Dal buio della notte che mi trova
come in una fossa fino ai piedi,
rivolgo il mio grazie agli déi
per la mia anima invincibile.
Nella morsa degli eventi
non ho mai disperato.
Colpito dal fato, non ho chinato
indomito il capo ferito.
Oltre questo luogo di rabbia e lacrime,
dove incombe l’orrore delle ombre,
non avrò timore
della minaccia degli anni.
Non importa quanto angusto il passaggio,
quanto spietata sarà la sentenza,
sono io il mio destino,
sono io la mia anima.
(Trad. Abele Longo, 2013)
*
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.
(William Ernest Henley, Invictus)
…
La poesia di William Ernest Henley (1849-1903) fu di conforto a Nelson Mandela durante gli anni della prigionia. “All’età di 12 anni, Henley rimase vittima di una grave forma di tubercolosi ossea. Nonostante ciò, riuscì a continuare i suoi studi e a tentare una carriera giornalistica a Londra. Il suo lavoro, però, fu interrotto continuamente dalla grave patologia, che all’età di 25 anni lo costrinse all’amputazione di una gamba per sopravvivere. Henley non si scoraggiò e continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale, fino all’età di 53 anni. Henley era amico di Robert Louis Stevenson, che si ispirò a lui per il personaggio di Long John Silver ne L’isola del tesoro.”
questa in particolare, deve essere servita a molto, negli anni della prigionia.
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Grazie Abele per la tua traduzione! E’ un bellissimo testo…
Un saluto,
Rosaria
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dono di Natale X Abele
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per don Tonino Bello
CAPITANO DELLA MIA FEDE
L’ho conosciuto che tornava dai Vangeli
il capitano della mia fede.
Uscì dal tabernacolo della Poesia
per donarla al Verbo antelucano.
Sulla pietra il tufo balbettava di calura,
mentre la cisterna tracimava di coscienze in contumacia.
La sua voce falciava le coscienze indolenti,
gli occhi caddero sulle mani come ostie – a pezzi!
Aveva addestrata tutta la sua infanzia alle visioni!
L’equazione della sua morte non era immaginaria,
ma la fine cortese l’aspettava sulla soglia
dove le pagine del suo libro sbattevano come ali.
Mi hai reso complice di una Poesia che io non conosco,
ma ti sei donato uno strumento di risurrezione!
Antonio Sagredo
Roma, 12 dicembre 2013
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