La poesia di Maria Grazia Palazzo è colta e femminile. La denotazione immediata di questa scrittura poetica non traccia, tuttavia, una confine. Delinea una sponda aperta a più complesse e comuni connotazioni. Vegliarde in campo mi conoscete?/ Maestrale apre sterrati, avamposti di solitudine,/ voci di bosco ruminanti tracimazione in corpo,/ eccedenza di crisalide nell’onda d’urto,/ fino all’anarchia nuda… L’autrice stessa indica nella sua poesia un periplo che definisce ferale. Ed invece la descrizione dei porti del viaggio è per sua natura utile alla navigazione. E più che feriale, vorrei dire feriale, ordinario e comune, legato alle “cose quotidiane”, richiamate anche queste dalla stessa autrice. È l’ora di cena, di un bicchiere rotto,/ di un cibo cotto con fantasia,/ su pietra lavica nera./ Ho agito in buona fede, ho assolto/ a ogni dovere consacrato allo stupore/ di resistenze quotidiane.
Azzardo che questa scrittura esprime uno stil novo inverso. Penelope salpa, varcando la soglia,/ il figlio e la tela consegna ad Ulisse. E’ il genere femminile che chiama a se l’uomo perché condivida una umanità rinnovata, non per mezzo di un sentimento scolastico e astratto ma con la compassione verso un destino comune che deve affrontare la dura prova del mistero del male e dell’ingiustizia. Ad ogni stanza un nome, una ragione/ per dimenticare l’insulto del tempo, il tentativo di colmare l’abisso, la fatica,/ l’inquietudine, per ordine e grado, tabù o colpa l’essere sole nel nitore di indifferenza diffusa,/ fino a una specie crudele di ipnosi, pro-ce-de-re/ anche in periplo ferale senza arretrare, anche/ quando il sogno mostra una vittoria monca. Può essere che in questa poesia la densità semantica e l’ascendenza culturale possa togliere qualcosa al costruzione del verso e alla centralità della parola poetica. Se fosse così, ma solo di rischio si tratta, non di limite, cosa importerebbe? Anche la poesia è in mare aperto. Quello che conta è la luce che una scrittura riesce ad accendere nella notte del nostro viaggio mettendoci in contatto quali viaggiatori dento il mare, e non spettatori distratti su un (apparentemente) sicuro scoglio.
E non è, pertanto, una poesia di genere femminile (per non dire femminista). Maria Grazia Palazzo non aderisce alla guerra futile ed effimera dei “maschi contro femmine”. La sua scrittura femminile si volge all’altro, come una dimensione danza con un’altra nello stesso cosmo, la terra e il sole, la notte e il giorno, le stagioni o gli assi cartesiani. Come lo Yin e lo Yang. Chiarore di uno sguardo, giunto per caso/ a moltiplicare una sera/ la vita che non si conosceva./ (…) Pace, sia pace, lo dice la foglia/ al genere umano, la storia della formica,/ la follia di una guerra dichiarata giusta. Come scrive Diana Battaggia “non incita al conflitto con l’altra metà dell’Universo. Tende a perorare il confronto nel rispetto delle individualità e delle differenze, ma per rendere più incisiva la voce firma un patto intergenerazionale con altre donne, persegue la coralità e per mantenere viva la concentrazione nell’ascolto del fruitore, a livello lessicale conia vocaboli in accelerazione che manifestano, inoltre, l’urgenza del dire, di «un respiro ampio» per «uscire dalle apnee» e dalla solitudine.”
La poesia della Palazzo è feriale, non ferale. Accetta con pietas il destino triste dei poeti ma ha la forza di ribellarsi per essere finalmente libera o liberata. Condividendo il destino di Andromeda, sì la più lontana delle galassie, ma non irraggiungibile ad “occhi umani”, incatenata eppure liberata da Perseo. Ci facciamo trasportare tra le onde di quest’opera seguendo un periplo che ci svela una quotidianità mirabile scandita da piccoli miracoli troppo umani. A morsi, a sorsi, i sessi nella rete/ tra corde sfibrate, spezzati/ i corpi in rivolta, cercando equilibri,/ desideri non morti, pari ed impari,/ urgenze di un ordine irriducibile/ dagli occhi, ancora in cerca di bellezza.