Il romanzo di Gianluca Garrapa potrebbe chiudere qualsiasi discussione teorica sulla sopravvivenza del genere Il romanzo non esiste più, neppure nella forma sperimentale di meta-romanzo o di flusso di coscienza. Il 23 agosto – un piattello di segreti è una forma pura di scrittura. Sembra poco ed invece questa è la novità importante di questo libro.
Il Salento, il feudo del Castello, un giorno preciso, il 23 agosto, la festa del Santo Patrono o della taranta, “sperdute masserie che evocano i fantasmi di violenti padroni”, un titolo che è un tributo ad un pezzo dei Pink Floyd, la Dimitrios che si incaglia nelle secche dei Laghi nel 1978. Gli ambienti musicali che accompagnano, danno forma al ronzio, all’“eterno mormorio” dell’autore-soggetto del racconto (?). In Padre Padrone Gavino Ledda prefigurava la propria emancipazione sottraendosi al peso della statua in processione, simbolo ma anche misura della propria soggezione. Quella era una liberazione storica e sociale. Qui sulle spalle del soggetto-che-scrive c’è tutto il peso della propria identità personale frammentata. E’ il peso dell’Io, psicanaliticamente inteso, mi suggerirebbe lo stesso Garrapa. A dare così un più preciso orientamento nel decifrare la biografia dell’autore, che dedica questa seconda opera di una trilogia alla memoria del fratello morto e di cui ne ha adottato il nome. Apparentemente si tratta di un eteronimo, in realtà è l’estrema misura della polverizzazione dell’unità del soggetto. “Forse è per via di questo romanzo. Ci sto lavorando troppo, realtà e finzione si stanno ingarbugliando mio malgrado, travolgendomi in un gorgo che inghiotte sempre di più, ogni giorno che passa.”
Chi sono i personaggi? Lo zio, Giulio e Gloria, l’educatrice, Laura o anche il dott. S. A. (presunto curatore dell’opera)? Sono presenze reali, seppure narrative, corpi oppure sono solo voci? Sono i personaggi di questa storia o sono solo in frutto di una “programmazione psicotica”? Nella crisi dell’uomo moderno i personaggi cercavano l’autore. Adesso non solo non sappiamo chi sia l’autore, anche i personaggi potrebbero essere illusioni. Resta la scrittura. Come all’inizio era il Verbo. La scrittura è il potenziale. La creazione è l’atto. “Gloria ti ha detto che siamo parlati, siamo agiti, siamo costruiti dal linguaggio dell’altro, e usava le tue stesse parole, e non sai avvertire che la realtà stride, e questo non è più un romanzo, questa non è nemmeno la vita.”
“Omaggio a James Joyce”. Queste sono le ultime parole del libro. Sono il titolo dell’opera di Luciano Berio scelta come ambiente musicale finale. Rispetto a questa de-composizione narrativa il flusso di coscienza appare scolastico e scontato. Siamo oltre. L’esperienza di lettura che ci viene proposta è difficile e insidiosa come inoltrarsi in un territorio sconosciuto e inesplorato. Nell’Ulisse scopriamo che l’ora di Dio è 12,25. Qui non c’è alcun Dio. C’è solo il potenziale di Dio. La scrittura. Senza giri di parole, quest’opera è misteriosa e inclassificabile. Eppure affascinante e seducente come ogni mondo da scoprire. Benché richiami esplicitamente la teoria di Tutto è uno di Michael Talbot (1991), personalmente percepisco la presenza di Fernando Pessoa, anch’egli molteplice e inafferrabile. “(siamo in due, più di due, una molteplicità, quello che abbiamo visto che abbiamo sentito, anche se non c’eravamo, chi abbiamo incontrato, musica e voci, gli odori che ci hanno investito, di notte la sera ogni mattina./ dottore, forse è questo il romanzo, quello che succede qui dentro, da due anni a oggi, quello che è successo a mia moglie, ma la vita è diversa, non mi appartiene.)
“Perché siamo diversi da come ci crediamo?”, chiede Otello a Jago in Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini. “Noi siamo un sogno dentro un sogno”, gli risponde. Questa è l’anima dell’opera di Garrapa. Pensate sia una facile citazione di stile? Forse. Ma se a sognare fossero due extraterrestri, la prospettiva reale e logica muterebbe radicalmente.
Pasquale Vitagliano