Anna Ventura: Tu quoque (Steven Grieco)

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Anna Ventura Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014 pp. 230 € 14

 

Ho appena finito di leggere il bel libro di poesie di Anna Ventura, Tu Quoque (Poesie 1978-2013), edito nel febbraio di quest’anno da Edilazio Letteratura, con una prefazione di Giorgio Linguaglossa.

Sentiamo qui una voce che si mantiene armoniosa e coerente attraverso un arco di tempo di quasi 40 anni. E, inoltre, la presenza di una mano sapiente e delicatissima, ma volutamente artigianale, come quella della gente semplice cui fa così spesso riferimento.

Possiamo anche dire di questo libro quello che lei dice di una casa amata in passato (“Le case”): “…partiva da terra ma poi si capiva / che spaziava sui tetti in piccole terrazze fitte di voli”. In effetti, la sue poesie partono dal concreto, sono (quasi sempre) piccole, e però fitte di voli.

Il pensiero poetico di Anna Ventura si distingue, mi sembra, per una “velocità” tutta particolare: non necessariamente quella raggiunta attraverso la metafora o altre figure retoriche, e nemmeno quella di certi poeti orientali del passato, in cui la tensione metafisica preme in modo così forte sulla dimensione esistenziale-reale, che si crea un moto, capace di imprimere una inaudita, perfino auto-distruttiva, velocità nell’espressione poetica.

In Anna Ventura sono l’estrema pulizia e chiarezza del verso i veicoli che le permettono di raggiungere di colpo il concreto delle cose e degli oggetti del pensiero. Su questo punto aggiungo soltanto qui qualche considerazione in più a ciò che è già stato rilevato da Giorgio Linguaglossa nella sua prefazione.

Dunque una velocità che rinsalda – paradossalmente – l’andamento pacato, equilibrato, intenso del verso; in cui le innervature dell’angoscia “esistenziale” sono per lo più sottintese, o espresse comunque con economia, e soprattutto senza quel particolare tipo di ironia “leggera e distaccata” che tanto ha contribuito a trivializzare la poesia a cavallo fra XX e XXI secolo.

 

Grande signora che danzi

 

Grande signora che danzi,

l’abito molle ti fascia

come una tunica greca

e sotto il lino freme

il tuo grande corpo fluttuante.

Tutto in te,braccia, collo,

i lunghi capelli scomposti,

il profilo netto, la pelle di bronzo,

è retaggio di un’antica

indomabile forza.

Domini gli elementi,

atterri gli uomini, ignori

il tempo che ti insidia

con l’inutile petulanza

del mendicante .C’è in te lo scatto

della tigre giovane

– e non sei tanto giovane -,

il passo diritto delle antiche statue,

simulacri di dei

destinati ad essere eterni.

“Tale è terra”, per te,

non avrebbe valore.

Ti invidio,

signora dei grandi letti,

per tutti i tuoi possibili amanti,

perché non hai pianto mai,o,

se lo hai fatto,

presto lo hai dimenticato.

Si ha un bel parlare di Cristo:

sempre voi vincete, alla fine,

figli dell’angelo felice.

 

 

Club

 

Un sospetto di neoclassico fascista

sfiora le squallide rotondità

di poltrone,angoli,tende

senza colore.

Passa il cameriere basso,

con tre tazze fumanti sul vassoio.

La sala di lettura:deserta,

un uomo solo, nascosto dal giornale.

Corridoi lunghi, pavimento screziato,

Ripassa il cameriere,

con le tre tazze vuote.

La stanza del bridge è piccola,

colorata di verde e rosso-i tavoli-,

tenue fumo ristagna

tra gli occhi fissi.

“Siamo noi. Siamo arrivati.”

Morti?

No, vivi di una propria vita.

Rossa è la tentazione socialista,

azzurro

il fascino discreto della monarchia.

Ripassa il cameriere, ossequioso,

con quattro tazze colme.

La stanza proibita

È all’angolo,

dopo l’ultimo corridoio.

Bordello?

No, si gioca d’azzardo.

La porta è chiusa, peccato!

E il vetro ha un’ombra di liberty.

Il cameriere è vivo:

fa parte del copione,

e ci crede.

 

 

In lei il ritmo serrato serve a superare la pesantezza dell’ogni giorno, che non è necessario ribadire, per ricordare invece frammenti di vissuto che rilucono di un qualche senso e possibilmente indicano un filo di continuità. Nei momenti migliori, infatti, le sue poesie dischiudono, tutte insieme, un intimismo puro, nitido, pasternakiano. Una somiglianza con il poeta russo che non è casuale, anzi la dice lunga sui nostri tempi, in cui vige una censura sottile, strisciante, della libertà di pensiero, così come un tempo in Unione Sovietica esisteva la censura ufficiale. Laddove impera infatti un Pensiero Unico, di qualsiasi colore esso sia, viene sempre danneggiata la solidarietà emotiva ed intellettuale fra gli individui, la loro capacità di pensarsi pienamente “umani”.

Comunque sia, con Pasternàk, e altri poeti di quel paese, l’autrice ha in comune la facoltà di gioire della presenza discreta delle cose: come loro, ha chiaro il concetto che è la concretezza a rivelare in essi l’energia nascosta (anche numinosa). “Res”, dalla raccolta Aria sulla quarta corda, 1985-87, ci aiuta a capire la poetica dell’autrice:

 

Res è cosa,

e cosa rimanda

al ruvido, al grezzo, al colore.

Cosa è un uovo o una pietra,

un sacco pieno di grano,

un cavallo di legno.

Anche la terra è cosa,

e così la sedia, la ruota,

la brocca di coccio, il sale.

E così elencando,

per tutta una serie di oggetti

connessi con la vita,

il lavoro e la morte…

 

Sono versi che ricordano un altro poeta russo, Arsenij Tarkovskij – imbavagliato anche lui dalla censura, anche lui affascinato dalla qualità materica e insieme sottilmente spirituale delle cose: “Alla luce tutto si trasfigurò, perfino / gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando, / come a guardia, stava tra noi / l’acqua ghiacciata, a strati.” Da “Первые свидания” (Primi incontri).[1]

Ma i registri nella raccolta di Anna Ventura sono diversi, e sorprendenti. Prendiamo “La tigre”, dalla raccolta Nostra dea, del 2001, dove è invece l’intangibilità delle cose che si mostra:

 

Il fuoco del bivacco è quasi spento.

Se una fiamma buca l’ombra,

è la tigre.

 

Nell’attimo “inimmaginabile” di questa poesia, l’autrice deve a Blake (Tiger tiger burning bright / in the forests of the night) tutto quello che lei può o potrà mai dire in campo poetico: e nello stesso tempo al poeta inglese lei non è debitrice di assolutamente niente, non del minimo granello di polvere contenuto nella sua più piccola poesia. Per un semplice motivo: Anna Ventura ha saputo ri-forgiare questa, fra le tante immagini primordiali dell’uomo: il senso di stupore di fronte all’ignoto, che resiste a qualsiasi sistemazione filosofica, teologica o scientifica: la stessa immagine a cui Blake dette espressione due secoli fa in Inghilterra, e qualcun altro in Asia o in Africa mille o forse diecimila anni fa. Questa volta è stata Anna Ventura a ricreare l’immagine: conferendole quel senso inaspettato della cosa appena nata, appena emersa dal nulla, miracolosa come l’elefantino o il cerbiatto appena usciti dall’utero della madre, a stento capaci ancora di tenersi in piedi.

Ma quante proto-immagini e quanti elefantini sono nati e rinati nei milioni e milioni di anni? Ecco un aspetto fra i più importanti della poesia autentica: stare – a modo suo – vicinissima alla vita, quella che ognuno di noi vive.

Ed è in questo senso che ho usato più sopra la parola “inimmaginabile”: che non denota semplice “sbalordimento”, bensì indica l’attimo pre-cogitativo, prima che la capacità immaginifica umana si muova e inizi a manifestarsi.

Nella poesia di Anna Ventura c’è inoltre forte il desiderio di tornare a casa, in uno spirito totalmente privo di ogni sentimentalismo. È la nostalgia per un senso più compiuto, più ricco, delle cose del mondo, che sentirono anche i poeti e le poetesse giapponesi del periodo classico (IX-XIII sec.). Essi chiamarono questo anelito furusato, letteralmente “l’antico villaggio” “la casa avita”, “il cuore rammentato delle cose”. In questo senso, certe composizioni di Anna Ventura ricordano in particolare una poetessa del XIII sec., Figlia di Shunzei, nota per il suo stile vigoroso eppure profondamente femminile:

 

fukisugite koreka to niou umega kano sonata no kaze ya mukashi naruran

 

l’essenza che ora mi avvolge – puo’ il susino tanto inebriare?

da quel magico luogo, un alito… ah, il passato rivelandosi

 

shirazariki musubanu mizu ni kage mitemo sode ni shizuku no kakaru mono towa

 

non pensavo, bevendo acqua con le mani,

vedervi balenare quel volto; così è stato,

e ora ho le maniche bagnate di lacrime

 

“L’amara stirpe” (da Nostra dea, 2001), dice cose simili:

 

Non chi sta sulla nave,

ma chi resta, di sera,

sulla banchina dell’isola piccola,

è colui che veramente parte.

Dopo aver salutato con la mano

la nave che veloce si allontana,

tornerà alla casa spoglia,

all’acqua razionata,

alle cento scalette

che salgono sull’erta. L’amara

stirpe di Penelope

conosce questi inganni: restare

per partire nella lontananza del cuore,

nel silenzio dell’isola remota: Ulisse

vada ramingo:

il mare è tanto grande.

 

Un ultimo punto. Spesso l’autrice allude alla quotidianità, semplice e talvolta brutale, del mondo rurale. Nella poesia “Due appunti filologici” leggiamo:“Come il lepre alla botta vuol dire / all’uopo, al momento opportuno. / Opportuno è, infatti, / che la lepre passi proprio / sotto il colpo di fucile, / per rimanerci stecchita.” Le espressioni idiomatiche di quel mondo individuano il “duro pragmatismo” contadino nascosto “nelle pieghe di una filologia / raffinata e crudele, / ignara di essere tale”.

Poesia efficace, che constata un fatto inopinabile. Ma forse c’è di più. Ogni figlia/o di contadini o di gente di campagna assiste fin dall’infanzia all’uccisione degli animali da cortile: pollo, maiale, coniglio, etc. Pietà e compassione si trasformano gradatamente – devono trasformarsi – in necessità, e la necessità a sua volta in abitudine: ma non scompaiono interamente nell’atto della macellazione, quanto invece vanno a nascondersi nei punti più gelosi della psiche di colui (non sempre un bruto) che macella.

Ho visto più volte, in Epiro, il papàs di un certo villaggio di mare (cresciuto, lui, in montagna, fra i greggi) scannare una pecora o un agnello per i pescatori che non erano capaci di farlo da soli. Curiosamente, un atto più compassionevole (nato dalla necessità) non penso di averlo mai visto, nemmeno nei volontari che prestano soccorso ai malati o alle popolazioni colpite da una catastrofe naturale. L’animo umano è cosa strana, la ferocia, come la dolcezza (la “human compassion”), si intrecciano e si esprimono nei modi più inaspettati.

Così, il pescatore epirota usa gesti rozzi, con le dita gonfie e insensibili dal continuo contatto con l’acqua salata, per liberare i cavallucci marini che spesso rimangono impigliati nelle sue reti. Cercando, nei limiti del possibile, di non spezzarli a metà.

 

Steven Grieco

 

[1] Arsenij Aleksandrovič Tarkosvskij, Poesie Scelte, a cura di Gario Zappi, Scheiwiller, 1989


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