Paolo Vincenti: La mia isola

LA MIA ISOLA

“Ma ancora farò vela e partirò
io da solo, e anche se sfinito,
la prua indirizzo verso l’infinito
che prima o poi, lo so, raggiungerò.
L’Ultima Thule attende al Nord estremo,
regno di ghiaccio eterno, senza vita,
e lassù questa mia sarà finita
nel freddo dove tutti finiremo. “

(“L’ultima Thule”  -Francesco Guccini )

L’altra settimana, mentre facevo jogging  per strade di campagna, nelle cuffiette del walkman ascoltavo il cd di Francesco Guccini, “L’ultima Thule”, quello con cui il cantautore pavanese si congeda dal suo pubblico, e pensavo a questa immaginaria isola, approdo finale, magica apparizione, porto quiete. Tanti anni fa, all’inizio della sua carriera, lo stesso Guccini, ne “L’isola non trovata”, cantava: “ne parlan piano i marinai /con un timor superstizioso:  /nessuno sa se c’è davvero /od è un pensiero,  /se, a volte, il vento ne ha il profumo / è come il fumo che non prendi mai!” . Lo stesso messaggio quindi, la sua carriera si apre e si chiude ciclicamente con un’isola inventata, dapprima non trovata e poi finalmente  individuata: Thule. Io correvo e pensavo a quest’isola e poi al mondo di ipocriti, lestofanti, ciechi e sordi alla bellezza, depravati e assassini in cui viviamo, e la voglia di staccare un biglietto anch’io per quell’isola si faceva  sempre più  forte.  Di Thule, il primo a parlare nella letteratura greca fu Antonio Diogene con “Le incredibili meraviglie al di là di Tule”, citato da Fozio di Costantinopoli nella sua opera “Biblioteca”. Ma ne parlano anche il geografo Strabone e Goethe nel suo “Faust”. Inoltre l’sola è legata al regime nazista e al mito di una razza superiore, di una società perfetta come quella degli Iperborei.

Raggiungere una landa di pace e di sogno è un fatto legato al viaggio. Quello della letteratura di viaggio  è  un campo davvero sterminato e molto frequentato da sempre da poeti e romanzieri, così come il genere del viaggio fantastico, immaginario. Gli autori e  le opere appartenenti a questo genere sono  troppi, per poterli elencare in una breve disamina, a far capo da quel capolavoro immortale che è l’”Odissea” di Omero fino ad arrivare ad “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carrol,  da “Le Argonautiche” di Apollonio Rodio” alla stessa “Divina Commedia” di Padre Dante, dai viaggi di Sinbad il marinaio, ne “Le mille e una notte”, a “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe.   Già  Ctesia di Cnido, nel V-IV Secolo a.C., scrisse una “Storia dell’India” piena di notizie favolose. Ne parla Luciano nella “Storia vera”. Fra II e I Secolo a.C. , Iambulo, riportato sommariamente da Diodoro Siculo nella sua opera “Biblioteca”, scrisse di fantastici viaggi nei mari del Sud. Iambulo narrava che, insieme ad un suo amico, era capitato in un paese dell’Oriente, le Isole del Sole, i cui abitanti menavano vita beata. Avevano grande desiderio di imparare e studiavano l’astrologia. Vivevano un certo numero di anni e una volta raggiunto quel limite morivano volontariamente di una morte inusitata, cioè si stendevano su un’erba che cresceva nell’isola e che era letale. “Iambulo”, dice Diodoro, “ed il suo amico dimorarono qui sette anni e poi furono cacciati contro la propria volontà come malfattori e di corrotti costumi”.   Il più famoso esploratore dell’ignoto di tutti i tempi fu Ulisse, protagonista dell’Odissea. Capostipite della letteratura fantastica, il poema omerico si dipana attraverso le mille tappe di una geografia immaginaria che invano tanti studiosi hanno cercato di localizzare. Giustamente Eratostene avvertiva che “l’itinerario di Ulisse sarebbe stato determinato solo allorché si fosse potuto trovare il sellaio che aveva cucito l’otre dei venti dato da Eolo”. Basti pensare all’isola di Circe, “l’isola Eea”, che Omero pone ai confini del mondo, nell’altro Oriente, dove sorge il sole.  Luciano di Samosata, del II Secolo d.C., è autore della “Storia vera”, uno dei più fantasiosi racconti d’avventura dell’antichità. Lo steso autore (che cita anche Iambulo) avverte che si tratta di baie, cioè bugie, che nessuno dovrà credere a quanto scritto. Insieme ai suoi compagni, l’autore arriva prima su un’isola dove, fra le altre meraviglie, i fiumi sono fatti di vino, e poi con la nave è sollevato da un turbine sulla luna. Si susseguono l’incontro con gli Ippogrifi, cioè uomini che “vanno sopra grandi grifi, come su cavalli alati”, l’incontro con Fetonte, il re del Sole (che, come la Luna, è abitato) e, dopo una fantastica cavalcata per il cielo, l’ammaraggio e la disavventura di essere inghiottiti da una balena di mostruosa grandezza. Dopo aver ucciso la balena, l’eroe ed i suoi compagni arrivano nell’isola dei Beati “dove sentimmo spirarci intorno un’aura soave e fragrante… qual è l’odore che viene da rose, da narcisi, da gigli, da viole e dal mirto ancora, dal lauro, dal fior della vite… La città è tutta d’oro, il muro che la cinge di smeraldi: ha sette porte, ciascuna un pezzo di legna di cannella: il pavimento della città e la terra dentro le mura è d’avorio: vi sono templi a tutti gli Dei e fabbricati di berillo, in essi are grandissime di ametista, sulle quali fanno le ecatombi. Presso la città scorre un fiume di bellissimo unguento, largo cento cubiti reali e profondo che vi si può nuotare… gli abitanti non hanno corpi, sono impalpabili, senza carne, non altro che figure ed idee… nessuno v’invecchia ma in quell’età che ci viene rimane… “. E così continua la narrazione  fino a quando i nostri eroi arrivano agli Antipodi.  La storia sembra precorrere “I viaggi di Gulliver” e “Pinocchio”, per citare altri capolavori del genere del viaggio fantastico. Ancora prima di questi narratori, si colloca il mito di Atlantide, isola favolosa nella notte dei tempi, città stato dominatrice su terre e mari, di cui parla Platone nel “Timeo” (e Bacone  che scrisse,nel 1627, “La nuova Atlantide”).

Sant’Agostino concepì anch’egli una città ideale che era la Città di Dio, quella in cui gli uomini vivono secondo lo spirito, contrapposta alla Città terrena o del diavolo, in cui gli uomini vivono secondo la carne. Il “De civitate dei” è un’immensa meditazione sulla storia alla luce della Provvidenza regolatrice degli umani eventi. La vita terrena, per Sant’Agostino, è preparazione alla vita celeste.  Facendo un lungo balzo in avanti nel tempo, nel Cinquecento, Tommaso Moro  immaginò un ‘isola ideale cui diede nome di “Utopia”. Non importa che questo ideale di società perfetta sia stato abbondantemente superato dalla storia, che ha dimostrato quali aberrazioni possano verificarsi nei regimi totalitari comunisti, dei quali Utopia era prefigurazione. Quello che conta è il valore di un ideale, che Tommaso Moro aveva a cuore. Il viaggiatore Itlodeo, che aveva studiato filosofia, si era unito per desiderio di avventura ad Amerigo Vespucci nei suoi viaggi verso terre sconosciute ed aveva raggiunto quest’isola a forma di mezzaluna, lunga cinquecento miglia e larga duecento, dove l’organizzazione del lavoro e della società era improntata ad un severo egualitarismo. Comunque, tutti i cittadini godevano di una totale libertà di pensiero e di fede religiosa. Utopia significa proprio “luogo che non esiste”, dal greco  “où tòpos”.  Sir Thomas More pagò a caro prezzo i proprio sogni visionari ed anche il mutare delle fortune umane. Essendosi rifiutato di riconoscere il matrimonio di Enrico VIII e Anna Bolena, infatti, venne rinchiuso nella Torre di Londra per quindici mesi e poi decapitato. Mi hanno sempre colpito le modalità della sua morte, che ricordano da vicino quelle del martire cristiano San Cipriano, vittima nel 258 delle persecuzioni dell’imperatore Valeriano. Tommaso Moro, quando fu condotto alla decapitazione, dispose che il suo abito più bello indossato per il martirio fosse dopo consegnato al boia, così come fece San Cipriano che donò trenta monete d’oro all’uomo incaricato di ucciderlo. Moro diede una moneta d’oro, togliendola da quel poco che gli era rimasto.

Anche i pittori e gli artisti si sono sbizzarriti con le città ideali: già sugli affreschi pompeiani si trovano tracciati di città perfette, ma pensiamo, fra i vari dipinti rinascimentali, soltanto a quella bellissima “Città ideale” (1480) attribuita a Piero Della Francesca.   Viene voglia di andare, partire, abbandonare questa valle di lacrime, alla ricerca di un eden personale, un proprio paradiso, in terra o in cielo, su Marte o sulla Luna, dove si possano dimenticare crimini e nefandezze,  mafie e corruzione, ipocrisia e tradimenti, tutto ciò insomma che costella le nostre abituali giornate. Un po’ successivi a Thomas More, i filosofi platonici Francesco Patrizi, autore della “Città felice”,  e Tommaso Campanella, autore de “La città del sole”. In quest’opera, che ricorda molto “La Repubblica” di Platone, Campanella immagina che gli abitanti, i Solari, aderiscano ad una religione naturale e vivano secondo principi naturali. Governati da un re sacerdote, Sole, assistito da tre Prìncipi, Pon (potenza), Sin (sapienza), Mor (amore), essi lavorano quattro ore al giorno ed hanno tutto in comune, comprese le donne. La generazione dei figli è improntata a severe norme magico-igieniche e la loro educazione è basata non sui libri ma sulla diretta esperienza ( per questa parte dell’opera Campanella è considerato quasi il precursore della pedagogia moderna).

Insomma, che sia ventimila leghe sotto i mari, come per Giulio Verne, o nella Patagonia di Bruce Chatwin, il bisogno di evadere dalla dura realtà, dalle ambasce del presente,  ha condizionato tutti i creativi in ogni epoca e ad ogni latitudine. Via, verso où tòpos,  l’isola che non c’è!  Il  tema del viaggio fantastico ha innervato centinaia di opere letterarie perché connaturato al bisogno dell’umanità di scoprire nuovi orizzonti. E a questi grandi sognatori, dal Barone di Münchhausen (cui si ispirò Rudolf Eric Rasper per il suo romanzo)  con i suoi viaggi mirabolanti,  a Howard Phillips Lovecraft con i suoi racconti fantascientifici,  ora mi piace unirmi, in un anelito di libertà.

PAOLO VINCENTI


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