Poetry Lab: Angelica Cante
Da dove viene la tua poesia?
Viene dal buio. Quando ero bambina e per moltissimi anni ho avuto paura del buio. Sia temporale che delle cose oscure, incomprensibili. Se ne parlavo però non ero ascoltata o, necessariamente, non più di tanto. Così ho cominciato a scrivere. La mia poesia è il buio che ho dentro.
Per chi scrivi, come immagini il tuo lettore?
In assoluta sincerità? Scrivo per me. Scrivo per me e per pochissime altre persone. Non scrivo mai pensando a un immaginario lettore, scrivo semmai solo pensando al lettore cui sento destinata quella poesia. So bene che poi le faccio leggere anche ad altri, però nel momento stesso in cui scrivo la poesia resta privata, spesso dedicata. Talvolta sono la sola lettrice di me stessa mentre scrivo anche quando so che invece poi le mostrerò ad altri occhi.
Come vivi con te stessa e con gli altri il tuo essere poeta?
Non ci ho mai pensato, difficilmente nella quotidianità ne parlo se non con amici che condividono la mia stessa passione. E questo non perché io lo viva con difficoltà, ma perché continua a essere ancora una sensazione strettamente personale. E talvolta mi sembra come quando da bambini si gioca ai mestieri. Io da grande vorrei fare poesia. Non so quanto m’interessi fare il poeta.
Come hai iniziato?
Nell’adolescenza mantenevo un diario, non ricordo però che ci scrivessi poesie. La sola scritta in giovanissima età fu una poesia dedicata a mia madre, ma poi smisi. A venticinque anni è stata la poesia a trovare me. All’inizio era come l’elenco della spesa. Pochi versi, appunti, e comunque non conservavo nulla. Certo, scrivevo, ma scrivevo per me, una sorta di autoanalisi, un bisogno di portar fuori ciò che mi premeva nel profondo. Ero diventata un’adulta con quel buio di cui ho detto all’inizio. Non cercavo di illuminarlo, cercavo di farmelo amico attraverso le parole.
Come ti veniva insegnata a scuola la poesia, che ricordi hai?
Non ne ho moltissimi. Ricordo vagamente che alle medie ci chiedevano di imparare a memoria i versi di questa o quella poesia e che se ne faceva un’analisi del testo ma a me risultava difficile accettare che la “traduzione” di versi per altro bellissimi, fosse scontatamente insegnata. Così sono cresciuta credendo che la poesia fosse una cosa antica e noiosa, frasi assurde che non comprendevo, come la storia della cavallina storna. Col tempo ho compreso che la poesia per me era ed è un mistero. Può essere materia di studio, ma allora bisogna insegnarla diversamente. Meno didatticamente.
A chi fai leggere per prima i versi della tua poesia?
Capita che mentre la stia scrivendo la legga più e più volte a mia figlia che essendo davvero piccola, non protesti mai. Quando la ritengo terminata, talvolta la faccio leggere a un’amica che stimo moltissimo come poetessa e come critico e attraverso i suoi occhi spesso ho visto cose nelle mie poesie che nemmeno credevo di aver immaginato.
Usi la penna e/o il computer?
Uso quello che capita . uso molto la penna moltissimo la matita perché mi piace il tratto del lapis nello scrivere, ma spessissimo scrivo di getto sul computer.
Quanto viene di getto o è frutto di lunghe elaborazioni?
Il pensiero è quasi sempre istintivo. L’idea immateriale di ciò che voglio dire è quasi immediatamente chiara in me, molto, molto più difficile tradurlo in parole. Forse non faccio lunghe elaborazioni ma posso metterci giorni a finire una poesia perché magari scrivo due o tre parole alla volta.
A parte le tue, quante poesie di altri pensi di ricordare a memoria?
Nessuna per intero. Di sicuro nemmeno una delle mie, neanche un inizio, nulla. Di altri ricordo qualche verso non più di una riga comunque. Questo è un bene perché ho provato a emozionarmi diverse volte di seguito ascoltando una poesia perché per me era sempre il primo ascolto.
Un consiglio prezioso da passare agli altri.
La poesia deve anche saper far ridere, deve anche farvi ridere mentre la scrivete. Io non ne sono capace e vorrei tanto riuscirci. Voi potete sempre provarci.
Una poesia su tutte.
Due, entrambe di due poetesse contemporanee che stimo moltissimo e che ho l’onore di chiamare amiche: “intempestiva” di Patricia Panebianco e “così è” di Doris Emilia Bragagnini.
Dimentichi di passeri e d’edera
ancora siamo logica che pizzica le cosce e il viaggio
senza inibizione alle domande
gira/soli di notte fra cespugli e culle
li vedo reclinarsi ai sassi
sempre al centro di un’ombra capovolta
accoglimi nel silenzio
fotografia di un neo da dove ripartire
e cercami un chiodo più per appartenenza
che per convincimento
un destino a guisa d’autunno
quando i giardini sono le pietre sotto casa
dimentichi di passeri e d’edera.
vorrei essere
un tentativo di vernice alle pareti,
o ancora il tuo monologo tra i denti
“non lo so se c’è futuro”
(da “spalle al lupo” edizione Kimerik 2009)
*
Resta una parola per l’assenza
non cerco sai né d’occhi né di mani,
di carne fra le costole o l’addome,
non chiedo di mattoni nelle case
o un posto dove crescere la sabbia
resta un solco,
l’enormità di foglie e di marcite
quando si sa d’essere terra e fango
tessuta in rami di febbraio e freddo
resta la rima dei non accomodamenti
che guarda e stilla a goccia sopra i vetri
e ridisegna quadri in disaccordo
come un tumulo
d’attenzione e di contrasto,
luminosità di un punto a capoverso
e piove a ganci conficcati nella fronte
un cigolio di desideri in ombra.
/resta una parolasola per l’assenza/
*** altro di Angelica Cante qui
Angelica Cante è nata a Giugliano in provincia di Napoli. “Spalle al lupo ed. Kimerik 2009” è la sua opera prima, altre brevi raccolte sono ospiti in siti dedicati (neobar, larosainpiù, il giardino dei poeti). Poesie e fotografia sono il suo modo di raccontare il suo piccolo mondo, una figlia, il compagno, il cane, il gatto, il coniglio e poche altre splendide cose.
Aggiungerei che averti trovato (e poi ancora) ha dato un senso alla poesia. Grazie Do
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Grazie Angelica, per essere tornata con noi a neobar, aver aderito al poetry lab consentendo una continuità di dialogo dopo tanto tempo. Mancavi dal 2009! Questa nuova pagina a te dedicata mi piace pensarla come un piccolo anticipo sulle prossime che verranno, non puoi mancare (almeno non troppo a lungo)…
D.
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forse è anche logico che quando la poesia “viene dal buio”, sia difficile che sappia far ridere (sarebbe un controsenso, no?). magari se la poesia venisse dalla vita, allora il discorso sarebbe diverso (nella vita si ride e si piange, talvolta confusa/mente), ma quando nasce da qualcosa che fa paura…
mmmmm….no, ritratto, non ne sono più tanto convinto, nel senso che tanto una risata quanto un sorriso sono frecce potenti al nostro arco nell’esorcizzare le paure. ordunque? mi sono incartato.
: )
vabbè, in fondo il bello è proprio che a volte i conti non tornino (sennò saremmo perfetti e pertanto noiosi, mentre per contro fragilità e incoerenze sono ricchissime d’umanità). e, parimenti, belle sono le poesie di Angelica Cante qui proposte da Doris, che ringrazio.
“dimentichi di passeri e d’edera” ha in quel “li vedo” privo di soggetto certo (girasoli? passeri e edera? pensieri/ricordi che si aggirano da soli?) uno slancio evocativo potente e contagioso che s’infrange impietoso sulle vecchie pietre sotto casa “dimentiche” di vita. il tempo è un’ombra, una clessidra che la nostra mente capovolge in un impossibile tentativo di ristrutturare l’appartamento andato, nonostante gli ecobonus per la riqualificazione energetica con annessa detrazione al 65%. e a fine corsa resta solo il dubbio, logiche “tra i denti” (tradenti) a ritinteggiare un futuro incerto.
“resta una parola per l’assenza” riprende il testimone dal cerchio dei gira/soli precedenti, cercando un parasole (parolesole) al luminoso capoverso (nell’eco dell’ombra capovolta di cui sopra). mi piace pensare che il nucleo polposo sia sonoro, quel “cigolio di desideri in ombra”, tenuti in ostaggio, per assurdo, proprio dal parasole delle parolesole. un darsi la zappa sui piedi, mentre si scava “un solco” privo di vita, un ridi/segnare beffardo (ridi/pagliaccio) che non riesce ad affrancarsi dal contrasto-disaccordo-tumulto neanche nell’assenza e che deforma la visione d’insieme del mondo esterno/interno come una finestra gocciolante di condensa (impossibile non chiosare che le lacrime producono lo stesso effetto). sì, insomma, un mattatoio dove davvero non c’è scampo dalla memoria e dal pensiero (“piove a ganci conficcati nella fronte”). nota particolare sullo spezzarsi metrico del nono verso su “non accomodamenti”: inceppo pregno di significato.
ps: Patricia Panebianco è una delle poetesse contemporanee che più amo
: )
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Ci sono cose di cui non sono mai stata certa, eppure rileggendo questo commento, le ho ritrovate tutte lì, come il mio lettino in collegio che da qualche parte nella mia mente continua ad essere non accomodamento.
Grazie delle sue belle e preziose parole
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