Felicità

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può
donare, l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore
approssimazione concreta della felicità sulla terra.
(Primo Levi)

 

Felicità

La discarica boccheggia a pancia all’aria sotto il sole torrido d’agosto. Tre ragazzi scavalcano lo scheletro curvo d’una rete arrugginita e procedono verso la striscia d’ombra proiettata dal cavalcavia dell’autostrada. Marco, vent’anni, guida il gruppetto con ampie falcate, mentre Lucia e Carlo, diciott’anni entrambi, lo seguono poco discosti. Non appena si fermano accanto a un pilone imbrattato di svastiche e amenità assortite, il tanfo dolciastro di materiale organico in avanzato stato di decomposizione li abbraccia con fare materno.
– Ce l’hai? – chiede Carlo strizzando a più riprese gli occhi spiritati.
Marco ghigna in controluce: ha il naso storto e una barbetta ispida da intellettuale di sinistra andato a male.
– Ho mai parlato a cazzo? – dice, e sfila dalla tasca una Beretta 92FS mezza arrugginita.
– Funziona? – s’informa Lucia.
Per tutta risposta Marco punta l’arma e spara spappolando un sacco di rifiuti ad alcuni metri di distanza. Gli altri sussultano. L’eco del botto s’incunea sotto il viadotto dell’autostrada per mescolarsi al rombo delle vetture in corsa.
Segue una lunga pausa di silenzio.
– Finiremo peggio di come abbiamo iniziato – frigna Lucia.
– Preferisci battere o fare da kamikaze al Trucido? – sibila Marco, indispettito, poi aggiunge beffardo – tutto dipende da cosa vuoi fare da grande…
– Io vorrei solo essere felice – replica Lucia guardandolo a lungo negli occhi.
– Come lavoro, stronza. Da quando in giro c’è grande richiesta di allegratori o estasiatori? – ride in modo sguaiato – O pensi di avere un futuro come organizzatrice di *happining*
Lucia mima un broncio infantile, Marco sputa in terra. Interviene Carlo.
– Che discorso del cazzo – dice grattandosi le palle.
– Non è vero – protesta Lucia – la felicità è la cosa più importante… n-non capite? E’ la vendetta più spietata contro quei bastardi del Trucido e del PUDE… li manderebbe in bestia, se fossimo davvero felici.
Carlo serra i pugni e sbraita senza curarsi di sparare bengala di saliva a destra e a manca.
– Fanculo! Sembri uno spot del Ministero della Felicità!! Dìn-dòòoon… La cosa più importante non è avere un lavoro, ma essere *davvero felice*. Anche il Vangelo insegna che in povertà è più facile trovare la felicità! Essere davvero felice dipende da te: lo sai? Chi s’accontenta gode!
Senza il tappetino musicale ilare e giocondo, la voce isterica di Carlo storpia il senso alle parole e restituisce alla citazione pubblicitaria un tono surreale quasi minaccioso.
– Calmi bimbi – li redarguisce il capo – per sapere se sei davvero felice c’è un metodo infallibile: sentire la felicità dall’interno. Ti guardi dentro, con gli occhi dello stomaco: quando è molto pieno, sei felice.
I crampi della fame approvano. Risata nervosa di Carlo.
– Dammi un iPhone9 e divento subito davvero felice. Eh, lo sapete che l’iPhone 9 ha un’app fatta apposta che misura la felicità?
Lucia sospira. Non gli piacciono gli occhi scomposti di Carlo: non è più lo stesso dopo che sua madre è finita al centro grandi ustionati di Roma. L’innata saggezza femminile le impone di tentare un’ulteriore riflessione.
– Forse la felicità non è una proprietà, tipo una cosa da avere, ma una cosa da essere. Magari possiamo essere più felici di quanto pensiamo – la ragazza torna a fissare Marco negli occhi, a lungo, poi aggiunge – almeno in certi momenti…
Il capo lancia un urlo belluino e spara in aria tre colpi.
– Ma sei fuori di testa?? Cos’è, ti sei fatta un’overdose di PUDE? Possiamo essere più felici di quanto pensiamo?!!?? Cazzo, e anche tu Carlo, tua madre si è data fuoco all’INPS e per te è tutto ok se ti danno un iPhone9?!!?
Carlo avvampa rubizzo, morde il labbro superiore e mostra i denti. Lucia tace, a capo chino, così Marco rincara.
– Hai dimenticato cosa c’era scritto su Repubblica? Si è data fuoco davanti a tutti, senza curarsi della gente che aspettava il turno agli sportelli, tra cui una mamma e due bambini. Capito che stronza?!?? Ha traumatizzato due piccoli innocenti! E’ una vergogna! Altro che donna disperata, umiliata, senza arretrati e senza sussidi per minimo sei mesi… tua madre è una donna ignobile, priva di rispetto per il prossimo!
Carlo gli balza al collo, ma viene ricacciato indietro da una gomitata secca in pieno petto. Lucia frigna e grida di piantarla subito, inascoltata. Marco ansima.
– Non è con me che devi incazzarti, coglione! – gli punta contro la Beretta, continuando a strepitare – Incazzati con loro e con te stesso… e tu – tuona verso Lucia – tu sei drogata di parole… t’hanno flippato la testa col gossip, tipo i media che ti martellano con la storia che l’Italia è il paese più corrotto del mondo, poi arriva un’ONG di Soros col suo bravo questionario, ti chiede se l’Italia è corrotta e il Fatto Quotidiano riparte in tromba: “recente studio conferma! L’Italia è il paese più corrotto del mondo!!!”
– Che… che c’entra la c-corruzione adesso?!? – ha l’ardire di protestare Lucia.
Marco la squadra dall’alto in basso, poi sentenzia.
– Sveglia, bella… sostituisci corruzione con felicità e il risultato non cambia: alla fine ti convincono che sei felice. E se il PIL non cresce, s’inventano il FIL eh, eh… felicità interna lorda, mmmm, però, mica suona male…
Carlo è nervoso: un tic gli scuote il labbro superiore, così apre e chiude la bocca più volte senza riuscire a parlare. Lucia ne approfitta per provare a recuperare un po’ di punti.
– Felicità interna… lorda – modula un tono di gola sensuale – sembra una roba sporca tipo sesso osceno – passa la lingua sulle labbra – se aiuta ad essere felice ci sto…
Marco scuote la testa sconsolato.
– Cazzo… è un chiodo fisso. Tutti vogliono essere felici, come se si trattasse di un diritto o di un dovere, al punto che ti senti in colpa se non sei felice. E’ un delirio…
– Ma… – interviene Carlo – ma allora cosa dovremmo fare? Cercare di essere infelici?
– Non è questo il punto. Il PUDE ci vuole felici, perché le persone felici sono facili da controllare. Anzi, ancora meglio, ci vuole *drogati* di felicità, ci vuole schiavi di un bisogno insaziabile per definizione, così da un lato il mercato gira all’infinito e dall’altro diventiamo inoffensivi.
Segue una pausa di silenzio, dalla quale emerge la voce in falsetto di Carlo.
…e sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam
– Bravo…
Per tutta risposta, Carlo crolla a sedere e scoppia in lacrime. E’ un singhiozzare disperato, che succhia l’aria e sputa pezzi di femore e schegge di fegato. Lucia lo cinge con un braccio e prova a consolarlo.
– Carlo, dai…
Il ragazzo pare calmarsi un po’.
– Mandale via, ti prego… mandale via…
– Chi?
– Le formiche… nei capelli… mi camminano in testa, le senti? Ascolta: avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro tutta notte… mi scavano un formicaio in testa… ascolta: eh? Le sentite? Adesso cantano in coro: è un bicchiere di vino con un panino, la felicità… – si schiaffeggia la fronte e spinge via Lucia – ma io vi schiaccio, v-vi schiaccio tutte!
– Vedi di calmarti, ok? Al massimo c’avrai i pidocchi… – ordina Marco – la felicità non esiste, ma sono sicuro che possiamo riuscire a essere felici anche senza. Basta avere un lavoro… il lavoro è l’inizio di tutto e io ti giuro che l’avremo.
Si china sull’amico e gli scompiglia i capelli con un gesto brusco ma affettuoso. Il sole rinterza un raggio di sponda e fa brillare il calcio metallico della Beretta infilata nella cintura dei pantaloni di Marco. E’ un attimo: Carlo l’afferra, balza in piedi e fa tre passi indietro.
– Sapete cosa? – farfuglia – I pesci banana: quasi q-quasi mi sparo e divento felice – e detto fatto, mentre la bocca si torce in un mezzo sorriso sghembo, ingoia la canna e tira il grilletto.
Strano, pensa Carlo, non ho sentito il botto, quindi o l’arma si è inceppata o sono finiti i proiettili. Vede Marco muoversi al rallentatore, strappargli di mano l’arma e redarguirlo: le labbra dell’amico si muovono, ma dalla bocca non esce nessun suono… qualcuno deve aver schiacciato inavvertitamente il tasto “mute”. Dall’autostrada arriva un sibilo di sottofondo.
Poi all’improvviso l’audio ritorna e il capo li richiama all’ordine.
– Basta cazzate o sceneggiate da serie tv: diamoci da fare!
– Al lavoro! – rispondono Carlo e Lucia all’unisono.
– Caricaaaaa! – strepita di rimando Marco.
Si lanciano al galoppo lungo la prateria deserta alzando un polverone che in breve avvolge il mondo in ogni direzione. Nel mare lattescente, Carlo si sente felice: vede da lontano gli ombrelloni e nuota per qualche metro a rana fino a raggiungere Marco.
– Ci ho ripensato e ho avuto un’illuminazione! – dice tutto sorridente – sai quando sono stato proprio felice? Un secondo prima di venire. Eh, quel secondo davvero non era secondo a nessuno…
– Bravo, ah, ah…
L’attimo dopo un’onda più grande li innalza in un tripudio di schiuma e li eiacula sul bagnasciuga. Accorre Lucia: visibilmente preoccupata, si sbraccia per sincerarsi che vada tutto bene. E’ in topless.
– Come state? – dice, tornando subito ad accarezzare il touchscreen del suo iPhone.
– Siamo interi… e Carlo ha fatto una scoperta – la rassicura Marco.
– Ah beh, se è per quello anch’io ho fatto una scoperta – dice Lucia con voce fin troppo eccitata – avevi torto marcio, la felicità esiste: ho iniziato a fare shopping online, e adesso… sono felice!
– Ma non è un lavoro! Mica puoi… – protesta Marco.
– Eppoi – prosegue la ragazza troncando l’obiezione del capo – come fai a dire che la felicità non esiste: Uozzàp è pieno di frasi sulla felicità! Clicca qua!
Si aprono decine e decine di pagine con la felicità immortalata nelle pose più disparate: alcune foto sono mosse, in altre è presa di spalle, ma in più d’una l’immagine è chiara e nitida.
– Vedi? Ecco la prova provata.
– Azzz… in-incredibile – balbetta Marco – somiglia tutta a mia cugina Lella.
– Non dire cazzate – dissente Carlo – sembra quel rapper di colore, come si chiamava? Fat Inqlair…
– Per me somiglia a Marco – suggerisce Lucia, facendo gli occhi dolci.
– Oddio… guardate il naso: adesso sembra Draghi! Ha… ha gli occhi di Monti e la bocca a salvadanaio d-di Von Hayek!
– Chiccazzo è Von Hayek? – chiede Carlo.
– Dev’essere un calciatore tedesco – ipotizza Lucia.
La luce del sole inizia a farsi buia. Il freddo entra nella ossa e l’orizzonte prende a incurvarsi sotto il peso della notte che verrà.
– E meglio se andiamo a casa – dice Marco, mentre con fare protettivo prende i suoi luogotenenti sotto braccio e li conduce verso l’entroterra.
Raggiunta la stazione salgono in treno. Nello scompartimento c’è odore di provola affumicata. Carlo apre il finestrino: all’improvviso, il cielo si fa nero e poi si stacca a brani. Arriva il controllore.
– Biglietti.
Ovviamente, nessuno dei tre ha i biglietti.
– Ragazzi, dovrei farvi una bella multa e buttarvi fuori, ma per stavolta preferisco raccontarvi una storia.
I tre si guardano perplessi: meglio stare al gioco, almeno per ora. Comunque Marco ha la pistola, quindi in caso si vedrà. Carlo si gratta il mento e si domanda cosa significhi l’ultima frase, ma viene distratto dall’inizio del racconto dell’uomo in divisa.
– C’era una volta un controllore senza lavoro. Si aggirava per le strade cercando la felicità e non capiva che non era niente, non era neanche un uomo. Un giorno incontrò un cane da pastore che gli disse “bau” e lo ricondusse all’ovile.
Silenzio. Anzi no, sibilo di sottofondo.
– E allora? – chiedono in coro i tre.
– Allora tornate sulla retta via, avevate o non avevate una missione da portare a termine? A cosa vi serve altrimenti la pistola?
Il soffitto del vagone s’inarca e cala finché tutto l’ambiente è così piccolo che per uscirne i tre ragazzi devono strisciare in terra al passo del giaguaro.
– Non dimenticate – li ammonisce la voce strozzata del controllore, rimasto intrappolato nello scompartimento – il lavoro non è un sogno, è un diritto su cui si fonda qualsiasi società, non può essere negato, violentato, ridotto a merce e gettato in pasto agli interessi del mercato… aaaaarfgghhhh!
Il controllore muore spappolato dai sedili ormai addossati l’uno all’altro.
– Andiamo! – dice Marco – Chiamiamo pure Andrea, Diego e la Susi: è l’ora degli eroi.
– Marco… ho paura – piagnucola Carlo – è tutto così strano…
L’amico lo strattona lungo il marciapiede, balzano su un camioncino e filano via veloci verso un orizzonte buio graffiato da fosfeni e fumetti fosforescenti.
Corrono così veloci che in un attimo il commando, armato di tutto punto, è davanti all’obiettivo. Ad un cenno del capo fanno irruzione nel Centro per l’Impiego coi mitra spianati.
– Tutti a terra! State calmi e nessuno si farà male! – grida Marco, sparando tre colpi in aria.
Luce fredda da neon. Tanfo di candeggina. Nell’ufficio affollato di disoccupati cala un silenzio spettrale, da cui emerge il solito ronzio di sottofondo. Per qualche attimo tutti restano immobili mentre l’androne pare farsi sempre più angusto e i volti delle persone, punteggiati di pixel rotti, appaiono rigati da ombre irregolari anche in piena luce.
– Marco, c’è qualcosa che non va! – insiste Carlo.
Il capo, tuttavia, è troppo concentrato sul da farsi per dargli ascolto: anche se lo spazio è sempre meno, sposta la gente in fondo alla stanza cercando di trovargli un collocamento, poi ribalta un tavolo e intima al personale dell’ufficio di tenere ambe le mani in alto, bene in vista.
Un neon inizia a lampeggiare.
Carlo si accorge che in un angolo c’è una vecchietta incartapecorita dagli anni. Indossa un cappellino da anteguerra e sorride con l’aria di chi ne ha viste troppe per lasciarsi spaventare da un commando armato: gli ricorda la nonna paterna. Il ragazzo pensa che, vista l’età, dev’essere molto saggia, quindi chi meglio di lei per porre la solita domanda?
– Nonna, esiste la felicità?
L’anziana signora lo squadra come se non riuscisse a comprendere quale strana sottospecie di rapinatore si trovi davanti. Poi si stringe nelle spalle e risponde.
– Eeehhh, è chiaro che la felicità non esiste… anche se una volta ho visto un bambino giocarci a acchiapparella.
Sospira, poi estrae due taniche di benzina, si cosparge il corpo e si dà fuoco.
Carlo indietreggia verso Marco, che ha appena gettato un grosso sacco di juta oltre lo sportello dell’ufficio.
– Tu, col pizzetto, mettici dentro tutti i lavori che hai e non fare scherzi.
L’impiegato lo guarda perplesso.
– Cazzo, muoviti! Tutti i lavori dentro al sacco!
Il mondo si contrae a vista d’occhio. Ai margini del Centro per l’Impiego, ridotto ormai a poco più di un ripostiglio o di uno sgabuzzino, una cornice nera e si stringe a cappio sul commando.
– E’ una trappola! Via! Siamo fregati! Via, via, via! – urla Carlo.
Prova a fuggire camminando a quattro zampe, tastando l’oscurità che è giunta a avvolgere ogni cosa e ogni pensiero.
Poi tutto collassa in un punto, come l’immagine di un vecchio televisore valvolare che si spegne.

*


14 risposte a "Felicità"

  1. “Unico tra i diritti, il diritto al lavoro è esplicitamente enunciato tra i principi fondamentali della Costituzione. La politica deve essere condizionata al lavoro e non il lavoro alla politica. E’ bene ribadirlo, oggi, mentre è in corso il rovesciamento di questo rapporto”.
    (Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sul lavoro, La solitudine dell’articolo 1, Ed. Einaudi, Torino 2013).
    Grazie Danilo Dolci e Malos Mannaja,
    Rosaria Di Donato

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  2. bell’incubo lucido, incalzante come tutti i sogni troppo simili al reale. non sono molto convinto che amare il proprio lavoro sia la cosa più vicina alla felicità. la felicità distillata è un concetto moderno: per me rimane una reazione chimica rara, spesso inaspettata, da godersi fino all’ultima scarica perché si esaurisce in fretta. e, personalmente, non la trovo nel lavoro, pur facendo un lavoro che mi piace assai.

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  3. @Rosaria Di Donato: grazie per la puntuale citazione di Zagrebelsky, il più colto e onesto tra i giuristi italiani viventi, che non a caso scopriamo in perfetta sintonia con il pensiero di Danilo Dolci (e, molto più umilmente, col mio). il problema fondamentale è tutto qui: concetti che dovrebbero essere banali e che peraltro sono espressi in modo chiarissimo nella costituzione, sono diventati *rivoluzionari* in questo triste momento storico dove la politica si è ridotta a mero economicismo al servizio dei capitali internazionali, delle banche e dei mercati finanziari. detto questo c’è poco altro da dire, e qualsiasi ulteriore racconto è superfluo.

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  4. @Domenico: grazie per la lettura e per il “bell’incubo” : ))
    scrivi sulla felicità: “personalmente, non la trovo nel lavoro”. mmm… scommettiamo che non la penseresti più allo stesso modo se all’improvviso perdessi il lavoro?
    : ((
    il problema nel tuo ragionamento, Domenico, è simile a quello di chi, essendo in buona salute, dà per scontato a priori l’essere sano e “se ne dimentica”. ohi, beninteso, è un comportamento umano e molto comune: quanto spesso ci è capitato di incontrare una persona che salta dalla gioia e che alla domanda “perché sei felice?” risponda “perché sono in salute”???? a me mai.
    : )
    la salute e il lavoro sono due realtà molto particolari, della cui importanza “a monte” ci rendiamo conto solo quando la/lo perdiamo. in tal senso la frase di Levi (un grand’uomo sotto ogni punto di vista) stava lì in incipit per sollecitare le nostre menti a riallacciare il legame invisibile tra lavoro e felicità.
    poi, ovviamente sei liberissimo di non trovare la felicità nel lavoro (mi spiace per te), ma non perdere di vista quanto sia fondamentale *per la tua felicità* il fatto di avere un lavoro. avere un lavoro dignitoso è il presupposto *a monte* che ti consente di essere felice (anche di altre cose) e di godere appieno dei tuoi diritti.

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  5. Mi è piaciuto molto questo tuo racconto, malos. Si sente la tua mano felice quando parli di ragazzi (“Gettarsi amare”). C’è all’inizio uno straniarsi, un guardarli quasi da una certa distanza mostrandone la goffaggine (“intellettuale di sinistra andato a male”), nei comportamenti, nei ragionamenti, ma poi ribalti l’immagine rivelando la loro profondità (“per sapere se sei davvero felice c’è un metodo infallibile: sentire la felicità dall’interno. Ti guardi dentro, con gli occhi dello stomaco: quando è molto pieno, sei felice.”). Va a loro la tua compassione, vittime di un mondo ormai alla deriva, un mondo “discarica” in tutti i sensi, dove la fuga è un mare virtuale (la bellissima immagine del galoppo nel mare “lattescente”). Alla fine anche “felicità”, parola così abusata, paradossalmente ritrova un significato. Trovo anche qui un tuo intento “pedagogico” (dovrebbero leggerti nelle scuole); come attraverso il paradosso (la madre che dandosi fuoco non ha rispetto per il prossimo) evidenzi le assurdità della realtà sociale, come riesci ad accendere delle “spie”, provocare scintille, darti in pasto, spiegando finanche “concetti basilari di economia internazionale”.
    Thanks!

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  6. @Abele Longo: grazie a te Abele per la lettura e per l’apprezzamento. non so, però, temo che i miei scritti non riescano nel loro intento “pedagogico”. i ragazzi non leggono (tranne marginali eccezioni a confermare la regola) e quando lo fanno difficilmente sono in grado di ritenere concetti espressi in più di 140 caratteri. le nuove generazioni ragionano principalmente per immagini, slogan e mappe concettuali, non hanno tempo per la complessità, la realtà è un tapis roulant che gli sfugge via sotto ai piedi come fosse lo scorrere sull’iPhone della bacheca di Féisbuc sotto i polpastrelli… se gli chiedi di fermarsi a riflettere su qualcosa ti guardano come se gli avessi chiesto di saltare giù da un treno in corsa: in pratica, la trappola in cui si infilano da soli è senza vie d’uscita perché provare a parlarne è troppo complicato. ed ecco allora la tragedia dei tanti, troppi Carlo, cui non resta che spararsi in bocca e lasciare che il cervello, tempo qualche minuto di onirica agonia, si spenga lasciando il posto all’oscurità “giunta a avvolgere ogni cosa e ogni pensiero”.

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  7. Ciao Malos, sono reduce dalla lettura di”formicolii” bel racconto filosofico in stile Hitchcock, mentre leggendo questo dai toni più drammatici e attuali mi sono scattati questi due pensieri:

    Primo, alla citazione di Dolci aggiungerei a “lavoro” l’aggettivo “dignitoso”, parola da non dare mai per scontata. Intendendo un lavoro con orari-festività-mansioni consone alla persona e con una paga adeguata al costo della vita. Ne ho cambiati un sacco di lavori come sai, non ne ho mai trovato uno che rispettasse queste due prerogative. Sarà ovviamente che ci sono lavori di seria A e di serie B e che ognuno si crea le prospettive che può ed ha i personali criteri di valutazione, ma certi lavori proprio non si possono amare, vuoi per le condizioni, vuoi perché diventano un ricatto al quale non puoi reagire, (proprio come ribadisce il controllore). Oggi alla radio sentivo della possibile soluzione del governo per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, ovvero, alzare l’aliquota contributiva aggiuntiva nelle assunzioni a tempo determinato…altro ricatto che non produrrà niente di buono.

    Secondo, la felicità è una delle parole più assurde che circolano, cosa dovrebbe rappresentare? Si possono vivere momenti di grande emozione, sentirsi in pace, gioire per le esperienze che viviamo, ecc…quindi ok se questa parola vuole rappresentare l’infinità di cose che possono riguardare le persone, diventa invece assurda quando ci crea insoddisfazione innalzandosi a chissà quale estasi perpetua alla quale ambire. E allora il lavoro cosa c’entra? Semplicemente che se amare il proprio lavoro rende felici va benone, ma non credo alle ricette standar tipo quella di Levi in calce alla foto. Magari avere un buon lavoro potrebbe essere la base per stare sereni e provare a fare la vita che più ci aggrada. Mi rimase impressa una frase di un mio amico pittore al quale chiesi perché dipingeva, rispose seccamente: “Perché il lavoro mi fa schifo”, viva la sincerità.

    Racconto come sempre interessante quindi che sfiora con l’ironia e la leggerezza del tuo stile situazioni drammatiche e argomenti fondanti del vivere in società. Bella davvero la svolta surreale al premere del grilletto, un gioiello il rapinatore di posti di lavoro, very-complimenti.

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  8. @Ciglie: oppoffarbacco, Carlo, ma sei fuori di testa-aaa!?!? non ti vergogni di andare in giro per la rete a riesumare racconti come un losco profanatore di tombe virtuali???! non sai che leggere al di fuori dell’om péig fa calare la vista esattamente come masturbarsi?! di più, un recente studio pubblicato su Annals Internal Medicine ha dimostrato una stretta correlazione tra lettura di parole in avanzato stato di decomposizione e pustolosi spongiforme di Kogoij!
    : ))
    “formicolii” lo scrissi circa due anni fa per esorcizzare l’immagine di un caro amico portato via pezzo a pezzo dall’Alzheimer (alla faccia di Borges e della memoria che non lascia scampo). “felicità”, invece è un racconto che potremmo definire “ancora caldo”, visto che è morto appena due o tre settimane fa (se lo rileggo, fa ancora male).
    ordunque, oltre a un abbraccione fraterno per il tempo dedicato, chetticco? mmmm… beh, hai ragione, “felicità” è una parola astratta (e tu sai come la penso sulle parole astratte), strumentale alla neolingua del bisogno per sostenere indefinitamente domanda e mercato.
    Anche il lavoro potrebbe sembrare una parola astratta, ma forse lo è meno di quel che sembra. la definizione di lavoro dice: “Il lavoro è un’attività produttiva tenuta in regola dalla legge, che implica la messa in atto di conoscenze rigorose e metodiche, intellettuali, artistiche o manuali, per produrre e dispensare beni e servizi in cambio di compenso, monetario o meno. E’ un servizio utile che si rende alla società, e prevede la concessione sistematica al pubblico di un bene in cambio di un altro, in forma di compenso non sempre monetario.”
    sai perché telacito? perché anch’io, nel rispondere a un precedente commento di @Domenico (se vuoi leggerlo, alcune cose calzano a pennello anche per te) aggiungevo la parola “dignitoso”. e ciò mi ha dato da pensare, visto che, tornando alla definizione di “lavoro”, verrebbe da chiosare che se è davvero “tenuto in regola di legge”, *dignitoso* dovrebbe esserlo per forza, a meno che la schiavitù (o equivalenti) non siano consentiti dalla legislazione.
    dunque, forse, invece di precisare “lavoro dignitoso” dovremmo parlare di “leggi dignitose” (ecco…), perché, con buona pace di battute da bar e affini, IL LAVORO E’ IL TUO *DIRITTO DI CITTADINANZA* in un sistema economico capitalista (che come intuirai dal documento programmatico di Copylefteratura non è il mio sistema economico ideale, ma ne abbiamo a disposizione altri? vogliamo imporre al mondo una “comune internazionale”? ih ih…).
    pertanto, mi spiace, ma devo dire che il tuo “amico pittore” mostra scarse cognizioni nell’ambito delle scienze sociali e naturali quando risponde “il lavoro mi fa schifo”, rischiando di fare la fine dell’utile idiota del globalismo liberista. e ciò, come si evince da quanto detto sopra, per almeno due validi motivi: primo perché sputa sul suo diritto di cittadinanza, secondo perché non ha capito che il suo lavoro – vedasi la definizione di lavoro di cui sopra – probabilmente è fare il pittore (lavoro spesso mal retribuito, ma questo un problema di domanda/offerta, non di “amore per il lavoro”, come suggeriva Levi).

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  9. E certo che mi vergogno, ma a navigar in questo mar silente è facile imbattersi in dei racconti da inforcar la lente;-)

    Grazie a te per la risposta Malos, abbraccio ricambiato…ma hai fatto caso o sono io che ci vedo poco, ehm…sai la vista…;-) che neanche nella definizione di lavoro esiste la parola “dignitoso”?…ehhh sanno loro come portare il cappello. Comunque quel pensiero l’ho fatto pure io, “se è davvero “tenuto in regola di legge”, *dignitoso* dovrebbe esserlo per forza, ” ma mi è sembrato come spostare il problema dalla padella alla brace, infatti poi parli di “leggi dignitose” e cambia poco. Evidentemente se esistono lavori poco dignitosi, le leggi,(o la mancata applicazione che è peggio di una cattiva legge), lo sono altrettanto.

    Comunque tengo a precisare che io condivido il tuo pensiero sul valore del lavoro, e quanto per me, come ho già scritto nel post precedente, rappresenti un po’ la base dalla quale tuffarsi nella vita che vogliamo fare. Mi piacerebbe solo che il divario fra i soavi articoli della costituzione e la cruda realtà si riducesse un po’, e partirei per l’appunto dal rispetto delle persone.

    Riguardo al mio amico pittore devo dire che ci vive alla grande con la sua pittura altroché e fatica pure non poco, quind a tutti gli effetti è un lavoro, però forse lui si riferiva a quei lavori mal retribuiti e stancanti che sei comunque costretto a fare se non vuoi morire di fame-freddo-emarginazione…ecc., e sono molto diffusi purtroppo. D’altronde non ci sono molte scelte, a meno che non si diventi dei criminali o chissà cosa, se vuoi stare nella società devi avere un lavoro, per questo è vitale che sia dignitoso, o magari qualcosa che ti piace così tanto che non lo consideri neanche lavoro, vedi il pittore sopra detto.

    Ps: Occhio, io continuo a navigar in cerca di racconti! Tanto ho gli occhiali…

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  10. Il signore delle brigate in prosa.:)
    gran bel racconto…la felicità è molto più eterna di quanto si pensi, e i ragazzi mi sa che se ne curano sempre meno, basta uno screenshot, ce l’hanno a portata di touch…tanto per citarmi addosso:
    Ridevi certamente
    poco respiro e nemmeno
    più specchi dove arrampicarsi
    resettare i ricordi è il primo
    passo per annullare sprechi
    una nuova gestione svela
    i tempi maturi, oppressivi –
    come puoi smettere
    di ridere in una foto?,
    ti dicevi quasi cantando
    di aver trovato
    la felicità, lì
    fissata tra un viraggio
    e una venatura.
    🙂 un abbraccio!
    mm

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  11. Vi racconto questa….

    Radio anch’io del 05/10/2017, link di riferimentio http://www.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-81f4ca04-29e6-4856-b130-4cbd3ee74684.html , fra i vari argomenti si parla anche di evasione fiscale, le categorie evidenziate sono le seguenti: Gli evasori furbetti, gli evasori furboni e cioè le multinazionali, e infine gli evasori per necessità. Fra gli ospiti parlano l’ex Magistrato Bruno Tinti e Franco Fichera, Prof. e preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napol. Il primo, stimolato dalle varie domande degli ascoltatori interessati principalmente alla categoria degli evasori per necessità, (non tutti siamo Rockefeller), sentenzia che è assurdo sentire discorsi di inadempienza fiscale per motivi di necessità, ovvero di povertà. Deve essere chiaro che chi non paga le tasse e utilizza i servizi dello Stato non fa il proprio dovere e fa pagare ad altri cittadini più virtuosi i servizi che utilizza; in pratica è come se gli rubasse dei soldi. Ecco perché L’Italia è il parassita dell’Europa aggiunge, e a chi gli chiede se gli pare giusto pagare delle tasse che corrispondono ad una pressione fiscale del 68% contro la media Europea del 40%, ribadisce di si perché è la legge. Inoltre come non bastasse rincara la dose facendo intendere che non tutti i lavori sono uguali e che i cittadini non possono danneggiare il sistema fiscale perché vorrebbero pagare le tasse agevolmente, ognuno ha la vita che si merita in sostanza. Il prof FIchera quindi, sicuramente con gli occhi lucidi per cotanta profusione di saggezza, prende la parola e completa l’idillio del suo predecessore forgiando il messaggio che se tutti i cittadini pagheranno le tasse il sistema stesso premierà anche le situazioni più drastiche perché ci sarà un ritorno di qualità dei servizi e magari di posti di lavoro. Bei discorsi accademici vero? Addirittura se sei povero e paghi comunque le tasse, (come fare non l’hanno specificato, peccato), in un futuro sicuramente compatibile con la tua povertà avrai un ritorno di qualità della vita, eh si sono dei fulgidi esempi di empatia questi ospiti. E all’ex Magistrato Tinti cosa ci sarebbe da dire? Io personalmente gli direi che ha ragione, è un dovere dei cittadini pagare le tasse, tuttavia gli ricorderei pure che per pagarle ci vogliono dei soldi e che secondo l’Art. 4 della Costituzione, (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.), è anche un dovere dello Stato garantire a tutti i cittadini un lavoro, (e io aggiungo dignitoso), che consenta loro di vivere dignitosamente e quindi di pagarle le tasse. Si evince quindi che se lo Stato non fa il proprio dovere neanche il cittadino più virtuoso può farlo. Personalmente deduco anche, (e dirò una bestemmia per molti), che indirettamente forse è giusto che i cittadini che vivono in condizioni di povertà non paghino le tasse per i servizi che utilizzano, almeno fino a quando non potranno farlo. In realtà infatti chi ruba i soldi agli altri che possono pagarle è ancora lui, lo Stato, il quale non svolgendo bene i suoi compiti o magari non aiutando con qualche agevolazione fiscale le persone in difficoltà, a partire dai più poveri fino ai vari imprenditori delle PMI che devono evadere l’IVA o taroccare le dichiarazioni per riuscire a fare la spesa ecc… come minimo sbilancia tutto il sistema sovraccaricando i pochi onesti che riescono ancora a pagare e se ne frega altamente di tutti gli altri. Concludo rammaricandomi che molti ruoli di responsabilità in Italia sono ricoperti da questa tipologia di personcine, persone presuntuose e incapaci che prendono decisioni importanti per tutti o devono educare i giovani. L’Italia è il parassita dell’Europa? (anche se l’Europa è il parassita degli stati), ma si dai hanno ragione Ficarra e Picone, no Grattachecca & Fichetto, azz… Tinti e Fichera… sicuramente è colpa dei cittadini che per necessità non pagano le tasse.

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  12. i contenuti del racconto e le sue possibili svariate chiavi di lettura sono state egregiamente sviscerate, quindi qualsiasi mio commento in merito sarebbe ripetitivo. mi limito a dire che ho apprezzato molto il ritmo sincopato del racconto, la trama è ben orchestrata, nonostante sia basata quasi esclusivamente sui dialoghi. scrittura contemporanea, che attinge all’uso, molto dinamica. ottima predisposizione all’affabulazione, una certa tendenza all’effetto e infine una malcelata ma umanissima ricerca di condivisione, cioè di entrare in empatia col lettore.

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  13. @ Maurizio: ringrazio in ritardo (sono spesso disconnesso, ultimamente, e il tuo commento mi era sfuggito, chiedo venia). la poesia che citi la ricordavo bene (“come puoi smettere di ridere in una foto?” è una domanda che fa troppo male).
    @ Paolo Vincenti: i dialoghi sono importanti: consentono di ascoltare la viva voce dei protagonisti, cosa che a me piace tantissimo. una volta, da giovine lettore, mi domandai perché la vita fosse piena di dialoghi e la narrativa molto meno. ma il tempo passa: oggi, con l’avvento di iPhone e tecnologie autistiche assortite, tale domanda non ha più motivo d’essere. e hai ragione: la condivisione è tutto nella prosa (mentre nella poesia può anche essere superflua). grazie per le parole e soprattutto per essere venuto a cercarle lontano dall’om peig : ))

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