La sindrome di Bálint-Holmes (e altri disturbi del riconoscimento)

Oggi abbiamo capito
che bisogna essere in due
anche per essere soli.
E che persino le idee migliori
prima o poi finiscono
per sorprenderci in vacanza
o nei momenti più felici
di maggiore disattenzione:
una vasca da bagno, una mela
che dopo tanta fatica
cade all’ombra di un albero di mele.
Cinquanta e cinquanta,
il cinquanta percento.
Ci alziamo, riceviamo una spinta
dal basso verso l’alto.
L’ideale sarebbe arrivare
a non pensare a niente e stare
al nostro posto e senza nemmeno
tremare con la gamba, senza
nemmeno sentire il bisogno
di chiedere una penna al primo sconosciuto
che passa e scrivere qualcosa
sui tovaglioli dei bar.
Dobbiamo ancora ordinare
(due caffè al tavolo fuori).
Né possiamo restare
anche se ancora vorrei
imparare qualcosa di me,
da scriverci un libro, da raccontare
ai miei figli.
Perché il cervello umano è diviso
in due come una cellula, un uovo
che frigge.
E per semplificare diremo due
parti uguali ma la destra non sa
cosa fa (la sinistra vede l’albero,
la destra la foresta).
Dove andremo
a finire se non ci muoviamo
da qui, seduti stretti
con le ginocchia al petto, il collo
storto tra le regole e il superamento
delle regole che storicamente
definiscono un genere
letterario (approfondimento,
incubazione, illuminazione,
verifica) piuttosto che un altro.
Va bene. Spegni, chiudi, usciamo.
Un altro shampoo, il vento troppo freddo
o troppo caldo di un vecchio asciugacapelli
che dovrò dimenticare in un altro albergo.
E non abbiamo colpe se forse è l’ultimo
volo anche se ancora vorrei inventare qualcosa
di me, da scriverci un libro, da insegnare
ai miei figli. Ma avevamo preso
tutto. Leggevi, è la stanchezza
la prima causa di insonnia.
E io che credevo
di non ascoltarti nemmeno: domani
il piano di lavoro è alzarsi presto
e andare a letto prima
di morire di sonno.
Non piangere.
L’ideale sarebbe arrivare
in tempo, andrà tutto bene.
Non c’è niente da fare.
Parlando così, a parole
uno potrebbe pure pensare
di chiudere piano le porte
da cui non rientreremo mai più
e restare qui, non troppo lontano
né troppo vicino, al centro
di una piazza senza nome, nel punto esatto
in cui nulla potrà succedere
e ogni tanto farlo sul serio
per vedere gli altri che direbbero
al posto nostro, che farebbero
dopo tutto questo tempo
non lo so, uno si siede per terra,
i ricordi non si toccano, perché
non diamo un occhio all’altro lato
della strada dove il buio arrivava
fino a fuori, una coda così lunga
che avevi una buona probabilità
per una volta, almeno, per un momento,
di non essere né il primo
né l’ultimo dei miei pensieri.
In quest’ultimo tratto
di autostrada
anche i villini sembrano costruiti
con materiali di recupero
e strutture di riuso, feticci
di spontanea incoscienza, non c’è tempo
d’intonacare, il ferro arrugginito
spunta dai tetti, dalle terrazze sul mare.
Luminescenti si avvolgono e si svolgono
in invisibili spirali di nostalgia
i nastri magnetici delle audiocassette,
alcuni CD appesi ai fili di nylon
lampeggiano come specchi rotti
e scintille di vetri di bottiglia,
altri annodano alle ringhiere sottili
strisce di carta da regalo.
Brillano come alghe oro-argento
di una chiglia abbandonata,
come vele strappate, tende nel deserto
oscillano, ondeggiano mute
come le ragazze dimenticate
in una bianca capigliatura
di riflessi e colpi di sole, un fazzoletto,
un aquilone di stagno, un gatto
a nove code.
Se fisso il bagliore
di queste case senza facciata,
i balconi corrosi dal sale,
è per chiedermi se così tengano
davvero lontani i piccioni
o se è solo un altro modo, una maniera
tutta nostra di salutare.
Saliamo a piedi
che non hanno ancora
riparato gli ascensori.
E chissà quando accenderanno
i termosifoni che con quello
che paghiamo di condominio,
pensare che non è nemmeno
casa nostra ma almeno
qui abbiamo trovato lavoro
e un lavoro lo trova pure
chi non ha mai studiato,
chi non conosce nessuno.
Non ricordo dove ho letto
che nell’assoluta perfezione
di ogni tappeto persiano
i tessitori introducono
un impercettibile errore ritmico
come un difetto di modestia
per non sfidare Dio.
Io non l’ho mai trovato
eppure su quel tappeto
avremo fatto l’amore
così tante di quelle volte
che ancora sento l’odore
della lana bagnata dalla pioggia,
della polvere caduta e sollevata
da decine di traslochi, di gatti
che ci guardano immobili
senza chiedere aiuto.
E pensare quanto mi piaceva
quando ti alzavi all’improvviso
e mi dicevi io vado a cambiare disco,
e a ragione. Si commenta da solo,
Synchronicity dei Police,
la copertina come nuova,
l’avevo preso una miseria
che non ne capiva niente.
I reni, il fegato. Ci sono
cose che rimangono impresse.
Tu avevi una voglia
come un morso sul fianco
ma meno profondo di un graffio.
Ce l’avrai ancora, penso.
Anche se forse nel frattempo
avranno fatto di quei salti in avanti
che adesso nemmeno
si vedrebbero i punti, le cicatrici
che ci hanno lasciato.
Giovanni Catalano è nato a Palermo nel 1982. Attualmente vive a Pavia e lavora a Milano come consulente nel campo delle telecomunicazioni. Di poesia ha pubblicato Immaginate la ragazza (Lampi di Stampa, 2009) e L’amico di Wigner (Lampi di Stampa, 2011) per la collana Festival diretta da Valentino Ronchi. Altri testi sono presenti su riviste e antologie. Ha collaborato con Poetarum Silva e altri blog letterari.
Questa poesia si veste del parlato, rinuncia ad essere poesia nella forma per esserlo pienamente nella sostanza del dettato e fa di tutto per allontanare ogni ombra, per restare più a lungo possibile “…nel punto esatto/ in cui nulla può succedere”, per esorcizzare l’assenza. E alla fine ci si accorge che solo in questa forma di pensiero sgranato e senza filtri certe cose, compreso il non detto, potevano dirsi.
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