Paola Musa: Anse di memoria,

Paola Musa, Anse di memoria, Macabor Editore, 2017

“Il poema di Paola Musa, Anse di memoria, prende il titolo dai primi versi che ne danno l’avvio («Anse di memoria / sinuose e sfuggenti») e rappresenta un viaggio nelle radici attraverso la finestra della memoria. Perché anse? L’ansa è la curva larga di un corso d’acqua, un meandro ed è in questo meandro – il passato – che Paola rielabora uno scavo personale, prezioso, volto al riconoscimento di una verità, di-svelatasi epifania alla sua autocoscienza. L’elemento dell’acqua – nello specifico il mare, caratterizzato nel poema sia fisicamente sia psicologicamente come un confine quasi invalicabile – rievoca un moto eterno. A tal proposito uno dei fondamenti tematici dell’opera è giustappunto il richiamo circolare anticipato nell’epigrafe tratta dai Quattro quartetti di T.S. Eliot (quinto canto dell’ultimo quartetto): «Non smetteremo di esplorare/E alla fine di tutto il nostro andare/Ritorneremo al punto di partenza/Per conoscerlo per la prima volta»; ebbene tale richiamo di-venterà la quintessenza della ricerca della poetessa. La rete di suggestioni, impressioni, rimandi, ricordi, tessuta fra affondi nel passato e riflessioni sul presente si tradurrà per Musa in una necessaria unità di entrambi, proprio sul leitmotiv eliotiano, perché avvenga la salvezza e non si perda il senso della ricerca stessa.”

Dalla prefazione di Davide Zizza

*

Anse di memoria
sinuose e sfuggenti.

Ri
verso
di ogni foce.

Liquidi canti
fecondano lievi
in gole di roccia.

Eccomi,
appena adagiata
su un grumo di spuma.

Un’orma
nell’orma
di ciottoli e sabbia.

*

Vagiti e urla di madre
da finestre abbassate.
Trabocco di latte
e ossigeno.

Il barbagianni stride
da una crepa.

Donne nei lavatoi
si voltano un istante
a fissare
con occhi di domanda
la casa dei nuovi nati.

Di due nel grembo, solo una vita,
risponde la madre.

Quelle inarcano la schiena
e cantano
i vivi e i morti
strofinando il sangue
dalle lenzuola.

Non molto distante
la Dea Mater radiosa
offre i suoi capezzoli
da un altipiano.

*

I loro
canti rituali
ormai sommersi
da calura
e da grevi sinfonie
di betoniere.

Nei pomeriggi d’estate
talvolta
timidi effluvi
si spargono
in vagiti.

Bagnanti nei lettini
si spalmano fango.
Oggi terra vulcanica
spurga in acque vermiglie.

Ninfe gorgheggiano
in un lamento di vespe.

*

Tornando a casa,
raccogliendo i frutti,
la testa cantilena:
la vita è una catena di lutti.

Soccombe ai suoi ginocchi
come a un grembo vuoto
stride la pelle diafana
nel vestito nero
e quando ride
al melograno spaccato
lo crede peccato.

Come può
tanta luce
stillare
tristezza.


Una risposta a "Paola Musa: Anse di memoria,"

  1. nonostante un incedere tra lo ieratico e l’enfatico (mia personale dispercezione, ovviamente, e cosa che di solito mi lascia un po’ freddino quando leggo di poesia), sono rimasto colpito – e affondato – dalla forza delle immagini evocate dai versi precipitevoli dell’autrice. una sensazione di realtà impietosa eppure umana che nella giustapposizione di luci e ombre sembra voler rendere giustizia all’infinita grigia varietà del mondo (nonché della sostanza grigia, che abita le nostre teste). non è cosa da poco, visto che la Poesia purtroppo, finisce di frequente per dipingere le cose in modo un po’ monocromatico (solo radiosi alleluja di speranza o solo tristi ombre di sconforto, tutto roseo o tutto nero). si prenda ad esempio lo scarto lacerante tra il figlio nato vivo e il feto nato morto della seconda lirica: impossibile non percepire fisicamente il florido “trabocco di latte / e ossigeno”, come pure madre natura che “offre i suoi capezzoli / da un altipiano”, sebbene nel contempo l’occhio torni e ritorni al verso muto “Di due nel grembo, solo una vita” per poi rimbalzare all’incipit “urla di madre”. vagiti è plurale, eppure la nuova vita è una. singolare come si resti inebetiti, indecisi, incapaci di decidere se tra le righe del cervello possa prevalere “luce” o “tristezza”. ecco. in fondo, mi dico, è giusto che sia così, pena la fine della nostra umanità, orma nell’orma della natura che “spurga” benevola e rassicurante solo nella fallace declinazione antropomorfa delle nostre menti. in ultima analisi… in effetti, forse non c’è niente di mostruoso in quest’amplesso di materia organica che si propaga di generazione in degenerazione, in questo aprirsi e chiudersi sanguinante del libro della vita (scrisse Clive Barker “siamo tutti libri di sangue: in qualunque punto ci aprano, siamo rossi”)… così è fin dai tempi dell’Odissea di Omero e dell’umanità, nella quale troviamo scritto “uscito delle salse *acque vermiglie* / montava il sole per l’eterea volta / di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava / ed agli uomini il dì su l’alma terra”. e così sarà, finché la materia inanimata non guarirà dal suo tumore.
    : )

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