Il concreto della mimesi.
Un esempio di messinscena cinematografica
di Giuseppe Panella
«Gran Dio! Questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, sono più tristi, più agresti, più guasti di prima»
(Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia)
Il rapporto intercorso tra Leonardo Sciascia e il cinema è stato uno dei più intensi nell’ambito del Novecento letterario italiano. Non solo lo scrittore siciliano si è sempre dichiarato legato al linguaggio cinematografico e suo debitore per la sua formazione culturale, ma la stessa peculiarità della sua forma di scrittura è attraversata dal cinema e dalle modalità di funzionamento del suo linguaggio. L’analisi dei rapporti tra cinema e letteratura, inoltre, rappresentano uno straordinario strumento per verificare, attraverso la collusione e/o la discordanza dei mezzi linguistici utilizzati, non solo e non tanto la qualità e la novità della proposta letteraria quanto soprattutto la possibilità ermeneutica di lettura del reale e la pregnanza delle capacità comunicative insite in entrambe queste forme di discorso e di riflessione nella loro maturità.
Nell’ampio e assai articolato novero dei film ispirati da opere letterarie di Sciascia, Porte aperte di Gianni Amelio permette, tuttavia, una serie di considerazioni teoriche e di riflessioni analitiche che vanno al di là del puro rapporto di enunciazione del nesso tra opera narrativa e sua trasposizione per immagini. Questo perché il film si inserisce compiutamente nel progetto di poetica del regista calabrese e perché, in certa misura, ne costituisce una tappa fondamentale, quasi una sorta di bilancio all’interno del suo percorso di ricerca. Nell’adattamento del romanzo per lo schermo, entrambe le parti in causa (l’autore letterario e il regista) hanno realizzato quasi una summa delle loro esperienze linguistiche all’interno dei loro rispettivi campi di applicazione artistica.
1. Gianni Amelio nel suo percorso d’autore: gli strumenti della critica
Di conseguenza, per capire il perché di Porte aperte e del suo rapporto di “fedele infedeltà” al romanzo breve di Sciascia, bisogna forse prima cercare di capire il perché della scelta fatta da Gianni Amelio di trasformare in immagini il libro dello scrittore di Racalmuto.
Quello che segue non aspira, tuttavia, a essere un saggio sui film realizzati dal regista calabrese prima e dopo la trasposizione da Sciascia né vuole essere e figurare come un esame dettagliato delle sue idee e visioni sul e del cinema, la sua poetica e la sua estetica della visibilità cinematografica e della visione filmica.
Purtuttavia, per ragioni di plausibilità scientifica e di articolazione programmatica interna al discorso che andrò sviluppando, è doveroso spendere qualche parola su chi sia Gianni Amelio e sul perché – plausibilmente – sia arrivato a collidere, a confrontarsi e forse a identificarsi con il mondo di Sciascia e il suo romanzo del 1987. Tutto ciò è avvenuto – come si può ben intuire in prima battuta – magari con difficoltà e impazienza, magari con il desiderio di rimanere legato al suo mondo poetico autonomo, magari ribadendo e confermando la propria autorevolezza di artista creativo e propositivo e con una sicura fiducia pienamente riposta nelle proprie capacità espressive.
Non è un caso che lo stesso Amelio abbia detto nel 1991, proprio quando si profilava la possibilità della candidatura del suo film alle nomination per il miglior film straniero di quell’anno:
«La differenza tra il mio film e il romanzo di Sciascia è fondamentale. Nel romanzo il condannato a morte è lì, ma il confronto fra lui e il giudice non esiste, perché non è quello che interessa a Sciascia. Per me, invece, quella è la materia principale del racconto. Io quei due personaggi – il giudice e il condannato – li ho fatti incontrare fuori del tribunale e mi sono arrampicato sugli specchi affinché la cosa potesse avvenire e fosse plausibile. Ho costruito quei due personaggi come facce opposte della stessa medaglia, li ho fatti padri di due bambini della stessa età, li ho fatti muovere in due case e in due ambienti opposti ma speculari. E non credo di aver tradito nulla, ho solo fatto un mo film, su una cosa che mi interessava dire»
In altre parole, Porte aperte non può essere paragonato ad altre riduzioni filmiche di opere sciasciane (tanto per fare un esempio, all’operazione prodotta da Francesco Rosi con Cadaveri eccellenti derivata da Il contesto o a quella realizzata da Elio Petri con Todo modo, ricavata dal romanzo omonimo). Può essere, invece, proficuamente comparato ad altre opere dello stesso Amelio (e non solo a quelle che precedono il film da Sciascia, ma, come cercherò di dimostrare, per brevi accenni e sulla base di sue enunciazioni di poetica, anche alle altre che seguiranno e che riverberano, di luce riflessa, sulla sua realizzazione come termini di riferimento ad quem).
La differenza fondamentale tra l’operazione prodotta da Amelio e quella realizzata dagli altri interpreti cinematografici di Sciascia (soprattutto Francesco Rosi ed Elio Petri ma, per certi aspetti, anche Damiano Damiani ed Emidio Greco, in particolare Una storia semplice – che ha come protagonista lo stesso attore, Gianmaria Volontè, che si ritrova in Porte aperte – piuttosto che l’assai meno riuscito Il Consiglio d’Egitto per quanto riguarda quest’ultimo) riguarda, in realtà, la dimensione del Politico presente nella e costitutivo della scrittura dell’autore siciliano.
2. Il livello politico della scrittura: tra denuncia polemica e rappresentazione parodia
Se gli autori precedentemente citati preferivano individuare il livello politico dell’operazione letteraria nella “voce” di Sciascia, Amelio preferisce rifarsi alla sua “scrittura”, cioè al suo sistema semantico di riferimento per quanto riguarda il connettivo formale che la costituisce.
Il regista calabrese non usa la macchina da presa per inscrivere nel romanzo Porte aperte un “commento” all’opera romanzesca, per leggerlo come modello del film da fare, per verificarne la tessitura e lo sviluppo come dieresi della propria trascrizione cinematografica, ma “riscrive” (utilizzando questa espressione in modo letterale) il romanzo, individuandone nuovi “documenti” e nuove “iscrizioni” letterarie, tentando di leggerne i vuoti, gli “spazi” lasciati in bianco, le possibilità espressive, il non detto e il non pensato.
Lo spazio del film diventa, così, il campo di battaglia delle coscienze dei protagonisti e la dimensione enunciativa dei loro intenti e delle loro opzioni morali, sociali, politiche.
Amelio non “racconta” la storia di un giudice contrario alla pena di morte. Amelio sceglie, invece, di raccontare i due protagonisti con la stessa volontà di rendere ragione delle loro vite, accomunandoli nella stessa dignità umana che va loro concessa nonostante tutto, con lo stesso sguardo partecipe e intriso di determinazione, con la stessa rabbia pacata e soffusa di nostalgico dolore, con la stessa capacità di riscattare le immagini attraverso la loro limpida e luministica induttività al giudizio (attraverso la loro capacità, dunque, di rivelare la propria verità attraverso l’autonomia della discrezione descrittiva della poesia).
Questo non significa, per Amelio, accantonare o emarginare o mettere hors cadre la questione del politico in Sciascia, ma accentuarne la dimensione “esistenziale”.
Non si tratta, di conseguenza, di capire che cosa Sciascia abbia dato e/o preso dal cinema che egli amava quanto di vedere in che modo la resa cinematografica della sua pagina abbia funzionato a livello simbolico di presa diretta sull’immaginario dei suoi lettori e, quindi, anche dei registi e degli sceneggiatori che si sono cimentati con la sua opera letteraria.
Tutti i film tratti da opere di Sciascia sono, infatti, investiti da questo compito e dal flusso di comunicazione legato al significato esplicito che esso impone all’autore della trasposizione: trasformare romanzi come Il giorno della civetta o Il contesto in un testo cinematografico implica fare i conti con il politico del discorso presente nella scrittura e nella progettualità espressiva sciasciana. Tutto questo perché il concreto della mimesi cinematografica (la sua produzione di senso mediante immagini) impone una scelta di linguaggio che non può evitare questo compito.
E’ cercare di evitarla o di “deviarla”, trasformandola in adeguamento ai canoni di genere o a proposta di critica di costume, non serve a sfuggire alla sfida imposta dal soggetto in esame.
Ovverosia, trasformare Il giorno della civetta in un “western di cose nostre”(per riprendere un titolo caro a Sciascia e che egli stesso ha utilizzato per un racconto compreso in Il mare colore del vino del 1972) non serve a evitare il contenzioso di un giudizio immediato – implicito o esplicito qui importa poco dire – sulla mafia e dei suoi rapporti con il potere politico, anzi lo impone con la flagranza della sua materia narrativa e della sua denotazione necessaria come forma del suo contenuto. Allo stesso modo, trasformare Il contesto o Todo modo nel “doppio parodico” e “carnevalizzato” della politica italiana della politica italiana e della sua “cultura di governo” come si è proposta negli equilibri e nelle convergenze “parallele” di potere negli anni Sessanta e Settanta non serve a evitare un giudizio conclamato sulle dinamiche storiche della situazione italiana di quegli anni apparentemente più “facilio” di quelli attuali.
3. La proposta estetica del cinema d’autore
E’ per questo motivo che Porte aperte non assomiglia neppure da lontano a un film polemico sull’opportunità di comminare ai rei la pena di morte (come lo erano stati i film “giudiziari” e di battaglia civile di André Cayatte negli anni Cinquanta o come si poteva leggere quale sottotesto politico-sociale in Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin del 1947).
La polemica contro la pena di morte è, per Amelio, una porta “già” aperta di senso, è una prospettiva per la quale non occorre esibire enfasi (o retorica) dimostrativa, è un percorso che sarebbe pleonastico attraversare spingendo innanzi a sé il carico pesante dell’ideologia e dei buoni sentimenti esibiti e sventolati come una “bella bandiera” da un patriota onesto e consapevole o da un saggio e benefico samaritano di tipo evangelico:
«Porte aperte di Amelio sembra l’esatto opposto dei film sciasciani di tanti anni fa di Rosi e a maggior ragione di Petri e a massima ragione di Damiani. Non c’è nulla di plateale e morriconiano in esso, di appello declamato alle coscienze o di predicazione. […] Anche qui è come se Amelio ci avvertisse che fare un film contro la pena di morte è come sfondare una “porta aperta”, ma che tuttavia è una cosa non indegna da fare o ripetere; anche qui, aiutato stavolta dalla malinconia dell’ultimo Sciascia, preferisce l’ambiente e l’immagine e il segreto; nel contrasto tra i dentro oppressivi e i fuori abbacinati della natura, mediati dal chiaroscuro dei vicoli, dei cortili, delle coscienze tormentate» – ha scritto Goffredo Fofi nella sua recensione al film.
Il rifiuto della predicazione e del tono declamatorio non poteva essere descritto meglio – i toni caldi e calmi della fotografia, il ritmo conciso del racconto che risulta articolato in segmenti sintatticamente conclusi ma non chiusi all’intervento attivo dell’interpretazione dello spettatore, la pacatezza della ricostruzione dibattimentale, la stranita lucidità dell’interpretazione un po’ attonita di Ennio Fantastichini (che impersona l’assassIno e “belva” Tommaso Scalia) risultano evidenti alla luce di un disegno artistico che è altro dalla volontà di dimostrazione serrata e spesso spietata del film-verità e del film-denuncia.
Colpire al cuore, ad esempio, il primo lungometraggio non televisivo del regista calabrese uscito nel 1983 (e, quindi, il primo ad essere distribuito nei cinema) era, effettivamente, un film “d’occasione”; era, anzi, un film dedicato all’analisi psicologica degli effetti devastatori dei cosiddetti “anni di piombo” e sulla generazione che si era trovata a viverli non comprendendone molto o non capendoci niente affatto.
Era “d’occasione” perché si trattava di tentare una riflessione a freddo che non fosse esclusivamente “politicistica” a caldo o riverberata dalla retorica dei buoni sentimenti di chi crede di stare dalla parte giusta e semplicemente lo dice (il che, in politica, fa più danno della grandine in primavera).
In Porte aperte la dimensione della ricerca formale si saprà trasformare interamente in progetto politico di analisi e di ricostruzione delle vicende storiche dell’Italia fascista e, contemporaneamente, in viaggio all’interno di una coscienza dimidiata e malinconica, ma non per questo meno combattiva, che proprio nel tentativo di costruzione di un paradigma cinematografico alternativo alle realizzazioni precedenti di film ispirati a romanzi di Sciascia, Amelio costruirà uno dei suoi film migliori. Il film fondato sul romanzo dello scrittore di Racalmuto finirà per essere uno dei suoi più personali e meno gravato dal peso di una necessità ideologicamente cogente e riuscirà a fondere insieme i due momenti che, da sempre, hanno caratterizzato la migliore produzione letteraria e saggistica di Leonardo Sciascia. In questo modo e per i motivi finora esaminati, l’incontro tra il romanzo di Sciascia e la trasposizione filmica di Amelio apre così una nuova stagione nell’analisi dei rapporti tra politica e scrittura nella letteratura italiana del Novecento.
4. Politica ed estetica nella storia naturale di una coscienza inquieta
Nel corso della cerimonia in cui gli fu conferito a Prato, nel 1994, il Pergamo d’Oro alla carriera, Amelio mi ha confermato la sua primitiva sensazione di incompatibilità esistente con l’universo del romanzo dello scrittore siciliano.
In sostanza, il regista si sentiva piuttosto alieno dal dedicarsi all’adattamento di una simile opera letteraria sulla quale, d’altronde, non aveva scelto di lavorare e che non gli sembrava sufficientemente congeniale o confacentesi ai suoi progetti cinematografici. Il lavoro gli sembrava il classico frutto di una committenza alla quale dedicarsi in mancanza di meglio.
Eppure, proprio questo lavoro “d’occasione” mi sembra oggi il massimo punto di empatia culturale toccato da Amelio, tenendo conto del fatto che gli è stato praticamente imposto di lavorare con attori di provata e consolidata professionalità e visibilità e non con i semi-professionisti cui era abituato e con i quali, spesso, ha raggiunto livelli di straordinaria plasticità espressiva nella gestione e nel registro modulare della recitazione.
E’ a questo livello che avviene la convergenza tra i due macrotesti, non certo nell’insieme dei sottotesti narrativi. L’unico momento del film in cui esista, infatti, una sia pur relativa ri-utilizzazione del testo di Sciascia a livello letterale è nel segmento narrativo del pranzo al ristorante in cui la questione delle “porte aperte” viene sollevata ed esibita come reperto probante la liceità della pena di morte e dibattuta come un’obiezione giuridica in un’aula di tribunale.
Dal punto di vista della ricostruzione diegetica, si tratta del momento centrale del film non solo per il fatto di essere stata situata a circa la metà della durata della pellicola, ma soprattutto per il rilievo che in essa vi assume la figura del Piccolo Giudice, Vito Di Francesco, interpretato da un Gianmaria Volontè assai ben impostato e coinvolto nella parte al punto giusto, quello, cioè, della convergenza di convinzione e di volontà orientata al conseguimento dell’obiettivo.
Ma l’ottica in cui questo discorso e le repliche ad esso vengono pronunciati cambia considerevolmente tra i due testi.
Nel romanzo di Sciascia si tratta di discorsi fatti per convincere e per ammonire e che vengono tenuti con un tono che varia dal culturale (i riferimenti allusivi al romanzo pacifista e antimilitarista La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig sono mescolate alle citazioni da un saggio di Alfredo Rocco che si propone di dimostrare la liceità giuridica della pena di morte) al personale e perfino all’affettuoso, unificati come sono dalla propensione esplicita per le riflessioni sulla carriera futura del Piccolo Giudice da parte del Procuratore Generale che vi aggiunge il suo paternalistico punto di vista di figura sociale ormai giunta al termine del proprio percorso nel mondo della giustizia e dei suoi difensori legali e prossimo alla sospirata pensione.
Nel film di Amelio, invece, il tono è ben più duro e plumbeo e la difesa del principio della liceità della pena di morte diventa la difesa della necessità del fascismo e del suo governo sulla nazione, della sua occupazione del potere che dura ormai da tre lustri.
Per questo motivo, le minacce larvate per la carriera del giudice Di Francesco (il quale, infatti, finirà con l’essere trasferito da Palermo a una pretura di provincia) diventano qualcosa di molto più minaccioso e agghiacciante che va al di là delle sorti di un singolo magistrato e finiscono per rappresentare quelle che saranno le sorti future della nazione italiana.
La pena di morte applicata al caso singolo diventerà il destino comune di una generazione che finirà per essere totalmente travolta a opera di una guerra che rappresenterà l’applicazione della pena capitale su scala mondiale.
Attraverso la ripulsa della condanna a morte quale metodo pianificato di amministrazione della giustizia, il Piccolo Giudice Di Vincenzo si è pronunciato contro un intero sistema di potere, assumendosene coerentemente la compiuta responsabilità.
Così, per sua bocca, aveva fatto Sciascia nel suo romanzo, così ha mostrato Amelio nel suo film probabilmente più politico proprio perché riesce, attraverso la messa in scena del processo all’assassino folle Tommaso Scalia, a rappresentare compiutamente l’assurda e proditoria pretesa della dittatura fascista (e di ogni forma di dittatura anche solo larvata) a gestire la vita e la morte dei propri sudditi e delle proprie vittime spesso del tutto inconsapevoli di essa.
Attraverso la coscienza inquieta, tormentata e limpidamente coerente del Piccolo Giudice, Porte aperte pronuncia un giudizio morale che si fa cifra esistenziale e scelta politica: il rifiuto della macchina del potere e della sua potenza totalizzante, dell’intolleranza e del suo meccanismo di oscuramento e obnubilazione delle coscienze, dell’unilateralità del pregiudizio e della sua pretesa di essere onnipervasivo e onnigiudicante.
Il Piccolo Giudice (che ama citare celebri aforismi di Michel de Montaigne) mette la tolleranza e la ragione al primo posto – quegli stessi valori che il regime totalitario italiano (come poi tutti i regimi totalitari di sempre) sanno essere loro opposti al modo di procedere che gli è usuale e confortante.
Di fronte a chi dà tanta importanza a ciò che crede giusto tanto da mandare a morte i propri simili, Amelio, in questo modo ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda di Sciascia, propone la forza del singolo e della sua convinzione morale come modello per sostenere che questo non può essere, in assoluto, mai giustificato dalle circostanze e dalle ideologie. Mette così, di conseguenza, l’uomo al primo posto.
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post notevolissimo, prenderò questo testo che mi manca!
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