Giancarlo Locarno, Cococo

Foto G. Locarno – Rho fiera

Giancarlo Locarno, Cococo

Avevo tredici anni nel luglio del sessantanove, e anch’io sono rimasto sveglio tutta la notte con mio papà per vedere la discesa del primo uomo sulla luna, per fortuna non c’era da andare a scuola. Nelle pause televisive dell’intervallo avvertivo un silenzio, ma così ritmico che sembrava sgorgare e dilatarsi intorno a me che a quel punto lo percepivo come puro spazio. Dopo essere sceso dalla scaletta l’astronauta ha inciampato e fatto alcuni passi barcollando, ho trattenuto il fiato, se cadeva avrebbe potuto rompersi la tuta e diventare il primo uomo morto sulla luna. Già diversi mesi prima avevo preso un quadernone di computisteria sul quale incollavo gli articoli di giornale sulle missioni spaziali e anche dei pensieri che queste mi suggerivano. C’era sempre sui quotidiani una scaletta di quello che sarebbe successo negli anni successivi, nell’ottanta le prima basi fisse sulla luna, poi sarebbero arrivati i coloni e con il nuovo secolo sarebbe certamente sorta la prima città. Io ci credevo fermamente, mi appassionavo e pensavo che da grande avrei potuto fare un volo spaziale e magari lavorare, ma non per sempre però, sulla luna.

Invece poi non si è verificato un bel niente, e la scaletta si è rivelata un imbroglio.

Mi è toccato ancora di lavorare nelle solite fabbriche novecentesche, anche dopo il 2000, la data fatidica che separava il mondo ordinario dalla fantascienza concretizzata. Niente odissea nello spazio, niente luna. Nonostante la delusione ho sempre mantenuto un certo trasporto e una dedizione per la scienza, è quella che ci avrebbe garantito le magnifiche sorti e progressive, e anche per la fantascienza, con la sua intuizione di mondi possibili non ancora realizzati. Ho fatto l’informatico, ogni tanto ci pensavo al sogno di liberare l’uomo dai lavori ripetitivi con l’automazione, quelli li avrebbero fatto i programmi. Sarebbe aumentato il tempo disponibile per dedicarci alla bellezza dell’arte e della cultura, perché sarebbe diminuito il tempo dedicato al lavoro.

Tutte sciocchezze.

I robot esistevano, ma erano un braccio meccanico che ruotava in una camera circolare stagna, prendeva i nastri e li inseriva nel lettore. Se qualcuno si fosse trovato all’interno sarebbe stato fatto a pezzi dal braccio in barba a tutte le leggi asimoviane della robotica. 

Aggiungo anche che tutti noi peccavamo di ingenuità culturale, concentrati sulle cose tecniche non davamo importanza ai meccanismi della finanza e dell’economia non eravamo quindi abituati a questa incipiente barbarie di un medioevo di ritorno che stava per precipitarci addosso. Ci sembrò di essere scagliati all’improvviso ad arrembare in un ritaglio di tempo e di mondo incomprensibili e assurdi, ma poi coll’addentrarci nel secolo tutto divenne chiaro.

Scoprimmo che il lavoro automatizzato non serviva per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro ripetitivo, ma serviva per ridurre i posti di lavoro, per licenziare insomma. Un robot chiuso in una camera stagna che gestisce un esercito di nastri poteva sostituire una decina di operatori.

Noi del centro di calcolo ci sentivamo dei privilegiati, eravamo abituati ad avere i consulenti quando serviva, erano rispettati e ben pagati per suggerire un uso oltre le verità ovvie, grazie alle rivelazioni che il dio dei dettagli forniva a loro. La vita aziendale allora scorreva sempre come un fiume tranquillo, come il placido Don.

Quando ci hanno affidato la nuova procedura eravamo tutti contenti. Bisognava fornire un pc ad ogni venditore scaricandogli anche la sua personale banca dati estratta dall’archivio generale. Si trattava di una gestione del lavoro completamente diversa dall’usuale. Per configurare e aggiornare i notebook sono arrivati cinque ragazzi giovani diplomati che provenivano da varie regioni del sud, dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Campania. E’ così che feci la mia conoscenza con i cococo. Erano i lavoratori con un contratto così precario come mai avrei immaginato. Quella sigla significava collaboratori coordinati continuativi, venivano a lavorare anche con la febbre perché avevano una ridotta protezione riguardo le malattie e non conveniva sprecarla per disturbi come raffreddori o influenze. Avremmo potuto lasciarli a casa da un giorno all’altro senza un motivo, sarebbe bastato dire che non servivano più. In teoria avevano il vantaggio di gestirsi i tempi in modo autonomo per conseguire il lavoro, in pratica non era vero erano subordinati alla gerarchia senza goderne i vantaggi, ma soprattutto costavano molto meno dei consulenti.

Una mattina Giorgio, uno loro, viene nel mio ufficio e mi dice:

– Senti, riceverai una telefonata dal commerciale della Face, ti dirà che vogliono sostituirmi subito con uno di loro, ho già trovato un lavoro alternativo più stabile, ma ho bisogno di un mese di tempo, se rimango a casa subito non riuscirei a pagare l’affitto, puoi fare qualcosa per aiutarmi? Mi basta solo un mese.

Ho ricevuto la telefonata nello stesso giorno, dal commerciale che conoscevo bene, era un amico. Mi ha detto che volevano la sostituzione perché avendo perso un contratto avevano del personale che non sapevano come impiegare e desideravano abbandonare il personale avventizio, che d’altronde serve proprio a questo, a coprire temporaneamente i buchi.

Gli ho detto:

– Non posso accettare la sostituzione perché lui è già formato e non posso perdere tempo per formare un altro. 

– Quello che ti mando è già esperto, basterebbero pochi giorni di affiancamento.

Ci siamo arrampicati tutti e due sui vetri per far valere le nostre ragioni.

Poi mi è venuta un’intuizione, e gli dico:

– Preferisco piuttosto rinunciare alla risorsa e suddividere il lavoro sugli altri

  così risparmiamo un po’ anche noi.

A questo punto cede, sapevo che i commerciali non possono mai, in nessun caso, perdere soldi.

– Va bene allora continuerò a lasciarti Giorgio. 

Mi accorgo che tergiversa, come se non volesse chiudere la telefonata, dopo qualche frase di cortesia finalmente mi dice:

– Sono contento che mi hai detto così, a me non piace lavorare in questo modo, con le persone da piazzare e da cacciare così sui due piedi, non sono abituato a trattare le persone così come cose, ma dall’alto dei cieli è arrivato l’ordine, sembra che ormai le faccende anche per il futuro andranno tutte in questa direzione.

Ci siamo lasciati condividendo con la stessa disillusione il giudizio sulla situazione.

Giorgio dopo un mese se n’è andato, al suo posto è arrivata la Vesna, sempre mandata dalla Face, veniva dalla Serbia, diceva che solitamente per sei mesi lavorava in Italia e poi tornava a casa a Belgrado per altri sei mesi. Era una specialista di data base, una donna forte ma anche gentile.

Un giorno inaspettato mentre l’ufficio affogava tranquillo nelle sue faccende è successo il finimondo un blackout totale.

Tutto il centro di calcolo è rimasto improvvisamente senza corrente, tutti gli impianti avrebbero dovuto ruotare sui generatori alternativi, ma non sempre tutto va per il verso giusto, ci sono sempre tante macchine che non partono.

Vesna, di solito tranquilla e assorta nel suo lavoro, appena accortasi dell’incidente, quando è calato il buio ovunque, è scattata come una molla, occhi spalancati e muscoli del collo e della faccia tutti tesi, sapeva tutto su come ripristinare il funzionamento del centro, gli occhi erano diventati quelli di un guerriero, correva di qua e di là gettando il suo sguardo balistico  sugli armadi di interruttori ordinando istruzioni a quelli della segreteria tecnica, che le ubbidivano come ipnotizzati, eravamo tutti stupiti, di come si districava con gli armadi elettrici e i cavi di rete quasi fosse abituata a lavorare da sempre  nelle situazioni di emergenza.

Quando tutti gli altri avanzavano a fatica acciarpando inutili considerazioni puramente verbali, lei si lanciava letteralmente nelle sale macchina tra i fischi e il vapore che annebbiava tutto, spariva dalla vista e riusciva a calmare le macchine proprio come una tata tranquillizza i suoi bambini.

Quando le ho fatto i complimenti e le ho chiesto come faceva a sapere tutte quelle cose così tecniche e lontane dal suo lavoro, mi ha detto che nel 1999 lavorava a Belgrado in un centro di calcolo governativo, quando la NATO ha bombardato la città per il problema del Kossovo, la regione autonoma della Serbia a maggioranza albanese alla quale Milošević aveva tolto l’autonomia, scatenando una guerra interna e il successivo intervento della NATO. Per tanti mesi sotto i bombardamenti mancava spesso la corrente, la prima cosa che dovevano fare era quella di ripristinare i servizi il prima possibile. Avevano imparato a convivere con i blackout. Ormai aveva acquisito un riflesso condizionato, gli sembrava di essere ancora in guerra, forse riviveva l’atmosfera di quei momenti che sicuramente l’avevano atrocemente segnata.

Anche per noi ci sono momenti in cui siamo sfiorati dalla storia.

Dopo sei mesi mi ha avvisato che sarebbe ritornata in Serbia, non l’ho più vista, chissà se poi è ritornata in Italia l’anno successivo per riprendere il suo ciclo semestrale da qualche altra parte.

Una mattina sento un vociare come di bambini in ricreazione nel cortile di una scuola,

nel centro è arrivato un gruppo di ragazzi, giovani appena diplomati, dovevano essere i nuovi operatori, cioè quelli che montavano i nastri per i salvataggi, stampavano i tabulati, chiudevano e facevano ripartire le macchine quando richiesto.

Era il livello più basso tra i lavoratori, e se questi fossero precari sarebbero costati anche di meno.

Il capo centro li ha riuniti nella sala riunioni, c’ero anch’io e anche altri miei colleghi, ha tenuto un bel discorso retorico, poi ha detto loro che sarebbero stati assunti dopo tre anni, tranne quelli che si sarebbero dimostrati del tutto inidonei. Quelli erano tutti contenti

Era un colpo di fortuna essere assunti in una grande società telefonica.

Nelle settimane successive li si poteva vedere sciamare nella sala macchina assorti nei loro compiti. I primi mesi c’era molto da imparare, un ambiente reale di lavoro, poi basta, sarebbe subentrata una calma piatta, e più niente di nuovo, per questo i più svegli finivano per andarsene.

Usare i cococo però abbassava il livello di stima e onorabilità di un’azienda, come un marchio d’infamia, ma si è trovato subito l’espediente: far funzionare la cosa con la logica delle scatole cinesi. Un’azienda importante poteva dichiarare di non usare cococo, ma la gestione di un certo lavoro veniva delegata ad un’azienda di consulenza, ma anch’essa dichiarava di non usare cococo, perché a sua volta delegava il lavoro alla manodopera di un’altra azienda ancora, ultima ruota del carro, che dichiarava di lavorare coi cococo, queste ultime erano aziende che chiudevano e riaprivano continuamente cambiando di nome, vivevano per quello, il loro business era quello di non avere rispettabilità e decenza da salvaguardare, ma salvaguardavano quella dei clienti. Così in azienda giravano decine di cococo ma tutti potevano vantarsi di non usare cococo, ci mancherebbe, solo imprese di basso lega lo facevano.

Per il mio progetto serviva un sistemista specialista dei grossi server della Sun, le società di cococo ci hanno fornito alcuni ragazzi da valutare con un colloquio. Tra loro c’era Ndeye, una ragazza senegalese molto alta e snella di corporatura, aveva un diploma in informatica preso a Dakar, raccontava che non poteva permettersi i libri per studiare, quindi doveva stare attenta alle lezioni, prendere appunti e studiare su quelli, Aveva tentato anche l’università ma senza libri si è resa conto che non poteva continuare. Allora è venuta in Italia dove aveva dei parenti, le avevano detto che tutti in Italia parlavano bene il francese, e che quindi non avrebbe avuto problemi di comunicazione. Appena arrivata a Roma si è accorta che invece nessuno parlava il francese e si è sentita persa. E’ arrivata comunque a Milano e aveva lavorato per un anno come gestore di server. L’abbiamo presa perché sembrava sveglia, e l’ho affiancata ad Elisa che già faceva quel lavoro.

Dopo qualche settimana Elisa viene nel mio ufficio e mi dice che Ndye è molto preoccupata.

– Perché è preoccupata? … L’abbiamo presa, l’ho affiancata a te per insegnarle il lavoro, dovrebbe essere contenta!

-Dice che non sa quanti stipendi deve darmi per averla assunta, uno stipendio non sarebbe un problema, ma due o tre la metterebbero in difficoltà, e non ce la farebbe a mantenersi.

Io sono rimasto raggelato, le ho risposto:

– Tu pensi davvero che io chiedo i soldi ai cococo che prendiamo?

– Io penso di no, ma non si sa mai, lei dice che fanno tutti così.

– E’vero che se prendessi uno stipendio da ogni cococo, con il riciclo che c’è diventerei ricco. A parte il fatto che in una società come la nostra se si sapesse una cosa del genere sarei immediatamente licenziato, ma a parte questo, io sono un rappresentante sindacale nazionale per la CGIL, vado a fare le trattative con l’azienda, dovrei tutelare e difendere i lavoratori e poi secondo te … chiedo i soldi ai precari?

Dai, non potete considerarmi un verme così. Dille che non deve niente a nessuno, e se qualcuno dovesse chiederle dei soldi per favore fatemelo sapere.

Mentre se ne andava l’ho richiamata

– In effetti, una cosa ce la può dare per sdebitarsi di essere stata presa, visto che lei elogia sempre la sua versione del loro piatto Zichinì, potrebbe portarcene una pentola che ce la mangiamo tutti insieme.

Oh! Detto fatto, si vede che voleva saldare subito il debito, già il giorno dopo è arrivata con una padellona che abbiamo riscaldato nella cucina dei turnisti, poi abbiamo apparecchiato nella biblioteca, io avevo questo localone con centinaia di manuali tecnici e in mezzo una fila di tavoli per la consultazione. Abbiamo prolungato la pausa mensa senza dire niente a nessuno, ed è stato un bel momento comunitario. Abbiamo preso anche due panettoni, uno al limoncello, di questo Ndye ne ha mangiata una fetta, e cosa da non crederci le girava la testa, si era ubriacata. La sua religione non le consentiva di consumare alcolici, quindi non era abituata. E’l’unica volta in vita mia che ho visto una persona ubriacarsi per una fetta di panettone al limoncello. Non ha peccato però, perché non sapeva della presenza alcolica, non c’era quindi né la piena avvertenza né il deliberato consenso.

Sono passati due anni, un mattino freddo e infermo, uscendo dalle costole dei tramezzi della sala riunioni come un ladro, il capo centro ci ha annunciato che tutti i ragazzi cococo che facevano gli operatori sarebbero stati mandati a casa. Licenziati!

– Ma come? –

Gli ho detto

– Dicevi che sarebbero stati assunti dopo due anni, ho sentito bene, c’ero anch’io quando l’hai detto nella riunione in sala macchine –

– E’vero che ho detto così, ma adesso dall’alto dei cieli è arrivato l’ordine contrario.

Ndye non era un operatore, E’ rimasta con noi ancora qualche anno, sono anche riuscito a convincere la sua azienda a farle seguire dei corsi tecnici sui server della Sun, è diventata una brava sistemista. Un giorno mi ha detto che aveva trovato un lavoro più redditizio all’IBM, ma vi avrebbe rinunciato se la sua assenza mi avesse messo in difficoltà, dal momento che si era trovata bene nel mio gruppo non voleva danneggiarmi, questo non me lo aspettavo, e mi ha commosso. Le ho detto di andarsene tranquillamente, che noi ci saremmo comunque arrangiati, e poi se cambiava la direzione del vento sarebbe stata lasciata a casa dall’oggi al domani, le ho consigliato di seguire la strada migliore per lei.

Anche Elisa qualche anno dopo è andata a lavorare in IBM. La incontravo qualche volta sulla metropolitana, una volta le ho chiesto che fine ha fatto la Ndye, e se per caso la incontrava.

Mi ha risposto che la vedeva tutti i giorni, ma che non l’avrei riconosciuta, si era sposata, aveva due figlie ed era molto ingrassata, e anche lei le aveva chiesto di me con le stesse identiche parole: che fine ha fatto Giancarlo?

* Il racconto parla di cose avvenute vent’anni fa, ho cambiato i nomi delle persone.


Una risposta a "Giancarlo Locarno, Cococo"

  1. un bel racconto neorealista, davvero intenso, che è anche uno spaccato della “fine del sogno”. Infatti, non a caso, inizia in modo significante, con lo sbarco sulla luna, ovvero con le aspettative poi disilluse di tutti noi per un futuro “spaziale” in ogni senso…

    col senno di poi, è probabile che l’inciampo di Armstrong sia stato un segno/presagio della sventura futura cui sarebbero andati incontro gli esseri umani nell’ipermercato universale: sognavamo i voli spaziali, vagheggiavamo di conquistare il cosmo e invece siamo così mal ridotti da lavorare come schiavi per arrivare a mala pena a fine mese (se non addirittura per colare a picco con le nostre astronavi-carretta nello spazio siderale del mar Mediterraneo).

    e l’abolizione della “scaletta mobile” negli anni ottanta è stato in effetti un grande imbroglio…

    circa la scienza che dire? è fatta da *esseri umani* che vivono nell’ipermercato universale (l’abbiamo ampiamente sperimentato nella recente pandemia). ergo il problema, come non mi stanco mai di ripetere in tempi di recrudescenza del pensiero magico, non è la scienza in sé (id est “il metodo scientifico logico-razionale e sperimentale”), bensì i sempre più numerosi scienziati del capitale.

    la frase da incorniciare è certamente la seguente “tutti noi peccavamo di ingenuità culturale, concentrati sulle cose tecniche non davamo importanza ai meccanismi della finanza e dell’economia non eravamo quindi abituati a questa incipiente barbarie di un medioevo di ritorno che stava per precipitarci addosso.” sottoscrivo al 100%.

    epperò se è vero, com’è vero, che errare è umano, perseverare è malefico: ciò che appare incredibile è che nel 2025 la sinistra “cosmetica” liberal-democratica, quella da salotto piddino, per intenderci, sia piena di cervelli all’ammasso completamente digiuni di macroeconomia che sfoggiano imperterriti la stessa ingenuità… boh…

    altro concetto da sottolineare in tempi di “replay” con le IA è che “il lavoro automatizzato non serviva per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro ripetitivo, ma serviva per ridurre i posti di lavoro, per licenziare insomma”. teniamo sempre bene a mente Vico: la storia si ripete… (sto scrivendo un post in proposito, magari nel weekend, se riesco, lo posto).

    con l’aggravante che oggi non ci sono più “commerciali delle Face” che si dimostrino *tergiversanti* e che conservino barlumi d’umanità. oggi i posti di comando e le dirigenze nell’ “alto dei cieli” sono pieni di squali pronti a fare carne da macello di qualsiasi lavoratore (precario o meno). d’altro canto nel magico mondo del capitale liberista, siamo tutti *oggettificati* a merce, ovvero abbiamo lo stesso valore umano d’una confezione di olive disossate in offerta speciale.

    i riflessi condizionati di Vesna, il mese mendicato da Giorgio, i lavoratori “cinesizzati” grazie a scatole cinesi e i taglieggiamenti subiti da Ndye, tratteggiano un mondo del lavoro a tinte fosche, dove i dettami socialisti della Costituzione sono ridotti a carta straccia e l’individualismo liberista trionfa. e oggi le cose, per ciò che vedo dalla mia postazione privilegiata di medico di famiglia, sono ulteriormente peggiorate. sono diventato un nano disfattista? no, anch’io sono soltanto neorealista…

    giunti in fondo a questa storia (che è anche un po’ una storia universale), si resta però avvolti da un forte senso di calore umano. intendo, per fortuna di Vesna, di Giorgio, di Ndye, di Elisa e di tutti i nomi veri al posto di quelli inventati, esistono ancora persone in grado di trattare i lavoratori come esseri umani!

    che fine ha fatto Giancarlo? è qui, tra noi, per nostra fortuna…

    un abbraccio forte al mio fratello virtuale preferito.

    : )

    (ps: emblematico che in calce alle “vacue poesie” piene dei solipsistici “dolores de panza” dei Poeti s’accalchino i commenti, mentre per contro qui, dove tante cose ci sarebbero da dire, il mondo neobarocco tace).

    (nota: “Ndeye” diventa “Ndye”… qual è il nome inventato vero?)

    "Mi piace"

Lascia un commento