Stefano Llòrit, Addenda, Roma, EdiLet, 2012
Si è parlato dell’ermetismo, della involuta cripticità della poesia di Stefano Llòrit, della manque de clarté delle sue immagini e delle sue antimetafore, ma in realtà il poeta romano, con il suo procedimento «onirico-veggente», sembra aver messo, come dire, sulla tavola di dissezione dell’obitorio il linguaggio non referenziale basato sull’utilizzo degli scarti del significante; è un procedimento talmente chiaro (proprio per aver metabolizzato la parentesi dell’esperienza surrealista, che nella tradizione italiana del Novecento ha avuto così poco spazio) da apparire del tutto oscuro. L’aspetto più significativo di questa poesia è il suo sottrarsi allo scandaglio della interrogazione; la poesia di Llòrit costruisce un reticolo, un mosaico di insignificazioni, di non-descrizioni, di antionirismo sopra vicende-non vicende, sopra tematiche che negano se stesse, astratte, asemantiche; si dirà un compiuto sistema polisemico, a partire dalla polisemia delle (non)immagini, che preclude, anzi: sbarra il passo ad ogni indagine inquisitoria del lettore. Il pensiero poetante di Llòrit non indietreggia di un passo, ma segna il passo. È una scrittura immobile, un discorso assertivo che va avanti per frasari apofantici e aporetici («Antropocratici argomenti»). «Parole enigmatiche, parole cifrate: ci si dovrà guardare» – scriveva un critico tedesco, il Kastner – «dal risolverle, poiché esse potrebbero allora rivelare il loro segreto». Ma ci si dovrà anche guardare dal non risolverle, per lasciarle semplicemente scorrere nell’orecchio, così, senza una ragione. Le poesie di Addenda recano un destino, un télos: sono la biografia traslata dell’universo antropomorfo. La «novità» di questa poesia è nel suo essere non-novità, nel suo voler resistere al tempo cronometrico e a quello della reificazione; anche l’universo ha la sua reificazione e la sua menzogna, anche l’universo soffre per la solitudine narcisistica derivante dal dolore dell’estetizzazione del reale. Forse, sembra dire Llòrit, dio non sempre gioca a dadi, ma quasi sempre, e in qualche momento si è distratto ed ha inserito (o meglio si sono inseriti) degli anticorpi, degli universi «oscuri», delle stelle nere, dei buchi neri, dei buchi bianchi, la luce bianca delle stelle e quella nera delle stelle oscure. C’è molta «materia oscura» in questa poesia: Llòrit è un poeta impegnato in un discorso a-topologico e a-cosmico di difficilissima realizzazione, per via della constatata perdita del luogo della poesia moderna, che forse finirà per proiettare questa poesia in direzione di una narrazione de-storicizzata, de-liberata. In fin dei conti Llòrit prende atto che la poesia moderna non è più riconoscibile, non abita più un luogo spazio-temporale e non può che finire nella utopia realizzata della società globale. Al di là della visione astratta e asemantica di Llòrit, questa poesia è anche un pegno di lettura per il lettore attento ai momenti, rarissimi, durante i quali l’autore sembra svelarsi contro le proprie intenzioni. Ma è la impossibilità di articolare un discorso poetico abitato dal senso semantico, quello che sta a cuore al poeta romano: la semantica che si disfa e si sfarina in una fluidificazione universale. Proprio nella scansione del suo finto strofeggiare la poesia di Llòrit trova una sua claudicante imperiosa (in)affidabilità espressiva.
Giorgio Linguaglossa