
Pasolini e la lingua madre: la poesia dialettale come resistenza e rivelazione
Cipriano Gentilino
La poesia friulana di Pasolini si concentra principalmente in due raccolte fondamentali, cui si aggiungono alcuni testi sparsi o inseriti in altre opere: Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954). Il dialetto in Pasolini, come è noto, non è una scelta folkloristica o nostalgica ma è atto politico, ontologico e lirico insieme, è quella che viene definita lingua d’innocenza, arcaica e contadina, che si oppone alla violenza normalizzatrice dell’italiano borghese e alla mercificazione della parola moderna. In un’Italia che già negli anni ’50 correva verso l’omologazione culturale e televisiva, Pasolini oppone il suo “italiano impuro” e il suo dialetto come luoghi dell’anima. Il friulano diventa, paradossalmente, lingua universale della resistenza: all’oblio, all’assimilazione, alla falsità della parola senza corpo.
“Jo i soi un vecjo di corae” (Poesie a Casarsa)
Jo i soi un vecjo di corae
cu la vita tal sium, e il ciant
dal soreli mi ten compagn.
Io sono un vecchio del cuore
con la vita nel sogno, e il canto
del sole mi fa compagnia.
“Là il timp al è ferm e mi plui no i soi” (La meglio gioventù, 1954)
Là il timp al è ferm e mi plui no i soi
se no chê fontane cence flum.
Chê lune lì a mi ciamava par non.
Là il tempo è fermo e io non sono più
se non quella fontana senza fiume.
Quella luna lì mi chiamava per nome
“Il Nini muart” (da La meglio gioventù)
Dut il paîs al è in piere, dut
al è ferm cul àns di polvarin
intal cîl zà gial dal vint.
E mi, la note, o soi là, cui oms
che a tegnen par man la so man morte.
A nô ch’a si scugnissin in voi,
sensa mai podè dî un ciant.
Senc’altri che chel timp fermat:
il timp di chel nen quindes ains.
Tutto il paese è di pietra, tutto
è fermo con l’odore di polvere
nel cielo già giallo di vento.
E io, la notte, sono là, con gli uomini
che tengono per mano la sua mano morta.
A noi che ci sfuggiamo negli occhi,
senza mai poter dire un canto.
Nient’altro che quel tempo fermato:
il tempo di quel bambino di quindici anni.
“Il glicine” (da Poesie a Casarsa)
Cul timp di la sera, tal scûr
il glicin al scomença il so ciant.
Al è il ciant cence note di un timp
di cîl cence nûl, di vierç cence flôr.
E il glicin al sbrote in mi
come un soreli che nol à lûs,
come une fontane che nol à aghe.
Col tempo della sera, nel buio
il glicine comincia il suo canto.
È il canto senza note di un tempo
di cielo senza nuvole, di primavera senza fiori.
E il glicine germoglia in me
come un sole che non ha luce,
come una fontana che non ha acqua.
“Me paîs” (da Poesie a Casarsa, 1942)
Me paîs al è piçul, e i si à di mont,
di pratuts, di borcs cence stradis,
di fontanis cence aghe, di glosis
cence cjant. Ma il è me paîs:
in chê int che si sfuarza di vivi
par un pôc, e che mi salutànt
dulcement quand che o torn, al è
il me paîs. Cence passion, cence dâs,
cence vertu, cul so timp fermât
cent agns, al è il me paîs.
Il mio paese è piccolo, e si ha di monti,
di prati, di borghi senza strade,
di fontane senza acqua, di chiese
senza canto. Ma è il mio paese:
in quella gente che si sforza di vivere
per un poco, e che mi saluta
dolcemente quando ritorno, è
il mio paese. Senza passioni, senza dolori,
senza virtù, con il suo tempo fermato
da cento anni, è il mio paese.
“La sera” (da Poesie dimenticate, 1944)
La sera a ven pian, tal cîl
al si speng il soreli. Il vint
al bruse cul odor dai fen,
e i oms a tornin plens di silensi.
La int si ferma a l’omp dai portons,
e il timp nol passa, nol passa:
restin dome chel ciant
dal soreli che si slontane.
La sera viene piano, nel cielo
si spegne il sole. Il vento
brucia con l’odore del fieno,
e gli uomini tornano pieni di silenzio.
La gente si ferma all’ombra dei portoni,
e il tempo non passa, non passa:
resta solo quel canto
del sole che si allontana.
orbene, la superiore qualità e la pregnanza dei versi di zio Pipipì (che peraltro amo visceralmente) non si discute. tra le liriche di questa selezione dialettale, la mia preferita è “La sera”.
purtuttavia, in tale poesia, è sicuramente da mettere all’indice l’implicita et vergognosa ode al patriarcato insita nel verso “gli uomini tornano pieni di silenzio“, quasi che albergasse solo in cuore agli uomini l’intrinseca sapienza (spossata) mietuta mediante la fatica del lavoro. propongo pertanto una raccolta di firme per costringere l’autore a modificare il verso incriminato, lasciandogli la possibilità di scegliere tra una delle due seguenti riformulazioni, inclusivamente più corrette:
a) “donne, uomini e LGBTQIA+ tornano pieni di silenzio“
b) “tutt* noi torniamo pien* di silenzio“
qualora l’autore rifiutasse di riformulare il verso incriminato, chiedo a tutta la comunità poetica di Neobar di boicottarlo.
"Mi piace""Mi piace"