Gravido di Vino e di Arborelle
(diamante e pontili)
Non era il dolore, non erano i nuovi sassi che non conosceva, non erano le massicciate che emergevano dall’acqua come diverse secche: era l’odore del fiume che non riconosceva.
L’uomo, quasi anziano, seguiva i rivoli di corrente come strade segnate sul piano inclinato del Ticino, nessuno più di lui poteva indovinare, dopo tanti anni, dopo amici e amori, viaggi tra VIgevano e Pavia a forza di braccia, quanto e dove la gorga poteva venirlo a prendere…Insaziabile.
Le anse del fiume, così bianche e salmastre, senza pesci, solo in superficie, ma sotto brulicavano di alghe e di vita, di capelli verdi di dee, di salmerini, di lucci di arborelle, buone da friggere e mangiare con il vino bianco.
Si ricordava del suo amico più caro, un cugino che adorava mangiare: squarci li chiamava, e si ingozzava di arborelle come se non avesse tempo per riempire la fame che lo inseguiva anche nel sonno, come sudava!
Aveva una pancia, il cugino, che pareva un tamburo di guerra azteco: sodo e sonante al colpo di una mano aperta, col palmo di un percussionista esperto. Come erano insieme! E quanto amici tra vino e colori delle vene dei lucci, prima dei pesci siluro, spazzini inesausti e orridi e prima del mercurio sciolto nel Fiume Azzurro.
Ora, da solo, saliva, nonostante le insistenze di sua moglie, malata di artrite reumatoide, che diceva avrai un infarto! Avrai un infarto! E poi ci sono i motoscafi e quei giovani che se ne fregano e i pescatori.
Ma lui aveva già affrontato pescatori e giovani che lo avevano inseguito a piedi, in auto e poi, considerata la sua stazza, se ne erano andati via con la coda tra le zampe.
Lui, pochi anni prima, non era certo uno che abbozzava. No! Andava dritto per la sua corrente, contro ogni dio dei fiumi, contro il Fiume, uno dei tanti ma per lui UNICO, che dava acqua al PO, sotto il Ponte della Becca, in costante richiesta di pioggia, quando talvolta non c’era nulla da fare per eliminare le secche da quelle strade una volta navigabili.
I remi sopra la testa incrociati per prendere velocità, il buio del profondo sotto il barcé: la barca di Pavia, e la spiaggia del Cantarana alla sua destra.
Un’amica di suo figlio era sempre lì, una volta, poi non ci fu più…Morta di tumore. Si sentiva la mancanza delle grida da teatrante, ma così è, e così è sempre.
Mise i remi sul barcè, togliendoli dalle forcole di legno, che scricchiolavano come animali sofferenti.
Un’ombra bianca e striata, morta, galleggiava sulla superficie dell’acqua morta, sotto riva: uno storione di due metri, sul serio, come se ne vedevano spesso se si saliva un poco oltre la città.
Con un remo lo sollevò e fece brillare le scaglie che si aprirono come una fisarmonica.
Ragazzi di colore si avvicinarono curiosi e lui gli fece vedere il pesce, come brillava anche da morto…
Poi lo lasciò affondare, insieme allo stupore dei ragazzi.
Era stanco, si era fatto buio. Girò la barca e scese senza remare. Solo il rumore degli aerei che atterravano a Linate o altrove…E quegli sguaiati con i motoscafi fuoribordo che distruggevano il fondale, solo per farsi vedere e dire: eccomi, sono meraviglioso e sono osceno.
Lui, senza paura tornò all’imbarcadero, forte come cinquant’anni prima.