Marco Bellini, Sotto l’ultima pietra , La Vita Felice
Della poesia si è detto tanto, si è detto poco, si è detto male, eppure… , eppure dura nel tempo, resistente, malleabile e sempre uguale a se stessa.
Quale divinità la abita se i suoi semi hanno sempre trovato terreno fertile per germogliare , quindi sbocciare in un bouquet sempre diverso per forma , colori, profumi?
Quando capita di leggere un libro come questo di Bellini, queste domande a cui in tanti hanno dato risposte mai esaustive, si affacciano spontanee alla mente.
Il libro non contiene poesie sentimentali, epiche, tragiche, filosofiche, narrative, e via elencando; non cercano la facile complicità del lettore, forse non cercano neppure un lettore, sono complete in sé come un manufatto perfetto a cui non servono ammiratori.
Eppure questa poesia dice di gente e di luoghi , di eventi e di mali, di essere e di stare. Lo dice in una forma labirintica, sottotraccia e con una forza implosiva incredibile. Bellini non cela ciò di cui intende dire, semmai oltrepassa la cortina sentimentale e fumogena che irrita o falsifica la verità: “ Il lago portò un corpo, una restituzione/…..(————————) Domani ne avrebbero parlato/ se non c’era altro”. A dar corpo alla concretezza , il libro presenta nella prima pagina il percorso dell’Adda con i titoli e le collocazioni geofisiche delle poesie, è un nuovo tipo di mappa che inizia alle sorgenti e prosegue fino alla sua immissione nel Po; naturalmente la topografia ha una sede e una significanza psicologica e mentale nel suo estensore, non certo per il lettore Sono una decina di poesie che cesellano l’infanzia, i riti, gli eventi e tutto è ancora vivido ma non urla , eppure il suo sussurro è dolentemente tragico.
I bambini che l’ascoltavano oggi sono nonni
questa storia vorrei metterla sul foglio
per non perderla, una storia che sta solo nel vento.
Viveva d’ombra nella voce dei vecchi
……………………………………..
I ricordi sono ancora vivi , composti in figurine precise, intatte e integre nei gesti, a volta possono sembrare tenere, frutto della celata pietas del poeta , ma questa prima sezione si conclude con due terribili versi “ le ossa sparse/ nella voce del pescatore.”
Neppure il mondo agreste sa dire di luci e speranze . La successiva sezione porta il titolo e le nefandezze abitano il nostro corpo, vivono nei nostri comportamenti “ Lo sappiamo/ qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra. Sotto quest’ultima pietra si troveranno solo vermi, un verminaio brulicante che ci terrorizza ma che dovremo affrontare, almeno eticamente.
Dunque è un libro di poesie che ci chiamano alla responsabilità e all’impegno; se ne scrivono tanti in questo periodo dove i malesseri dei singoli e dei popoli non si possono più negare; molti però sono scritti con penne grevi, stillanti livori, che separano i buoni dai cattivi, e , nuovamente, nessuna parola saprà farsi azione/ comportamento, al massimo può trasformarsi in slogan.
Nessun verso di nessuna poesia di Bellini rischia lo slogan; il loro dire è venato di una melanconia straziante e irrimediabile; su questo mondo non sorgerà nessun “sol dell’avvenir”; una bruma cattiva avvolge un mondo ormai urbanizzato e il poeta sceglie alcune scene per farne paradigmi esistenziali di miseria , solitudine, incapacità di ascol-to, e ancora ripetitività e solitudine. Non importa se il soggetto è maschio o femmina, non muta la sorte; ciascuno ha scaramanzie non meno dolenti del futuro atteso. Ma non si può attendere nessun futuro quando già si sa che sarà perfettamente uguale al presente.
Certamente non è poesia consolatoria questa di Bellini e neppure farmacologica, forse diagnostica. Nessuno parla più, anche la natura ferita è stata silenziata e resa inetta, non partecipe. All’interno del vasto arazzo del poeta troviamo diversi i luoghi e le figure, sempre uguale il filo e il punto che disegna intreccio e trama.
Narda Fattori
LE DITA SULLA RETE
(Un campo profughi nel terzo millennio)
Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee nere regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.
Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose,
una sedia, una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati
nell’urgenza del distacco, 0 Forse per appartenere ancora.
Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene la possibilità
di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno. Lo sanno,
domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.
A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’ avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra.
L’ALTA VIA
Il sentiero di montagna sembra il rimedio.
Nella differenza dal cemento, i colori finti,
la possibilità; di una leggerezza, abbandonarsi
alle fibre di ogni passo, specchiarsi
nella corteccia di un larice.
Gli scarponi muovono il pietrisco
che risponde dentro un rumore ruvido.
E la forma del contatto che afferma
un attimo, un posto per le pierre,
per me. Ci si può nascondere
anche in piena luce sopra la carne
della montagna, presenza verticale
capace di ghiaccio e accoglienza.
In basso al parcheggio, l’ auto
con il cellulare l’ orologio gli appuntamenti.
In alto lungo l’ alta via, il tempo
riposa dentro una conchiglia fossile,
riposa del rumore il mare.
NUOVE ABITUDINI
L’essere una moglie per trent’ anni
era stata una buona scuola: aspettarlo sempre.
le mattine che si aprivano sulle domeniche, portavano
il suo ritorno con il bosco sotto i piedi;
allora toccava a lei, i funghi da seccare o le castagne da incidere.
Ricordava esattamente dove si trovava
quando aveva ricevuto le telefonate: la prima,
il chiasso dell’incrocio, un piede rimasto giù dal marciapiede:
non era tornato al punto concordato. L’altra
al supermercato, la musica diffusa nelle corsie:
piegato, stava tra i cespugli, fermato
nei suoi boschi; così il ritrovamento.
I pochi giorni in cui
si era definita la situazione, come un cardine,
sarebbero stati un appoggio
per il tempo messo dopo, senza più pensare
ai cespugli, quel sentiero pericoloso, lui piegato, lui
che non la faceva più aspettare.
Gettare via i vestiti usati, il bastone curvo
(ci spostava le foglie), la rabbia
come un odore pesante nella casa,
i disguidi accettati come normalità.
Le nuove abitudini premute sopra.
IL BAMBINO ATTESO
Pochi giorni prima di Natale evacuarono il campo
le baracche arrangiate come gli orti dei vecchi.
L’ordine era del Prefetto
la gente era stanca, teneva i bambini in casa.
Erano tutti clandestini dissero
tutti cercavano una terra
ma questo non fu detto.
Sotto l’ avanzo di una lamiera,
il giorno della nascita, restava
una scarola di cartone appoggiata su un lato;
era la grotta erano i protagonisti
tutti alloro posto.
Giuseppe aveva un braccio rotto. Mancava
e ancora sarebbe mancato, il bambino atteso
il bambino dimenticato.
LA FISARMONICA
Tutti abbiamo un urlo pronto in tasca
tra le monetine rimaste di un caffè
e un biglietto con un numero:
<< chiamami» disse al bar.
Dietro la barba, all’ angolo tra le due strade
parlarono delle urla che sostano
che ti prendono alle spalle.
Disse che le conosceva, lui aveva
l’Albania che non gli taceva dentro.
disse che raccontavano la fine delle cose
c che per fare bene il loro mestiere
chiedevano silenzio e le pance aperte.
Lui afferrava una fisarmonica.
LE CASE DI BLERA
Nenne d’Orlandone era il suo nome tenuto assieme
raccolto un pezza alla volt DALLE GIORNATE
(la carta d’identità diceva Vivenzio, patrono di quellecase).
Non c’e pagina o sabbia che lo riporti .
II sonno mischiato al vino, affidato
alle grotte. Diceva: «tombe antiche
per prendere confidenza che presto ….. ).
Cosa in lui fosse rimasto della carne etrusca
oggi molle nelle case nelle case di Blera,
quale affinità nel profilo con il profilo
dell’Apollo di Veio, disattesa,
non si ha misura. Pensarlo bambino
era per tutti la cosa difficile, un’infanzia
che era stata una bugia raccontata alla vita
messa lì sulla strada a domandare dalle tasche
da una borsa, un resto rinunciabile.
Tutti sembravano aspettare, chiedersi quando
con lui, sarebbe finito l’imbarazzo
quell’umore che tira giù, che resta
come una malattia, la sera chiusi
nelle case di Blera.