Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. (M. Proust)
1. Fritti
Metti una sera di metà giugno a Roma-Eur, al Villaggio della Cultura, dopo l’incontro con Abele Longo, il gentleman anglo-salentino e la sua Reversibilità
(c’è uno straccio e un coltello contro il toro della paura, /c’è un cigno e un sogno dentro i miliardi di molecole di un sospiro”); metti una trattoria romana tipica, “Checco allo scapicollo”, con tutti asiatici a servire e cucinare , tranne una cameriera ucraina; metti che tre “salentini anomali”, Abele , io e Vicenzo Errico, poeta di “Culo Pazzo” dotato di seria ironia (“Sempre cerco altro/ rispetto a quello che vivo,/come uno che negli agi/ più non li conosce”) vanno a farsi una pizza, odore di fritto, ironia e un pizzico di malinconia.
Vincenzo avrebbe dovuto ordinare i Fritti della sua silloge (Quante notti a muoversi e non dormire,/sotto lune di gradi diversi,/a sperare strategici piani,/ progetti sociali di una base imperfetta/ che sogna assemblee nazionali./ E poi donne che muovono mondi,/ relegate a domestici regni,/ mostrare le loro fortezze/ anche sotto spoglie smentite.), invece no. Ordina pizza come noi, ma con le verdure che salvano il colesterolo e “riempiono le memorie”.
Con quella faccia un po’ così, da antico messapo sorridente, il segno indelebile che c’è rimasto sul suo viso olivastro, la luna sghemba di Collepasso che va sempre per altri cieli, i faticosi studi di giurisprudenza a Urbino, città modello rinascimentale, i fiumi d’inchiostro versato nei lunghi viaggi con trenini da Far West, le maree di carte da bollo listate a lutto, per quella storia da avvocato fallita o mai veramente nata,- storia diversa di gente normale, storia comune per gente speciale, storia un po’ sputtanata, storia sbagliata, come direbbe De Andrè, – Vincenzo è ora uomo impassibile, non batte ciglio, sorseggia una birra fredda alla spina, e snocciola un’altra poesia: Strade di un centro abitato/ strette tra case piene di aperture,/linee che si insinuano/ nelle familiarità degli altri./Così mi apro allo sguardo del mondo,/in un labirinto pieno d’inganni,/e mi muovo tra un deviare/ e un proseguire./A filar la lana del lamento/si arriva ad avere coltri calde di tristezza.
Il filo messapico non s’è mai spezzato, ma ora viaggia ride e vive con un suo ordine discreto nel cuore, non è impigliato nei lacci delle anime oblique , non vuol guarire i ciliegi feriti, né continuare a sopportare e a sanguinare, facendo l’avvocato per clienti già condannati, per applicare codici già violati. Vincenzo ormai s’è romanizzato, burocratizzato. E’ più di vent’anni che sta nella Roma Capitale e lavora in una scuola pubblica come segretario delle Nuvole aristofanesche ( “Cantami di questo tempo /l’astio e il malcontento/ di chi è sottovento/ e non vuol sentire l’odore/ di questo motore/che ci porta avanti/quasi tutti quanti”). Dentro di sé li ode ancora quei giorni passare dentro e fuori la memoria , ma non si torna indietro ( In dietro si torna dove casa è seconda,/ pieni di fumo di camino della prima,/ di legna d’ulivo che arde a oltranza/ e verdura a mazzi che riempie la memoria).
Sparsi frammenti obliqui – scrive Mannaja – di cui s’avverte il profumo che “coseggia” nell’aria, la “madonna con il colpo della strega”, il vetro di luna , il nudo movimento del viaggio, e il fluire dinamico della parola e dei pensieri che talvolta fa da ossimoro … il tutto condito con un sorriso a tratti amaro, una sorta di trattato filosofico in doppio petto.
2.Fuori sequenza
Vincenzo Errico sta a metà tra il Bodini della terra di nessuno e il Kavafis delle seduzioni della storia e della cultura, incrocio tra esperienza e riflessione, una sensibilità e una sensualità che attira, che innamora, che cattura il lettore, trasforma le sue reazioni in riflessioni. E poi con quel suo arrampicarsi su se stesso, con tutte le sue energie, dolci e forti, non maschili, non femminili, ma vigorose e tenere che incarnano azioni, diventano destino individuale e storia. Sta lì nel regno della sua solitudine per mistificare o sublimare le insopprimibili emozioni personali, l’inafferrabilità della bellezza, e la storia vista solo come terreno di scontro tra l’uomo e la sorte, evocata in una sorta di film, in sequenza di immagini talora decadenti, dove si vivono solitudini simultanee, percorsi da anime perdute, tra ironia e malinconia, disincanto e stoica austerità. Il suo interesse per la letteratura e la poesia è molto datato, risale all’incontro col professore Aurelio D’Andrea, fratello del poeta Ercole Ugo, quando era un ragazzo, faceva il liceo e sognava un cavallo d’argento per andarsene a spasso come un indiano nei suoi colli antichi, Collepasso, Parabita, Tuglie , fino alla piana di Alezio e poi, infine, a Gallipoli, la città bella, il mare, la luce infinita e i tramonti insanguinati sul mare. “Cos’è l’eternità? Il mare mescolato al sole”, disse Rimbaud, il suo poeta preferito, ci fece anche una tesina per la maturità. “Il battello ebbro”, una stagione all’inferno, le illuminazioni, e infine il deserto, il commercio d’armi, la morte per una cancrena ad una gamba, accanto la sorella …Il più grande rivoluzionario della poesia con Baudelaire, anche se c’è nella sua cifra domestica e nei suoi costanti esili della coscienza un che di Scotellaro (E’ tempo questo di un canto vivo) . Anche lui, Errico da Collepasso, è un tipo “fuori sequenza”, mi dice Abele Longo, che ha perso l’accento salentino , a differenza di Vincenzo, e lo conosce da tempo. E’ un tipo strano, un tipo acqua e fuoco, con un suo universo sonoro, senza musica registrata, un tipo che naviga e sogna nella materia vivente, uno da cartoline.
3. Cartoline
“Che cosa sono le poesie se non cartoline? Come le cartoline parlano di luoghi, anche se spesso immaginari, remoti o soltanto della mente. Come le cartoline eleggono un interlocutore privilegiato, destinatario dei nostri rovelli, paure e confessioni”. Ecco allora Istanbul, con le sue moschee grigie da sangue e pelle , imprigionate , che non possono più volare , ecco il muezzin che canta la colonna vertebrale spezzata : “E di Istanbul che dire/ se la santa sapienza,/velata moschea, tarda a tenersi perfetta,/ coi fumi d’incenso/che più non si vedono/ e frammenti di volto divino riflesso?// Colonne spezzate/ ai lati di strade,/su marciapiedi erbosi, al bivacco di vecchi/ che giocano a carte,/ in ozio speciale. Poi Vienna, chiusa nel suo cielo pioggia, nel freddo delle sue strade senza alberi e senza serpenti. E il “Bar delle mutande” (dove) ci incontrammo,/ non era un richiamo, ma uno sbaglio./ Tu eri sui gradini della chiesa di Alessano,/ io al bar a Montesardo./ Contrattempi riequilibrati su altri gradini/ a raccontarsi del passato ieri,/di come l’estate abbia sfoggiato il suo teorema senza i cadaveri degli anni prima. “Vincenzo è un compagno di viaggio. Ma è un viaggio che ci sfugge, soprattutto nel caso di uno come lui, fedele al suo sguardo luminoso e sornione allo stesso tempo”. Eh, sì, è vero. Errico ha una sua forma, una sua spina dorsale, una sua storia personale da congedo irrimediabile, senza riscatto, senza consolazione, con un suo gioco dinamico, un ritmo particolare, interno che somiglia ad una sciarpa cincischiata e manipolata a caso. “Piove /una sciarpa/ e mi bagno”. Il mondo non si interpreta o si trasforma: va in decomposizione.
4. Ribaltamento
“Vincenzo – continua Abele – utilizza magistralmente la tecnica dello spiazzamento, del ribaltamento, che serve a creare un certo straniamento, necessario per riportare il mito (l’infanzia) alla sua quotidianità, per poi allontanarsi dalle nostalgie canaglia, dalle facili tentazioni/cadute nei luoghi di sempre”.
Per concludere possiamo dire che la sua poesia è la solita canzone di tutti quelli che hanno perduto la terra (gli esiliati, gli zingari, gli immigrati) e cantano lo spazio , il mondo: ci sono incontri nello spazio che ti sorprendono ogni giorno, ogni istante e ti trasformano , e trasformano chi legge le sue parole. Il suo segreto non sta nell’agire, ma nel “reagire”. (“La piccola che ho a casa/ ha un naso delicato e occhi incantati/che guardano dentro le cose/ che non vede bene.//Ama ciò che ha e ciò che non ha più,/fuori dal tempo,/ come il mio ricordo di lei nello scialle blu,/una sera di ritorno a casa / con mio padre e i miei sette fratelli”).
Alla fine possiamo concludere , come qualcuno ha osservato, che è una poesia che sa stare coi piedi per terra, e che pure si eleva alla grandezza assoluta della vita comune.
Roma, 21 giugno 2013 Augusto Benemeglio
http://neobar.wordpress.com/2010/03/21/vincenzo-errico-fritti/
http://neobar.wordpress.com/2012/12/21/vincenzo-errico-cartoline/
che magia d’essere…
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Della stirpe regale di chi sceglie e pratica l’understatement, la scrittura di Vincenzo Errico conforta e affianca, compagna di viaggio dal sorriso sornione e benevolo, la pazienza quotidiana. Quando poi, come ben narra qui Augusto Benemeglio, all’incontro con la scrittura si aggiunge quello con la persona, la voce, lo sguardo, lo “snocciolar poesia”, al Salento e a Roma e al deserto
“La mia sceneggiatura
chiede soggetto e tempo,
non si fa da sola
e nel deserto
inneggia a sé”
(Vincenzo Errico, da “Fritti”)
subentra, facendo capolino, il girovagare discorrendo del circolo Pickwick. Ed è festa.
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Che bella pagina…
D.
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Che “bomba a mano” di/con fuochi d’artificio a festa che mi hai lanciato, Augusto! Grazie infinite, infinitesimali sillabe raggruppate a comporre un imbarazzo che osa mostrarsi in faccia, alla fine e con intensa riconoscenza. Attenzione a mangiare una pizza con Augusto! Ho letto questo ritratto, e sei grande in questo, come se riguardasse un mio omonimo, un sosia a sorpresa del qui sottoscritto che ha letto e riletto il sopra-detto, scusa la caduta, ma inciampo spesso. Evito però (come direbbe Mr. Weller del Circolo Pickwick dell’argentina Evita quando non se la sente di ridipingere di verde la Casa Rosada) di sezionare il mio grazie, facendolo in realtà, per ogni passo e passaggio del tuo “racconto”. Passo perché saprei dire solo una brevissima declinazione della parola grazie. Maestro sei nel mettere insieme i pezzi (anche quelli che mancano) delle storie che canti.
Ringrazio Abele, Simonetta, Fernando, Doris, Anna Maria, Francesca e tutti quelli che hanno “perso” tempo a fermarlo, un pò, qui.
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Vincenzo, ahi ho perso, oltre alla bellissima serata di Reversibilità, anche i tuoi Fritti detti dal vivo (ma li leggerò su carta!) e la pizza salentina. In tanto ti ho letto con gusto attraverso l’affabulazione di Augusto il Grande, nostro salentino che più non si può pure se di adozione, che fotografa e restituisce le minime tracce del “sale ” sulle nostre fronti, con un incanto indescrivibile. grazie grazie a tutti voi di esistere, dando questa sapidità al mondo. vi abbraccio,
annamaria
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Grazie a te, Annamaria, e a presto. Un abbraccio.
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Ciao Vincenzo, è sempre stimolante leggere i tuoi versi!
Un caro saluto a te, Abele e Augusto,
Rosaria
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Grazie a te, Rosaria, per la tua lettura.
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Mi è piaciuta da subito, sin dalle prime volte che ho letto i suoi versi, la poesia di Vincenzo, e questa bellissima recensione di Augusto ne riassume alla perfezione senso e ampiezza.
grata anch’io che ci siate.
vi abbraccio
cri
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Un caro grazie a te, Cristina.
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