Patricia Panebianco: Illiquida

kazuya akimoto
kazuya akimoto
Mi si strozza di gioia la mattina
sveglia in questo sensato non amore,
pane nel microonde e niente fumo
ché vivere fa male, fa morire.
I passi sono grigi e ben posati
non si muove una foglia se respiro,
non cade, figuriamoci parlare,
discutere del vento, fare amore,
ché vivere fa male, fa morire
e ho imparato il perfetto navigare
fra il mio letto, la doccia e la cucina,
ogni tanto si punta verso il nord
ma si sa che è per finta, per tornare
ché vivere fa male, fa morire.

Ma la scure che scende con le gocce
quando piove o nel bagno o nel sudore
è che quando si scalza fuori il cuore
non c’è acqua che cade che sia pianto.


16 risposte a "Patricia Panebianco: Illiquida"

  1. Endecassillabi che si sciolgono in una mappa emozionale che diverge verso l’alto. Come con dei vasi comunicanti, creano un flusso che trova orientamento se non nel dolore (ho letto da qualche parte che le gocce non sono mai uguali, cadono come schegge di proiettili una diversa dall’altra):
    Ma la scure che scende con le gocce
    quando piove o nel bagno o nel sudore
    è che quando si scalza fuori il cuore
    non c’è acqua che cade che sia pianto.
    Grazie.

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  2. Conosco Patricia Panebianco da diversi anni, ormai: è tra quelle autrici che riconoscerei, anche senza la firma.
    I suoi versi – scardnano insieme alla potenza del suono delle parole.
    I suoi versi, sono operazioni chirurgiche – talvolta non anestetizzate – crude.
    Qui – le parole sono una scure, arrivata appena un secondo dopo il disincanto – nessuna consolazione, nessuna- a squarciare tutto il male dentro – “quando si scalza fuori il cuore”

    “Ma la scure che scende con le gocce
    quando piove o nel bagno o nel sudore
    è che quando si scalza fuori il cuore
    non c’è acqua che cade che sia pianto.”

    Complimentissimi, Patricia – in bocca al lupo per ogni cosa.

    E a te Abele – sempre onore al merito per la divulgazione

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  3. Ci sono versi, come questi endecasillabi, il cui impatto emozionale risulta così forte che è difficile per chi legge liberarsene.
    Il male di vivere, il dolore del vivere, “navigano” di verso in verso, come un’onda “illiquida”, non tanto fluida da essere acqua, né tanto densa da essere corpo (è una parola bellissima “illiquida”, per altro). Così, ogni volta che rileggo questi versi, torno ancora a sentire forte e chiara l’emozione della prima volta, di quando questa forza illiquida mi è tracimata per la prima volta dentro.
    Grazie a Pat per averla scritta e ad Abele per averla proposta.

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  4. percorsa da quel refrain bellissimo che è il verso:
    “ché vivere fa male, fa morire”
    colpisce moltissimo per la forma dei verbi all’infinito, ad indicare sia una universalità dell’essere-azione, sia una loro continuità nel tempo,
    tanto più grazie alla cesura di quel “fa” che agisce, ma che non interrompe il flusso.
    Lo stesso gli oggetti quotidiani, il fumo, il pane, le foglie, finanche la bussola di un nord – stella polare (“ma si sa che è per finta, per tornare”).
    Bellissimo quel senso della scure che de-capita.
    Molto molto bella. Ciao. (ah dimenticavo il titolo: superbo)

    e complimenti anche ad Abele.
    questo tuo blog è proprio un ottimo ritrovo.

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  5. spetta-colare (dopo la doccia fredda di parole) lo *scalza* in chiusa, nel duplice valore di “andare a piedi scalzi” e “sradicare”.
    vieppiù, quel cuore a piedi scalzi, proprio nel letterale surreale (da immagine assemblata al photoshop), m’evoca a braccetto l’inquietudine subliminale d’un brusco scivolone sul bagnato…

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