Emilia Barbato – Il rigo tra i rami del sambuco (PietreVive editore, 2018)
Il rigo tra i rami del sambuco (PietreVive editore, 2018) di Emilia Barbato è il tentativo riuscito della parola di farsi lieve anche nel trattare temi dolorosi, come lo scollarsi lento dei corpi durante la malattia. Un libro che sin dal primo testo ci introduce ai diversi livelli di dialogo: il materno, il terreno e il sacro. Emilia Barbato possiede quella rara delicatezza formale che le permette di affrontare un tema scomodo come quello del passaggio di un corpo nell’imbuto del tumore, una lingua che si poggia lieve sul dolore, che lo preleva e lo porta in superficie alla luce e lo fa respirare. Emilia ci fa respirare con i suoi versi, concede ai lettori di provare il pudore e la pietà per chi osserva la malattia su una persona cara o per chi la vive in prima persona.
Ci sono cose che non si possono dire senza sconvolgere e la Barbato lo sa benissimo: riesce col ritmo aspro e il verso deciso a trasporre la verità senza farcela arrivare sgradevole, il verso ci appare semplice ma assolutamente non semplicistico. L’apparente linearità di questa confessione in versi è estremamente curata, le parole sono state selezionate nel silenzio, nella precisione di chi la scrittura la vive e la attraversa tutti i giorni dell’anno.
La scrittura come forma comunicativa nasce dalle viscere da “un urlo/ – se solo riuscissi a liberarlo –“, dalla necessità quindi di dare un nome esatto al dolore per poterlo riconoscere: “Se solo sapessi creare una parola”. Poesia è quindi creazione e liberazione insieme, estrarre un suono come un urlo.
Dal dialogo con la carnalità dolorosa della madre ci si sposta poi al dialogo con una madre più grande, la terra. La natura è diretta trasposizione del dolore, come a spiegarci che anche in natura nel massimo della bellezza è già pronta la prima foglia della sfioritura. Il sambuco, che è la pianta nominata nel titolo della raccolta, racchiude in sé nei suoi colori la forza vitale della spinta verso la luce e insieme nel nero delle bacche la tensione ultima della morte. Una pianta che è simbolo di circolarità. Terra quindi come madre consolatoria, come madre che ci genera e ci richiama. Un tentativo dunque di consolare il lettore suggerendogli che tutto si trasforma, si fa scuro e muore. Si procede quindi sempre sull’orlo dell’assenza, nostra e altrui.
Il rapporto infine con il sacro è parola che si propaga nell’aria, preghiera senza sosta come un mantra che rassicura, e ancora la madre torna ma in una forma sempre meno carnale. La parola si fa suono indistinto e costante, necessità e insieme unica forma consolatoria ultima. La seconda parte del testo della Barbato è una sorta di permesso alla fragilità che ci attraversa tutti, una preghiera di comunione. Siamo tutti ad aspettare la fine, in qualunque forma si presenti. Perché “dentro ho un residuo inverno” nonostante la primavera si stia facendo spazio tra la neve. Emilia Barbato si accosta alla verità con rispetto e pudore insieme, teme la parola dura ma allo stesso tempo sa che è necessaria, perché la verità spesso non ha molte altre forme possibili per essere detta. La poesia fa questo: entra nel vero, scava nell’abisso e ci riporta tutta la luce possibile.
(Clery Celeste)
*
Ti scrivo in giorni di apparente luce
– penso di scriverti ma non lo faccio
il buio entra in forma di punteruoli
che aprono in silenzio –
Con la maniera affannata dei pomeriggi
inseguo raggi, i favori del cielo,
il corpo di una sconosciuta che mi precede
e ondeggia sulla strada come un metronomo,
fuori tutto si direbbe procedere
con l’entusiasmo dell’estate
ma dentro sono ferma, stretta
a una nuova chiarezza,
mi chiedo quando questo sasso
che mi distacca abbia formato
una tale consistenza e quante
cose in questo modo io manchi.
*
È un gene, una quinta stagione
da cui non esci, una mattina
qualunque con i piedi al gelo,
la guancia bruciata dal freddo
aderisce perfettamente al vetro,
si incolla nel tuo terrore,
dovrai strapparla,
procurarti altro dolore.
*
Se il poco di me che rimane
libero dai piccoli ingaggi quotidiani
si raccoglie in un corpo sfinito
la sera, ciò che mi insegna la forza
il giorno dopo è la caparbietà delle tue mani,
la fierezza con cui orienti la figura magra, ti tengo
così negli occhi, con la stessa maestosità dei cipressi
nel rigore tremendo del mese di febbraio.
*
Per ogni scarica di radiazioni che ti brucia
una stella rossa intermittente allarma me
e la porta, galleggio nelle preghiere mentre
la paura morde ogni mia regione.
Tremo finché minuta e pudica
in un sorriso mi offri un appiglio,
una mano per due esistenze, l’altra
sull’addome per l’evidenza muta.
*
Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971 e risiede a Milano. I suoi testi sono apparsi in diverse antologie, sulla rivista di letteratura Immaginazione, Edizioni Manni e sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria delle Edizioni del Foglio Clandestino. Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011) è la sua prima raccolta. Seguono Memoriali Bianchi (Edizioni Smasher, 2014), Capogatto (Puntoacapo Editrice, 2016), I classificato sezione Libri Editi IX edizione del Concorso Nazionale di Poesia Chiaramonte Gulfi – Città dei musei, Il rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive Editore, 2018), I classificato Luce a Sud Est – concorso di scrittura sociale.
Ringrazio Clery Celeste per la sua bellissima recensione e la redazione di Neobar per averla ospitata. Grata.
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Poesia incisiva, dettato intimo che porta, con la forza delle immagini, a misurarci con il buio dell’esistenza. Rimane scolpita come una “mattina qualunque con I piedi al gelo”, con il dolore che “strappa” altro dolore. Grazie ad Emilia Barbato e a Doris per avercela proposta.
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Grazie Abele per questa tua lettura
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