“novembre ammucchia le foglie in terra, dicembre ammazza l’anno e lo sotterra”: così diceva la filastrocca dei mesi insegnatami dal nonno Senio. ecco perché, prosenze inquietanti di novembre, non può che riproporre “Tartarughe”, un racconto di Stefano Solventi, autore che di recente ha dato alle stampe l’ottimo romanzo Nastri e che è uno dei pochi critici musicali (insieme al venerato maestro Eddy Cilìa) che capisca qualcosa di musica…
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Tartarughe
L’uomo avrà la mia età, più o meno. La sua compagna, idem. Sostano in piedi di fronte a una panchina, dove sta seduta una signora anziana. La signora anziana, molto anziana, indossa un abito leggero, lungo fino alla metà delle caviglie, caviglie così sottili che non puoi guardarle senza sentire lo stomaco comprimersi. Sottili e pallide come le braccia, quest’ultime abbandonate sul ventre, le mani che si toccano l’un l’altra per i palmi, attestano l’una la presenza dell’altra. L’anziana ha i capelli radi e corti, gli occhi neri e spilliformi puntati verso il laghetto. Guarda le tartarughe d’acqua, le guarda che incrociano rotte pigre o stanno rigide sulle sponde, si offrono al sole, immobili a parte qualche movimento improvviso, a scatti, i gusci che sbiancano asciugandosi, acquisendo lo stesso colore biancastro delle pietre.
L’uomo annuisce e sorride mentre la donna – la sua compagna? Sua sorella? – parla al telefono, la voce alta, troppo alta, che fa squillare scampoli di frasi nella quiete del parco, quella quiete sospesa e sorpresa da domenica mattina, quando tutto sembra accadere da un’altra parte, e quasi sembra di sentire la leggerezza dell’accadere. “Sì sì, è tranquilla”, la sento dire. “Un po’ di latte col pane”, la sento dire. “Ci sono le tartarughe”, la sento dire. L’uomo, che continua a sorridere rivolto all’anziana, d’un tratto prende un telefono dalla tasca della giacca, si mette ad armeggiare finché non fa partire una musica. Un valzer viennese, mi pare. Credo di Strauss, ma non saprei con certezza.
L’anziana di colpo spalanca la bocca. La pelle del volto s’impegna tutta insieme in uno stupore gioioso. S’impegna tutta insieme, la pelle, come chiamata a raccolta per manifestare un’espressione di felicità piena, esclusiva. Fragile, sì, ma totale, senza ombre di consapevolezza, senza rimpianto. Come una palla trattenuta sott’acqua che, appena lasciata libera, fa un balzo verso la superficie, oltre la superficie, si prende l’aria e la scena. Vedo l’anziana sollevare le braccia, iniziare a muoverle per scandire il tempo. Va fuori tempo rispetto alla musica, ma ho come la sensazione che sia la musica, invece, a sbagliare. La vedo battere le mani senza produrre alcun rumore, come se i palmi delle mani non ne fossero più in grado, capaci soltanto di verificarsi l’un l’altro, di sancire l’abbandono. Invece il busto, le gambe, le caviglie sottili, restano immobili.
L’uomo fa scivolare il telefono nella tasca della giacca, mentre la musica continua a gracchiare e vorticare. Si china verso l’anziana, la fa alzare, la sostiene. Iniziano a ballare, lei un intruglio di ossa e ginocchia improvvise, lui uno schema di movimenti cauti. Li guardo e mi sembrano credibili. In qualche modo, mi sembrano credibili. Adeguati. La compagna o sorella di lui – chissà – adesso ride, parla ancora al telefono, fa squillare altre frasi. “Sta ballando”, “dovreste vederla”, “vi spedisco il video”. Non dura molto. L’anziana manda indietro la testa, sposta una mano sul viso dell’uomo, guardando altrove, come se non riuscisse più a concepirsi. Lui si ferma, le dice qualcosa in un orecchio. La fa sedere, piano, sulla panchina. Lei recupera la posizione di prima, come se fosse l’unica posizione possibile, l’unica che le sia rimasta. Tiene la bocca aperta, senza labbra. I tratti irrigiditi in un sorriso, una maschera di sorriso.
Ed ecco che solleva le braccia, le mani. Le fa ondeggiare. Canta, con una voce che è un po’ bambina e un po’ esausta, una voce da fine del tempo. La melodia è sparsa, incerta, ma riconosco le parole. Sono le parole del Ballo del qua qua. L’uomo ride. La sua compagna-o-sorella riprende la scena col telefono. Sta ridendo anche lei, però mi sembra di vedere una lacrima rigarle la guancia. Non ne sono sicuro, mi sembra solo di vederla brillare. L’anziana canta. I pochi passanti, nel parco, si voltano nella loro direzione. Un uomo si sofferma, ha l’espressione più divertita che stupefatta. Saluta. L’uomo e la donna fratelli-compagni ricambiano il saluto. La donna ammicca verso l’anziana sulla panchina e dice: “novantatré anni, balla e canta”. Ridono entrambi.
A quel punto, non saprei dire se nello stesso momento, se subito dopo o poco dopo, questione comunque di istanti, l’anziana si zittisce, si blocca. Porta le mani al volto. Solo gli occhi rimangono scoperti. Quegli spilli neri, più vivi dentro che fuori, ma dentro vivissimi. Vivi di un’agitazione impossibile da misurare. L’uomo, che forse è il nipote, che forse è un marito, oppure un compagno, un fratello, porta le mani ai fianchi e osserva l’anziana. La osserva con gli occhi di chi non capisce. La donna, sorella o compagna, sta digitando sul telefono. Alza la testa e osserva a sua volta l’anziana, congelando una breve esitazione.
Lo sguardo dell’anziana è rigido, nero e inflessibile. Lo seguo. In quel silenzio nuovo, diverso, sospeso, lo seguo. Lo scopro puntare la sponda del laghetto, dove il sole di maggio imbianca tutto, la staccionata, le pietre, i carapaci. Lo seguo, e vedo una tartaruga, una tra le più grandi, che si è rovesciata tra le pietre. Agita le zampe, estrae il collo estenuato. Oscilla, in bilico tra due pietre. Si rovescia ancora. Scivola. Scompare nell’acqua putrida.
L’uomo annuisce e sorride mentre la donna – la sua compagna? Sua sorella? – parla al telefono, la voce alta, troppo alta, che fa squillare scampoli di frasi nella quiete del parco, quella quiete sospesa e sorpresa da domenica mattina, quando tutto sembra accadere da un’altra parte, e quasi sembra di sentire la leggerezza dell’accadere. “Sì sì, è tranquilla”, la sento dire. “Un po’ di latte col pane”, la sento dire. “Ci sono le tartarughe”, la sento dire. L’uomo, che continua a sorridere rivolto all’anziana, d’un tratto prende un telefono dalla tasca della giacca, si mette ad armeggiare finché non fa partire una musica. Un valzer viennese, mi pare. Credo di Strauss, ma non saprei con certezza.
L’anziana di colpo spalanca la bocca. La pelle del volto s’impegna tutta insieme in uno stupore gioioso. S’impegna tutta insieme, la pelle, come chiamata a raccolta per manifestare un’espressione di felicità piena, esclusiva. Fragile, sì, ma totale, senza ombre di consapevolezza, senza rimpianto. Come una palla trattenuta sott’acqua che, appena lasciata libera, fa un balzo verso la superficie, oltre la superficie, si prende l’aria e la scena. Vedo l’anziana sollevare le braccia, iniziare a muoverle per scandire il tempo. Va fuori tempo rispetto alla musica, ma ho come la sensazione che sia la musica, invece, a sbagliare. La vedo battere le mani senza produrre alcun rumore, come se i palmi delle mani non ne fossero più in grado, capaci soltanto di verificarsi l’un l’altro, di sancire l’abbandono. Invece il busto, le gambe, le caviglie sottili, restano immobili.
L’uomo fa scivolare il telefono nella tasca della giacca, mentre la musica continua a gracchiare e vorticare. Si china verso l’anziana, la fa alzare, la sostiene. Iniziano a ballare, lei un intruglio di ossa e ginocchia improvvise, lui uno schema di movimenti cauti. Li guardo e mi sembrano credibili. In qualche modo, mi sembrano credibili. Adeguati. La compagna o sorella di lui – chissà – adesso ride, parla ancora al telefono, fa squillare altre frasi. “Sta ballando”, “dovreste vederla”, “vi spedisco il video”. Non dura molto. L’anziana manda indietro la testa, sposta una mano sul viso dell’uomo, guardando altrove, come se non riuscisse più a concepirsi. Lui si ferma, le dice qualcosa in un orecchio. La fa sedere, piano, sulla panchina. Lei recupera la posizione di prima, come se fosse l’unica posizione possibile, l’unica che le sia rimasta. Tiene la bocca aperta, senza labbra. I tratti irrigiditi in un sorriso, una maschera di sorriso.
Ed ecco che solleva le braccia, le mani. Le fa ondeggiare. Canta, con una voce che è un po’ bambina e un po’ esausta, una voce da fine del tempo. La melodia è sparsa, incerta, ma riconosco le parole. Sono le parole del Ballo del qua qua. L’uomo ride. La sua compagna-o-sorella riprende la scena col telefono. Sta ridendo anche lei, però mi sembra di vedere una lacrima rigarle la guancia. Non ne sono sicuro, mi sembra solo di vederla brillare. L’anziana canta. I pochi passanti, nel parco, si voltano nella loro direzione. Un uomo si sofferma, ha l’espressione più divertita che stupefatta. Saluta. L’uomo e la donna fratelli-compagni ricambiano il saluto. La donna ammicca verso l’anziana sulla panchina e dice: “novantatré anni, balla e canta”. Ridono entrambi.
A quel punto, non saprei dire se nello stesso momento, se subito dopo o poco dopo, questione comunque di istanti, l’anziana si zittisce, si blocca. Porta le mani al volto. Solo gli occhi rimangono scoperti. Quegli spilli neri, più vivi dentro che fuori, ma dentro vivissimi. Vivi di un’agitazione impossibile da misurare. L’uomo, che forse è il nipote, che forse è un marito, oppure un compagno, un fratello, porta le mani ai fianchi e osserva l’anziana. La osserva con gli occhi di chi non capisce. La donna, sorella o compagna, sta digitando sul telefono. Alza la testa e osserva a sua volta l’anziana, congelando una breve esitazione.
Lo sguardo dell’anziana è rigido, nero e inflessibile. Lo seguo. In quel silenzio nuovo, diverso, sospeso, lo seguo. Lo scopro puntare la sponda del laghetto, dove il sole di maggio imbianca tutto, la staccionata, le pietre, i carapaci. Lo seguo, e vedo una tartaruga, una tra le più grandi, che si è rovesciata tra le pietre. Agita le zampe, estrae il collo estenuato. Oscilla, in bilico tra due pietre. Si rovescia ancora. Scivola. Scompare nell’acqua putrida.
avvolte dall’atmosfera oziosa e ondivaga del laghetto del parco, (specie all’inizio, quando il moto delle parole s’increspa ricorsivo, quasi a tracciare un lieve moto ondoso), vite umane “si offrono al sole” insieme a tartarughe d’acqua. pare un’immagine rassicurante, eppure fin dall’inizio, la luce cade inquietante come in alcuni quadri di Hopper, creando un intrigante chiaroscuro con l’orrore che traspare sotto traccia: un malessere indicibile perché privo di suono quanto le mani “capaci soltanto di verificarsi l’un l’altra”. in particolare nascosto dietro un paravento così sottile che “non puoi guardarlo senza sentire lo stomaco comprimersi”, i gusci che sbiancano fino ad acquisire “lo stesso colore biancastro delle pietre” incarnano uno scomodo punto di flesso tra la materia vivente e quella inanimata. e proprio nel loro non essere del-tutto-vivi o del-tutto-morti, si specchia l’esistenza (desistenza) dell’anziana protagonista di novantatré anni che “balla e canta” ma ha “busto, gambe, caviglie immobili”, “bocca senza labbra” e “occhi spilli neri più vivi dentro che fuori”. impossibile descrivere in modo più pregnante la realtà umana: un’oscillazione tra due stati della materia – come la tartaruga “in bilico tra due pietre” – concetto davvero capace di comunicare una “un’agitazione” incommensurabile.
ed ecco che la realtà stessa si fa fiction al punto che anche guardandola dal vivo siamo costretti a valutare se essa sia in qualche modo “credibile”. di più, la realtà arriva a collimare così perfettamente con la fiction che anche guardandola dal vivo siamo costretti a riprenderla con l’iPhone perché possa davvero accadere (o forse, meglio, per *evitare che accada*!!). un esorcismo? sì, beh, indubbiamente il siparietto della geronte che prima balla un valzer e poi canta “il ballo del qua qua” può risultate divertente. eppure è un ghigno grottesco, quello che ne risulta, la “maschera di un sorriso” dai tratti troppo rigidi. un rigor pre-mortis dove la bocca è un imbuto da cui esce una “voce da fine del tempo” che invece di salmodiare verità assolute o significanti aforismi, farfuglia la nota canzone di Romina Power. brrr… cosa siamo? nel suo cervello che lavora ormai a corrente alternata, pure la vecchia se ne rende conto, al punto che non riesce più a “concepirsi” proprio perché gli occhi spilliformi intuiscono la fine, il non senso, il mondo intento a “scomparire nell’acqua putrida”. davvero un racconto denso e urticante.
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Molto bello il racconto, mi ha fatto pensare a mio papà, io lo leggo in modo diverso da Malos, e forse in modo contrario. Il ballo e la canzoncina sono il segno di un’ improvvisa epifania, nel senso Joyciano, del coglimento per un attimo dell’essenza delle cose del mondo, e la danza è quell Nietzchiana.
Il ritorno vitale per un attimo di un’adolescenza remota e rimossa dalla senilità.
La signora anziana dagli occhi a spillo “più vivi dentro che fuori, ma dentro vivissimi”, poi si blocca perché vede la tartaruga che si dimena tra due sassi, le tartarughe sono l’immagine del forse figlio e della forse compagna del figlio, che si dibattono tra due cellulari, lo sguardo della signora è “nero e inflessibile” perché teme che i due scompaiano anch’essi senza provare la gioia (e la libertà di cantare il ballo del quaqua) nell’acqua putrida.
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grazie, Giancarlo. interpretazione che comunica forza e speranza, la tua, riuscendo a leggere il bicchiere mezzo pieno. bella l’immagine di “un’intima ribellione” della vita di fronte allo scorrere del tempo e del mondo, il guizzo di un attimo mediante il quale si torna bambini non per “rimbambirsi”, ma al contrario, per vivere in modo genuino e senza filtri la gioia e la “libertà di cantare il ballo del quaqua”.
la mia lettura, decisamente “pessimista”, è filtrata com’è ovvio da esperienze personali coi miei pazienti malati – per certi versi essere medico non aiuta – oltre che da vicissitudini familiari (mio padre è morto cognitivamente lucido ma preventivamente “inanimato” da anni di SLA).
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Anche io l’ho trovato un racconto tagliente che potrebbe apparentemente scorrere come una semplice descrizione di una banale domenica sul lago di alcune persone che fanno delle cose normalissime, ma che fin dall’inizio lascia evidenti tracce di inquietudine latente. Vedi le spietate descrizioni della vecchia prima di tutto, poi anche la sfuggente identità dei due adulti che troppo freddamente vengono descritti nei loro gesti dando l’impressione di essere dei serial killer in pausa, e perché no pure la voce narrante, che è pur sempre una persona presente che per qualche imprecisato motivo osserva con molta attenzione la scena.
Tuttavia è un racconto che lascia spazio a interpretazioni di varia gradazione, cioè è sottile il camminamento della lettura/interpretazione; ci si può sbilanciare e cadere nel baratro di cui parla Malos e fare quello che gli scrittori sanno fare meglio di tutti; ed è molto bravo l’autore a stuzzicare la mente con riflessioni mini-invasive ma efficaci, cioè scavare significati dalle sfaccettature della quotidianità, oppure, si può virare intorno alla consapevolezza centrale del racconto, la fine della vita, magari aiutati dallo stimolo visivo della situazione, il racconto è descrittivo e particolarmente luminoso nelle scene, captando il tutto come fosse una neutralità da plasmare, una via per girare in sentimenti diversi e il commento di Locarno mi sembra di quel tipo.
Io per esempio ho accusato pure la “normalità” stessa che fa da spalla al lato oscuro del finale, alla probabile consapevolezza della morte che brilla dentro gli occhi spilliformi della vecchia. Come dire che ho fatto retromarcia dalle spine del finale e mi son ritrovato una pistola puntata alle spalle. Quella “normalità” che può essere stare su una panchina solo perché è il luogo creato per sedersi, oppure ridere e conversare con dei passanti per assolvere il rituale delle convenzioni sociali, essere premurosi per necessità a volte più che per vero spirito di empatia, usare troppo meccanicamente il cellulare come fosse lo sponsor del cervello, ecc…una routine che possibilmente ingabbia più di una fine pure se conduce dentro un putridume.
Mi ha colpito poi la lucidità di quella vecchia novantatreenne che si gela al pensiero della fine, ancora forse, ma comunque alla visione di quella scena tartarughesca, colpito e sorpreso; quanto si può essere consapevoli della morte? C’è un livello finito o nel corso della vita è un continuo crescendo/diminuendo magari causato da folgorazioni come quella sulla riva del lago? Magari quella tartaruga impacciata è stato l’input nella mente della vecchia per ritrovare la stessa coscienza della morte che aveva vissuto anni prima, oppure ormai i suoi pensieri essendo troppo stanchi per perdere tempo con la morte hanno preferito lasciare spazio alla compassione per quell’animale in momentanea difficoltà? Qualcosa di più diretto, fanciullesco, fraterno. I bei racconti come questo hanno il pregio di stimolare i pensieri perché sono aperti, non dicono e basta ma propongono spunti di riflessione legati alla sensibilità di ognuno, proprio come nella realtà di ogni giorno.
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grazie del tuo prezioso contributo, compare!
: )
le annotazioni che qui hai condiviso confermano il passo riflessivo e analitico che ti riconosco da tempo. azzeccatissima soprattutto la chiosa “ho fatto retromarcia dalle spine del finale e mi son ritrovato una pistola puntata alle spalle”…
circa la domanda “quanto si può essere consapevoli della morte?” non so dire: la nostra è sempre una consapevolezza indiretta (posso essere consapevole del fatto che “sto morendo”, non – ovviamente – dell’essere morto o della morte). certo, se c’è qualcuno che può avvinarsi a mo’ di asintoto d’una funzione esponenziale a tale consapevolezza è proprio il grande anziano, il quale, diciamo, è nella posizione “prospetticamente” più favorevole di tutti (foss’anche solo per prossimità) per tentare di mettere a fuoco i contorni del nulla. e questa è una cosa che mi ha sempre affascinato.
virrà dire che, se ci arriviamo e se l’Alzheimer non ci frega prima, ne riparliamo tra cinquant’anni
: ))))
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La vecchia è una specie di dinosauro vivente proprio come la tartaruga. Il parallelo mi comunica l’impressione strana che nonostante un certo rallentamento nei pensieri e nei movimenti possieda una saggezza e un’esperienza tale da consentire attimi di “illuminazione” tipo i santoni zen o qualcosa di simile. E magari ciò che intuisce non è proprio tutta ‘sta bellezza… Mi è molto piaciuto il modo in cui hai descritto il corpo e le azioni perché da un lato chi legge sente tutta l’eccezionalità della situazione, dall’altro è impssibile non sentire un moto di inquietudine e di complicità
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eccezionalità della situazione che si nasconde sotto il quotidiano, intendevo
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Scrittorucolo! che bella sorpresa e che piacere, dov’eri finito? è da quando è naufragato mirimettoingioco che non ti fai sentire… ma soprattutto, dove hai messo le “kappa”????
: ))
direi che hai ragione (almeno a mio modo di sentire)circa l’illuminazione. rende l’idea di quel “si blocca”, seguito più oltre dallo sguardo “rigido, nero e inflessibile”. e in effetti se alcune mitologie orientali sostengono che la tartaruga sorregge il mondo, se la tartaruga finisce a gambe all’aria, per noi potrebbe essere la fine…
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Un racconto a scatole cinesi, un’immagine che apre a un’altra. Un procedere per addizioni, che mette insieme le tessere di un narratore poco onniscente, spaesato quanto il lettore, che prova a capire e fornisce possibili indizi. Cosa lega le tartarughe all’anziana signora, a “quei gusci che sbiancano asciugandosi, acquisendo lo stesso colore biancastro delle pietre”? L’anziana signora forse sente il bisogno di prendersi la scena, nel poco o niente che succede, o di ricordare e ricordarsi che esiste, sia pure al cospetto dell’immancabile telefonino che registra la vita e la manda agli altri. E quel “qua qua”di poweriana memoria spiazza, la donna ritrova la felicità starnazzante delle anatre, che ben ci stanno in una domenica mattina al laghetto del parco. E mi viene da aggiungere, amaramente, che così forse passa la vita di chi si appresta alla morte, nello slancio di parenti che hanno dimestichezza di telefonia e social media e si mettono l’animo in pace riprendendo i vecchi tra le tartarughe. Come ben dice malos, il ballo del qua qua “è un ghigno grottesco”, “un rigor pre-mortis”, rivela, aggiungo, l’assurdo, il freddo, la barbarie della “quotidianità” dei nostri tempi.
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