Flaminia Colella, Guerrafesta, Cartacanta ed. 2022
con fotografie di Rino Bianchi
postfazione di Gianfranco Lauretano
Nota di lettura di Giorgio Galli
***
“E poi sorriderò perché so che la vedrete
________tra le macchine e le nebbie
anche voi la strada illuminata
quella grande e precisa che attende
i vostri passi potenti e concentrati
quella attesa tra autunni e primavere
troppo lunghi per calmare il pianto
ma imponente, dolce, calorosa
la strada delle strade vera al centro.
E sorriderò perché saprete riconoscerla
andando anche via per altre vite
o altre distanze se le troverete
sul sentiero che procede laterale
e sarà un attimo
_________alzando gli occhi al cielo
rivedere la sua forma
immeritata
felicità che voleva il vostro sguardo
pieno sangue che aspettava il vostro sangue
oro che brillerà nel centro esatto
_______per sempre.”
________
Al primo incontro con queste poesie, si rimane affascinati dalla luminosità: c’è una luce che a volte è calorosa a volte abbacinante, o tutt’e due le cose insieme. Altro tratto saliente è la semplicità: immagino questi versi come il frutto di una decantazione più che di un lavorio furioso di correzioni, immagino l’autrice comporli mentre cammina, tra la montagna e il mare oppure sotto le sfuriate del sole romano. Sembrano, le sue parole, il risultato di un lunghissimo ascolto, innanzitutto delle parole degli altri, e poi delle innumerevoli espressioni della vita: chi scrive ama la vita e le sue creature con una naturalezza commovente, la sua parola è parola laudativa, nutrita sì dagli studi, ma per poi germogliare come germoglia il grano. Una poesia religiosa anche, non in senso confessionale, ma perché sente sacralità di tutto ciò che esiste.
Gianfranco Lauretano nota, nella Postfazione, che Colella usa liberamente la rima, e che i suoi versi spesso sfiorano la misura dell’endecasillabo senza rigida osservanza, come una reminiscenza, aggiungo io, di un suono aureo, gravido di una tradizione amata ma non venerata. È, quella di Flaminia Colella, una scrittura intensamente musicale, anche dove distende il verso nella prosa poetica (valga questo esempio: “E c’è un’illusionista. Visitato da ombre e nubi scure, tiene nella testa i ritornelli di tutto il mondo. Guarda e vuol sapere da te se sei presente. Se il tuo respiro lo tiene ancora il vento, o è pronto già a morire, lentamente”). C’è spesso un Tu in questo libro, sempre un interlocutore. È una delle scritture meno solitarie che conosca, vi risuonano le piazze, le città, i crocicchi del mondo. Alcuni versi condensano questa costante interlocuzione e questa volontà canora: “Anima tua, canta!”, “questo amore che cos’è se non lo canti”. C’è amore, non solo l’amore per una persona ma l’amore che fonde la creatura a tutte le creature. “Cosa augurarti” scrive l’autrice “che non sia poter sentire che il tuo sangue appartiene a un altro sangue, che non è sangue di nessuno, o di qualcuno, è proprio il tuo, il suo. Dentro quelle vene e quella gola scorre, dentro quelle scarpe ha camminato, proprio sopra quella terra, e la benedice, e la dice, e se la porta a letto, nella mente, in quella mente che tu sogni, ora. Poi ancora”.
Eppure questa poesia è piena di lotte, rigata dal dolore del mondo. Lo si intuisce già dal titolo della raccolta, che intreccia guerra e festa. Più propriamente, non c’è nulla che si presenti senza il suo contrario, non c’è estasi senza durezza. Ovunque riscontriamo la compresenza di più dimensioni vitali, tenute insieme da un rigoglioso senso dell’equilibrio, con intensità e levità. In un luogo del libro si cita Eraclito, ed è un riferimento puntuale: il divenire incessante del suo pensiero incontra la motricità insieme vertiginosa e serena di questa poesia, l’accettazione dell’ambivalenza e polisemia del tutto, il polemos come scaturigine necessaria di ogni gesto creatore. Alcune poesie sono intensamente dichiarative, quasi l’autrice avvertisse l’urgenza di condividere il suo credo:
“È vero, tutte le guerre si combattono all’alba.
Tra la fame che striscia carponi
e una sete impossibile di azzurro.
…
La guerra oggi è tornata
a tutti appare sugli schermi
mentre cadono città
a centinaia di chilometri di qua.
…
Se devi vivere impara
il sale tra i denti a trattenerlo
nei lunghi inverni freddi
tra i venti dove non c’è pace
quando il mondo scompare,
se ne va.
E le vie fuori dalla vita
o ancor più dentro per cercarne
altra per te ancora non finita.
Impara che non c’è niente
se più non vedi e senti
il più piccolo rumore in lontananza.
Impara la distanza tra i guerrieri
e quelli via, già
via dalla danza.”
Altri luoghi hanno la stessa intensità dichiarativa: “Se devi vivere è per la verità”, “Se devi vivere è per la sincerità”. L’autrice si mostra esortativa, esclamativa, febbrile, mai arresa, ma anche docile alla dismisura di tutto ciò che vive: “Eccomi a te, mare, alle lotte / sono una che accende cerini nella notte / e cerca la velocità”. L’io poetico si dimostra più volte intrepido, temerario: ha il gusto del limite, ma non della caduta, se non nell’inevitabile. “Sia guerra o festa / la vita sulla terra / non tempo dal cuore infartuato […] / Sia guerra o festa anche la morte / benedetta sorella della vita / se muta invita a rimanere / per sempre innamorati della sorte”. Con un intelletto integrato nella poesia del mondo, senza tesi da difendere, l’io che ci conduce attraverso le parole di Guerrafesta è in uno stato di libertà e disponibilità in cui non si arretra, si chiamano le cose col loro nome, si ama il coinvolgimento ma senza dimenticare mai la levità e l’equilibrio. “Non voglio anni consentiti / una qualsiasi vita […] / Voglio esplorare le città / sapendo nulla di nulla di nessuno / un ventaglio di incerte verità / da illuminare. […] / facciamo quello che possiamo fare // Invece no, facciamo la passione / facciamo membra stanche e accese / di visione. / Si vive per vivere così / se vi è possibile: / non cercate la morte / solo l’incredibile”. “Fai pasto di noi, vita” chiede altrove l’autrice. Ma non bisogna pensare a un vitalismo generico: si tratta piuttosto di “Non tradire mai la sete che pretende grandi quantità del nostro sangue”. Chi scrive sa l’orrore dell’umano, ma è un orrore che ferisce la sua gioia. La sua parola non si sottrae al confronto con la realtà, anzi si ribella con forza all’indifferenza, alla cortina fumogena delle certezze tramandate dalla pigrizia: “I gabbiani puntano al mare / stanno sul fiume insieme a chi guarda / o fa una foto distrattamente / non vedendo, forse fingendo // non lontano / un uomo sta annegando”; “se ripetiamo le certezze consumate / fino a che non risuonano vuote / uccidiamo il canto del flauto / nella terra che non chiede scusa / se le schiene nemmeno si piegano / a piangere, / il dolore non si dice?” Sfilano in queste pagine anche guerre e cecchini. Ma non viene mai meno “un’onda di euforia / che non tramonta”. Si scrive senza sconoscere l’orrore dell’umano, ma nemmeno la forza primigenia che pulsa sempre avanti: “La tragedia, vita che cambia sempre”.
Con queste parole l’autrice immagina dii rivolgersi a amico suicida: “anche io ho le mani rotte / ma non ti saprei aiutare per finire / ti so dare solo ancora la visione / la passione per lottare o il disonore”. Altrove scrive “questo il suo dovere sulla terra // per ciascuno pagare col proprio sangue / il dono di ricevere la guerra”. C’è una poesia che, nel dire la durezza del mondo, adotta immagini che ricordano I fratelli Karamazov, il dialogo che precede la leggenda del grande inquisitore:
“Si vede dal treno che passa
la ragazza che corre tra le stoppie.
Il sole caldo di Toscana
e le case ai lati del selciato
in festa ancora dopo l’acquazzone.
Il dolore dei secoli sulle sue gambe
si scioglie felice in pianto
e le guerre, le nostre, sconosciute,
svaniscono di fronte al miracolo.
Una madre in Sicilia muore
suo figlio è divorato dai cani.
Ma i carri della morte non c’erano,
non c’erano a vederli morire.
Luce sarà stata alla fine.”
A cosa affidarsi in questa visione così consapevolmente appassionata? Forse all’amore per tutto ciò che è ancora mistero, all’amore per il fatto stesso che, al di là di tutto, esiste l’inconoscibile. Certe volte l’autrice si muove col passo di una sensitiva, come una che vaga tra le cose ultime, anche le più oscure, e difatti due figure ricorrenti sono il rabdomante e il sangue. Senz’altro all’amore, un “amore non ha mai saputo la pietà”:
“Dico mio amore. Dico sacro.
La mia parte di mondo
benedetta dall’acqua.
Balleremo il valzer
per sempre, alla fine del tempo
sotto un cielo grande, che ci ama
non saremo fuori dalla vita
ma con quella di tutti accanto
così com’è sgorgata dentro al sangue.“
Se, per forza di cose, non tutte le poesie possono essere alla stessa altezza, è pur vero che i cali di tensione sono rari, non ci si “stanca” mai. L’equilibrio formale è cristallino. Colella non usa parole preziose, cerca la naturalezza, cerca una musicalità cangiante ma sostenuta dal ricordo del metro e della rima. Cerca la luce creaturale e, soprattutto, si attiene a una sincerità toccante ma rigorosa: “Eccomi, se mi conosco è per amore / di un viaggio o sottrazione / da tutto che non sia il mio vero volto // finalmente, mi presento, sono quello / che hai sognato questa notte // sono un altro o è vero: / mi volevi al mondo?”
***
Flaminia Colella (Roma, 1996) dopo gli studi classici consegue nel 2019 la laurea con lode in Giurisprudenza, presso l’Università Luiss Guido Carli, con specializzazione in diritto civile. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 2018, dal titolo Sul Crinale e molti dei suoi componimenti vengono tradotti e pubblicati su riviste italiane, inglesi e spagnole. Nel 2020 suoi testi in prosa compaiono su diverse testate giornalistiche, tra cui il settimanale “Panorama”. Nel maggio dello stesso anno vede la luce il suo lavoro poetico La voce del fuoco, libro edito da Cartacanta editore all’interno della collana di poesia “I Passatori”, curata e diretta da Davide Rondoni. È autrice del romanzo Figlie dell’oro (La Lepre Editore, 2024).

naturalezza e musicalità sono pregi non da poco: una parola che sappia germogliare come il grano è una manna per la “fame” di vita dell’essere umano (a meno che non sia celiaco, eh…).
leggendo le parole di Flaminia Colella (attentamente commentate da Giorgio Galli), la sensazione è che *questa guerra* sia il nostro pane quotidiano, tant’è vero che “torna ogni oggi”. è dunque doveroso combatterla soprattutto contro se stessi, avanzando “carponi” per ritrovarsi (sporchi e con entrambe le ginocchia sbucciate, “dolore dei secoli sulle sue gambe“) in un “azzurro“ che comunica il sapore ferrigno del sangue (come il terreno).
sì, insomma, è vero che la vita “ci ha fatto la festa” (nel senso di “conciato male, per le feste”), ma ciò non deve impedirci di lottare contro il “tempo”, sfruttando ogni possibile (inconoscibile?) gioco di “luce”.
in questo modo, anche quando – inevitabilmente – perderemo la guerra, non saremo mai “fuori dalla vita, ma con quella di tutti accanto“.
molto calzante, dunque, la notazione di Giorgio Galli, quando sottolinea che la poesia di Flaminia Colella “è una delle scritture meno solitarie che conosca”.
(ps: chiedo scusa per l’involontaria sovrapposizione in data odierna col mio post sull’AI: ho cominciato a scriverlo stanotte e solo dopo averlo finito e pubblicato stamattina mi sono accorto che era già stato inserito questo articolo).
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