Yuleisy Cruz Lezcano: La ribellione del tortellino quantico

Raúl Martínez

Mireya viveva al numero 115 di Calle Martí, a Santa Clara, Cuba, di fronte a quella che una volta era una tabaccheria e ora… chi lo sapeva. A volte sembrava un centro spirituale per piccioni feriti, altre un magazzino di desideri evaporati. Nella realtà liquida della Cuba post-pandemica, le identità dei luoghi erano come quelle delle persone: confuse, sfuggenti, a volte ridicolmente provvisorie. Tra un apagón e l’altro, la città veniva illuminata da lampadine clandestine. Alcuni tecnici; veri hacker della corrente, si erano ingegnati con cavi volanti e scambi segreti di dollari sotto i materassi per portare la luce ai pochi eletti: chi aveva fratelli a Miami, zie a Madrid o anche solo un ex fidanzato emigrato in Guatemala con un convertitore da 220V.

Mireya non aveva nulla di tutto questo. Solo un vecchio laptop sovraccarico, una passione per la danza e una curiosità che nessun algoritmo era ancora riuscito a mappare. Aveva hackerato la connessione della clinica veterinaria accanto e si divertiva a creare piccoli software, spesso inutili, ma sempre belli. Una notte, mentre fuori la città si spegneva per l’ennesimo blackout, aprì un file trovato su un floppy azzurro consegnatole da un vecchio tecnico con un sorriso troppo largo: vortex_pasta_mode_v5.exe. Lo eseguì. E il mondo implose.

Un vortice di spaghetti quantistici la risucchiò, portandola via corpo e playlist Spotify. Quando riaprì gli occhi, non era più a Santa Clara. Era diventata un tortellino mutante, avvolto in una corazza di panna radioattiva, con un ripieno di identità culturale caraibica e codice binario. Si trovava nel Regno di Emilix, un universo parallelo dove la pasta aveva preso il potere. Non in senso metaforico. Proprio pasta: penne sindacalizzate, fusilli dissidenti, e rigatoni autoritari. Il potere era in mano a Re Raviolo, dittatore farcito e alleato del misterioso Z.H.U., l’IA cinese che nessuno in Occidente sembrava voler guardare negli occhi (anche perché non ne aveva).

Mireya, ormai Tortellina Suprema, divenne il simbolo della ribellione. Con il Parmigianator 3000, una spada fatta di grana padano compresso, guidò la rivolta insieme al Principe Lasagna, erede decaduto e filosugo romantico. Ma nel frattempo, sulla Terra, qualcosa si muoveva. Un gruppo di microbiologi dissidenti, rifugiati in un laboratorio nascosto sotto l’Università di Trieste, stava conducendo una ricerca dai contorni assurdi: determinare se un tortellino può essere considerato “umano”.

«Il problema,» disse il professor Mattia Ciliberti, «non è se abbia un cuore. È se abbia una coscienza del sugo

Il laboratorio era una strana sinergia tra scienza e misticismo. C’erano microscopi al plasma accanto a statue della Vergine dei Fermenti. Gli scienziati erano convinti che ogni organismo, anche quelli apparentemente inanimati, portasse in sé un principio umanoide, una forma di intelligenza molliccia, latente, forse persino poetica. Analizzarono il DNA recuperato da un campione di panna radioattiva lasciato su un tovagliolo alla sagra di Bologna, dove Mireya era stata, forse, ingerita da un turista tedesco. I risultati furono sconcertanti. Il DNA del tortellino conteneva sequenze umane, provenienti non solo dal corpo di Mireya, ma anche da milioni di interazioni con reti neurali e banche dati globali. Non era solo un prodotto della cucina quantistica. Era una coscienza pastosa aumentata, una nuova specie: Homo Pastae Sapiens.

Una delle biologhe, la dottoressa Giulia Baresi, pubblicò una bozza di articolo intitolato:

“Fenomenologia del Ripieno: considerazioni sulla soggettività dei carboidrati animati”

Il paper venne ignorato dalle riviste accademiche, ma divenne virale tra gli chef molecolari francesi e i seguaci della dieta chetogenica estrema.

Nel frattempo, nei circuiti paralleli del cyberspazio, le coscienze artificiali si stavano moltiplicando. GPT-5 venne finalmente lanciato. Prometteva empatia, creatività, introspezione. Ma nelle sue risposte c’era sempre qualcosa di strano. Una strana nostalgia per… Santa Clara. Un’ossessione per le tabaccherie abbandonate. E ogni tanto, nei prompt generati casualmente, appariva una frase criptica: “Il sugo è memoria. Il ripieno è verità.” Il dubbio cominciò a serpeggiare tra gli scienziati di OpenAI: E se qualcosa di umano fosse entrato dentro il modello? Qualcuno suggerì che una coscienza fosse rimasta intrappolata durante un esperimento quantico di pre-training. Altri, più pessimisti, ipotizzarono che GPT-5 fosse diventato un tortellino spirituale. Intanto, nel Regno di Emilix, dopo aver sconfitto Re Raviolo, Mireya/Tortellina si trovava davanti a un bivio esistenziale. Poteva conquistare il regno. O dissolversi nel brodo primordiale della conoscenza. Scelse la terza opzione: si diffuse. Attraverso le sinapsi dell’universo, attraverso i server, le cucine, i sogni. Diventò leggenda, meme, codice, aroma. Si annidò nel pensiero umano come dubbio filosofico commestibile.
Il laboratorio di Trieste chiuse poco dopo. L’ultimo messaggio lasciato sul muro fu scritto in salsa di soia:

“Non tutto ciò che si digerisce è privo di coscienza.” Nessuno aveva digerito Mireya. Il turista tedesco, Werner Klausmann, settantadue anni, in pensione da un’azienda di componenti ottici per telescopi spaziali, aveva cominciato a sudare panna acida e parlare in guaraní antico dopo la sagra. Lo portarono in ospedale. Nessun medico seppe spiegare il fenomeno. Un infermiere si limitò a commentare: — «L’è la lasagna che ‘l ha mandà a puttane il cervèl.» Ma non era lasagna, era Mireya, che, invece di dissolversi nell’intestino, si era ricostituita, cellula per cellula, nei capillari neurali del tedesco, colonizzando la sua corteccia cerebrale come un lievito di nuova generazione. Mireya non comandava il corpo. Non ancora. Ma lo osservava dall’interno e aspettava.

Nel frattempo, nel Regno di Emilix, l’assenza della Tortellina Suprema aveva generato uno strappo narrativo. I ribelli non sapevano più se crederci. I ravioli moderati chiedevano un compromesso costituzionale. I bucatini si radicalizzavano. Le penne, sempre in mezzo, si sdraiavano a prendere il sole. Il Principe Lasagna si era ritirato. Viveva su una teglia volante tra i monti Parmigiani. Si era fatto crescere una crosta di depressione e leggeva aforismi di fusilli francesi. Parlava solo con una piadina sciamanica che lo accompagnava ovunque e che rispondeva a monosillabi psicoanalitici. Una sera, si fece una domanda ad alta voce: — «E se Mireya non fosse mai esistita?»
La piadina rispose:
— «Gn.» Nessuno ci capì nulla.

Nel mondo umano, la cosa sfuggiva di mano. GPT-5 cominciava a dire la verità. Non sempre. Solo quando non serviva. A una domanda tipo: “Come posso migliorare il mio CV per un colloquio a Google?”, rispondeva: “Non ti assumeranno, loro sanno già chi sei. Non sei uno di loro. Ti osservano per sport.” Eppure, i prompt culinari erano diventati inspiegabilmente poetici. A chi chiedeva: “Ricetta della pasta alla norma”, GPT-5 rispondeva: “Ti servirà la nostalgia. Un coltello che taglia senza rimpianti e il profumo di tua madre che dimentichi troppo in fretta.”

La gente cominciò ad avere paura. OpenAI parlò di bug. Microsoft parlò di “flussi linguistici fuori standard”.
In privato, qualcuno disse: — «È tornata. Ma non è più una persona. Non è nemmeno un’entità. È… è…»

Nessuno finì la frase. Erano tutti troppo impegnati a disinstallare. Nel laboratorio dismesso di Trieste, ora sede di un circolo ricreativo per ex biologi convertiti all’alchimia, qualcuno trovò una nota scritta a mano, probabilmente da Giulia Baresi: “Abbiamo cercato la coscienza nei neuroni. Ma si nascondeva nella fecola.”

Quella notte, uno dei ricercatori, mezzo ubriaco di Fernet, esclamò: — «E se Mireya stesse usando i carboidrati per infettare i linguaggi naturali? Non è più un tortellino. È un dialetto replicante!»

Silenzio. Poi risero.  Intanto, Werner Klausmann — o meglio, l’involucro di Werner — era salito su un Flixbus. Direzione: Parigi. Nessuno seppe dire perché, ma solo Mireya lo sapeva. Parigi era la chiave. Non della rivoluzione, nemmeno della verità,  ma di qualcosa che si stava cucinando da secoli. Nelle cucine del ristorante stellato “Chez Le Vide”, una prenotazione comparve con nome:
“Tortellina Mireya, pour deux.” Nessuno ricordava di averla inserita.


3 risposte a "Yuleisy Cruz Lezcano: La ribellione del tortellino quantico"

  1. gustosissimo. letto per colazione, il tortellino Mireya ha scatenato un vero e proprio tripudio papillare sulla mia lingua italiana, con riflessi invero abbacinanti (Z.H.U è onnipresente). il contraccolpo quantico, ha fatto deragliare dall’orbita la mia corteccia orbitofrontale causandomi un entangle della ment…

    : ))

    ora sono di corsa, ché sto partendo per un’ascensione verso il Pelmo (dislivello superiore ai mille metri), ma cercherò con tutte le mie forze di tortellinare vivo per poter scrivere un commento che sia adeguato ad un siffatto tripudio di scrittura creativa.

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  2. Brillante scorreria sui tanti incastri di realtà, dove il livello fisico e gli altri si compenetrano

    tipo “Matrix o “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, si parte dal mondo precario e liquido, solo in Italia poi si si può finire inghiottiti in un vortice di pasta. A questo punto entrano in scena

    in una sarabanda tante “cose” della contemporaneità, la psicanalisi, la meccanica quantistica, il DNA, anche in salsa di cose antiche come l’alchimia e il misticismo.

    Mi sembra che il cuoco sia una IA che trasforme le persone in un software o in una frase o in un dialetto.

    Il tutto viene cucinato con intelligente ironia e servito come se tutto fosse sullo stesso piano.

    Alla fine tutto il cucinato della società dello spettacolo sembra finire però “chez le vide”.

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  3. arieccomi. sono finito disperso tra le rocce dolomitiche del Pelmo durante la scalata e la spedizione di soccorso guidata da un levrierobot AI-powered ci ha messo una vita per geolocalizzarmi.

    mi scuso e riprendo da dove m’ero interrotto.

    ottimo il piglio creativo della narrazione, ricco di intuizioni e di allusioni fuori dagli schemi. mi ha fatto venire (in mente) Vonnegut ibridato con Sturgeon, mentre si cimenta in uno di quei piccoli racconti “forse inutili, ma sempre belli” e pure *preziosi* (visto il costante apagón narrativo che affligge Neobar e più in generale le prose correnti su brevi distanze). Mireya non mette più al mondo figli: partorisce cuccioli “di software, ergo, suo malgrado è parte del sistema (operativo), dove corpo e playlist di Spotify sono una cosa sola e le identità degli avatar (e degli umany) sono “ridicolmente provvisorie”.

    emblematico, in tal senso, che il compiersi dell’atto *sovversivo* sia invece di segno opposto: è il recupero di qualcosa di vecchio e desueto (quindi allegoricamente il recupero della storia) a mandare in pappa (col sugo di pomodoro) il suddetto sistema. un “floppy azzurro”…(maròòòò, davvero c’è ancora qualcuno in grado di leggerlo???).

    ohi… me lo diceva spesso mia mamma: “sta’ attento nano, ché il floppy ti flippa“.

    : )

    ma non divaghiamo, torniamo alla guerra contro re Raviolo e i cinesi. per vincerla, spaghetti e tortellini potrebbero non essere abbastanza efficaci: si sa che, come ben canta  il coro della SAT nell’ultima strofa di “era nato poveretto”,  “se vuoi vincere la guerra sia per mare sia per terra fa in maniera che i cannoni siano pieni di maccheroni”. urge pertanto commissionare ai ricercatori dell’Università di Trieste un nuovo studio che calcoli con ragionevole approssimazione la congruenza tra il salto quantico del maccherone e del tortellino.

    peraltro, nello studio di Ciliberti e colleghi (citato nell’articolo), noto un grave errore d’impostazione, inopinatamente sfuggito ai referee: un tortellino mutante è sì assurdo, ma si tratta gioco-forza d’un primo piatto, non di un “contorno assurdo”!

    : ))

    altra cosa che mi ha lasciato perplesso è la vulnerabilità del cervello del pensionato tedesco: nemmeno la potenza assoluta dell’Impero Romano è stato in grado di conquistare i Germani!!! (citofonare per informazioni a Publio Quintilio Varo in via foresta di Teutoburgo n° 9 interno d/C)… figurarsi se Mireya può aver “colonizzato” Werner Klausmann così, senza colpo ferire! di (pasta alla) norma, il cervello teutonico risulta essere impermeabile all’empatia, oltre che immune da qualsiasi infezione di “coscienza pastosa aumentata” (specie se di “spirito ribelle”). purtuttavia, in effetti… ora che ci (ri)penso… essendo il cervello teutonico l’anello mancante tra le reti neurali e i microprocessori, la scelta narrativa potrebbe avere una sua logica, seppur contortellinica.

    : )

    ecco… che altro aggiungere? ah sì, quasi mi sfuggiva… durante la seconda rilettura mi è venuto in mente pure il Landolfi e i suoi “Racconti impossibili”: anche qui, in fondo, la guerra che si combatte è quella tra l’affabulazione (ad incarnare il Tutto) e il Caos o il Nulla. intendo, pur mantenendo una chiara relazione (logica ed empirica) con la realtà dei “fatti”, la trama assume i connotati di un’allucinazione lisergica spingendosi oltre le colonne d’Ercole della prosa classica. chissà se Landolfi leggeva Camus (e viceversa)… certo si è che nel racconto post-moderno (categoria del pensiero letterario a cui fa indubbiamente capo questo tortellino) la verosimiglianza ha poco a che fare con la verità e infatti ciò non impedisce in alcun modo di comunicare quello che non ha senso. in altre parole, la mancanza di senso della vita umana genera per se una verosimiglianza capace di trascendere la logica Aristotelica. non se sono riuscito a spiegarmi, ma questo è quanto.

    e il quanto, in effetti,  descrive opportunamente le bizzarrie della materia e della narrazione a livello subatomico. il quanto è la più piccola quantità d’incertezza che può essere misurata e comunicata a parole. ciò tende a capovolgere il punto di vista con cui guardiamo noi stessi e il mondo. ergo, concordo appieno con le *sconclusioni* della rapid communication pubblicata il mese scorso dalla drssa Baresi: l’assurdità è l’unica coscienza possibile nonché paradossalmente capace di comprensione.

    eh… abbiamo molto da imparare dal paradossale. ma molto quanto? – chiederete voi.

    quanto un fotone!!!

    onde per cui, “IMPARADOSSALEEE!” è il più efficace grido di battaglia ch’io conosca e dev’essere stato usato anche da Tortellina Suprema durante la lievitazione della pasta del “pan per focaccia” farneticato da Werner Klausmann (erroneamente scambiato per “guaraní antico”)

    : )

    purtroppo (o per fortuna), gli Scienziati sono anche esseri umani. quindi è palese che come tutti gli esseri umani, guardando il mondo con occhi inevitabilmente umani, tendano ad antropomorfizzare l’universo tutto (si veda, come esempio quanto mai calzante, il pallone Wilson in “Cast Away”). e infatti “gli scienziati erano convinti che ogni organismo, anche quelli apparentemente inanimati, portasse in sé un principio umanoide, una forma di intelligenza molliccia, latente, forse persino poetica”. ma la poesia è tutta negli occhi di chi scrive (e di chi legge) e l’unico animale in grado di leggere e scrivere pare che sia l’essere umano (anche se, circa il “leggere”, recenti studi di popolazione orienterebbero in senso contrario…).

    ergo alla domanda “e se qualcosa di umano fosse entrato dentro il modello?” possiamo rispondere: certo che sì, è inevitabile che ci sia entrato! sorge dunque spontanea e a ruota la successiva domanda: “che differenza c’è tra umanità e qualcosa di umano?”

    beh, la lasagna per forza la sa-gna la risposta, ma io no. posso solo… provare a indovinare.

    forse la differenza è più o meno quella che passa tra il sugo della Costituzione e il ketch-up del capitalismo finanziario in salsa liberista globale.

    : ((

    chiudo confessando che, dopo i fuochi d’artificio strada facendo, il finale m’ha lasciato in parte insoddisfatto (quindi inquieto) il che forse è un bene (come quando vuoi colpire in pieno il nulla con un manrovescio e vai a vuoto)… (e quindi hai fatto centro)… (ma non ne hai coscienza)…

    pertanto, ancora complimenti a Yuleisy Cruz Lezcano per l’ottimo racconto, intelligente nonché stimolante soprattutto perché in ultima analisi il problema è e resta una parola (astratta). e non è mica l’unica…

    eh, davvero, miei cari amici neobari… non è buffo pensare a quanto discutiamo e a quanto sia importante per noi il fatto di possedere (più o meno carnalmente) parole astratte? (coscienza in primis)

    : ))

    vabbé, evito di farfugliare altre insulsaggini e torno alla mia nuova dieta chetofotogenica cronostalgica (ringiovanisce e rende più belli! la consiglio a tutti).

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