei secoli ed è orrenda massa vivere oggi
trecentomilaottanta se non
conosco chi abitò una stanza prima
di me. Eppure dico le gambe avranno un
senso se stento sedermi sulla sedia. Perché
c’è stato un tempo più saggio in cui non
esisteva né io né tu né loro; si era tutti uguali
alberi di radici senza cemento; un frutto sul
costato e intorno animali.

Da Cristina Annino, Avatar, Avagliano editore srl - 2022



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