Gino Rago
In memoria di Joseph Roth
Un necrologio in distici a 100 anni esatti dalla sua morte
( 27 maggio 1939 )
«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
Una morte lieve».*
[…]
Un cavallo lipizzano alzò per un istante
La zampa destra in segno di commiato.
Il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.
La contessa W. della milleduesima notte
Sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.
E tutti i presenti se ne innamorarono.
[…]
La mattina del 23 di un mese di primavera
Nel 1939 cadde a terra di schianto.
Come Andreas
Nella leggenda del santo bevitore.
Era nel caffè Tournon.
Aveva scritto per anni e bevuto calvados
Fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia
Della chiesa di Santa Teresa
Ma all’ ospedale Necker.
Lo legarono con cinghie al letto
Come l’ ultimo dei mendicanti.
Dalla sua cartella clinica:
“Non-ha-ricevuto-nessuna-cura”
[…]
Il 27 dello stesso mese morì.
Il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais.
Nei sobborghi di Parigi
Le pietre si fecero parole.
Un messo di Otto d’ Asburgo
Pretendente al trono d’Austria
Elogiò in lui
«Il-fedele-combattente-della-Imperial-Regia- Monarchia».
Un comunista gli rispose con rabbia
Che il morto era stato «Joseph il rosso».
Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi
Dal fatto che un ebreo
Che discendeva da generazioni di devoti ebrei
Fosse costretto in una religione non sua.
[…]
Forse il morto fu contento dello schiamazzo
Sulla sua tomba di periferia,
Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.
E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove
Nella stanza del Bioscopio universale.
[…]
«La morte simbolista di Roth…
Come quella nel ‘28
Di Nina Ivanovna Petrovskaja
Della Bohéme russa in esilio a Parigi.
Aprì da sola il gas nello squallore
D’un albergo d’un quartiere popolare».
[…]
Joseph Roth, inabile anche alla morte,
Vita-non-vita d’un sopravvissuto
Alla fine di un mondo, di una lingua,
Di una storia.
Scrivendo divenne monarchico.
Sempre scrivendo divenne devoto.
[…]
Voleva credere e divenne credente.
Ma forse cercava soltanto sé stesso
Nei frammenti della Finis Austriae
Alla fine il naufragio.
Viso tumefatto. Piedi gonfi.
Bottiglie vuote in fila di calvados e gin.
Tentò di scacciare da sé l’anticristo.
[…]
L’incenso di tutte le chiese.
Moriva di maggio l’uomo.
Nasceva il-soldato-della-penna
In-servizio-permanente-effettivo.
Da quel giorno Joseph Roth è di tutti.
(gino rago)
* [La leggenda del santo bevitore]
Alla Legenda del Santo Bevitore di J. Roth ho dedicato codesto Ex Libris.. complimenti al dott. Rago.
Roberto Matarazzo
Bio-bibliografia essenziale di Joseph Roth
Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco del primo Novecento,
non è una figura letteraria molto conosciuta, oltre l’area linguistica tedesca, se non per il racconto autobiografico più noto, ovvero Die Legende vom heiligen Trinker, (La leggenda del santo bevitore) scritto nel 1939, diventato celebre anche grazie all’omonimo film (del 1988) di Ermanno Olmi.
Nasce nel 1894 da una famiglia ebraica in Galizia, nella città di Brody, che ora si trova in Polonia ma che a quell’epoca apparteneva al groviglio di stati che componeva l’impero Austro-Ungarico.
Nel 1913 arriva a Vienna, la grande capitale, per studiare germanistica all’università. In condizioni economiche davvero precarie inizia, grazie alla sua abilità stilistica, una collaborazione con il giornale Österreichs Illustrierte Zeitung dove vengono pubblicati i suoi primi articoli e le sue prime poesie. Scoppia la Grande guerra ma Joseph è un pacifista.
Si arruola solo nel 1916 e vive in una caserma di Vienna come addetto Ufficio stampa dell’esercito. Anche in questo periodo scrive. Le sue parole vengono pubblicate sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede. Il direttore di quest’ultimo sarà colui che, terminato il conflitto, recluterà Roth come collaboratore per le pagine culturali del Der Neue Tag. Qui descrive nei suoi articoli la vita quotidiana della gente nella Vienna del dopoguerra come una sorta di cronaca cittadina, spesso trasposta in chiave metaforica.
Nel 1920 il giornale chiude e il giornalista si reca nella più vivace Berlino dove lavora per il Berliner Börsen-Courier prima e successivamente per alcuni anni come corrispondente culturale nel più conosciuto Frankfurter Zeitung dove inizierà una corrispondenza con Stefan Zweig che diventerà suo mecenate. Nella redazione di questa importante testata sviluppa numerosi reportages, che spesso lo portano a Parigi, in Albania, in Polonia e anche in Italia.
La vita sentimentale dello scrittore è molto travagliata. Sposa a Vienna Friederike (Friedl) Reichler che lo segue a Berlino. Ma la vita mondana e frenetica dello scrittore, oltre alla sua morbosa e insana gelosia, provocano nella moglie una forte crisi tale da destabilizzarla quasi completamente. Roth dopo i primi sensi di colpa conosce diverse donne con le quali intrattiene numerose relazioni.
Con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, data la sua origine ebraica, è costretto ad emigrare. Dapprima si trasferisce in Francia, poi nei Paesi Bassi e infine nuovamente in Francia.
Nonostante in Germania i suoi libri vengano bruciati, nei Paesi che lo ospitano, rispetto a molti altri scrittori emigrati, continua ad avere la possibilità di pubblicare opere.
Nel 1936 incontra la scrittrice Irmgard Keun con la quale vive a Parigi, ma nel 1938 si lasceranno. Tra il 1937 e il 1939 la situazione economica, oltre alla salute di Roth, peggiorano. Beve e viene trasferito all’ospizio dei poveri. Il 27 maggio 1939 muore a Parigi per polmonite.
Raffinato cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico ( quell’Impero che fu in grado di riunire popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse) benché egli stesso fosse nato alla periferia dell’impero, nell’odierna Ucraina, lascia alla letteratura universale svariate opere (La cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky, La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore).
( a cura di ) Gino Rago
La leggenda del santo bevitore: https://www.youtube.com/watch?v=8_mSVyu5IfY
di Roth ho potuto leggere un po’ tutto, Autore sofisticato, per certi versi attualissimo!
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E ringrazio l’Amico Abele Longo per aver inserito un mio lavoro, ex libris, inerente l’opera di J. Roth..
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Scrivevo il 5 sett. 2016:
Proviamo a pensare la poesia come una «composizione musicale», come una «polifonia», come un «polittico», o come un «sistema polifonico», con voci di contralto, di tenore, di basso etc., con «voci» interne ed esterne, dell’io e di altri; proviamo a pensare di rimodulare i «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso; proviamo a pensare questo sistema dinamico come «sistema in movimento»; proviamo a immaginare la composizione non come un sistema statico-lineare. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo afferma Einstein) sono correlati. Proviamo a pensare al poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Proviamo a pensare alla parola in termini di «massa sonora», e di inserire questa «massa» in un circuito orbitale che ruota attorno ad un astro anch’esso in movimento… Insomma, io credo che abbiamo molto da imparare dalla critica musicale e da musicisti come Ligeti e Giacinto Scelsi.
Ecco, Gino Rago ha avuto il coraggio di adottare la «forma-polittico» come la più adatta a rappresentare l’essenza del nostro tempo, la scrittura in frammenti e il polinomio frastico. Finalmente la poesia italiana si è liberata, d’un colpo, della memoria dell’elegia e della poesia monologo dell’io. Finalmente ci troviamo di fronte un nuovo modello di poesia.
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Grazie Giorgio per aver sottolineato la natura polifonica di questi versi. E alla musica aggiungerei il cinema, per il grande respiro, come arte “totale” (gioverebbe, infatti, guardare il film di Olmi per apprezzare ancora di più i distici di Gino Rago). Come nel linguaggio filmico, anche qui diversi piani, passaggio dal dettaglio a campi lunghi, e dissolvenze…
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Un necrologio in distici così bello ed espressivo! Bravo Gino e Grazie!
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Nota d.A.
Il necrologio in distici in memoria di Joseph Roth, in occasione dei 100 anni esatti dalla morte,
27 maggio 1939, ha trovato la sua fonte di ispirazione nel minisaggio “La morte simbolista di Joseph Roth” di Pavel Zelinskiy (apparso sul N.3 del Trimestrale I Sorci Verdi, Aprile 2012).
Il lavoro ermeneutico di Pavel Zelinskiy su Joseph Roth si rivelò alla mia lettura come occasione preziosa di ampliamento dei miei orizzonti conoscitivi, da un lato, e come esempio di icasticità di scrittura ad alta resa estetica, vuoi per ricchezza lessicale, vuoi per perentorietà e precisione sintattico-grammaticali, dall’altro,
in un flusso senza interruzioni di vastità di dottrina e di verità di scrittura, senza cedimento alcuno alla improvvisazione e senza concessioni alla mediocrità del dilettante, come può verificarsi in letteratura soltanto quando si scrive per necessità, nel rispetto sacro delle parole, anzi, della Parola, suggellando in me a carattere di fuoco l’apoftegma ineludibile “scrivere se hai qualcosa da dire, non scrivere per dire qualcosa…”
Ringrazio Abele Longo e la Redazione di neobar per l’ospitalità; ringrazio Giorgio Linguaglossa per l’acutezza critica del suo intervento; ringrazio lo stesso Abele Longo per la con-divisione dello spirito del mio scritto su J. Roth; un grazie a Roberto Piperno e altro grazie a Roberto Matarazzo per avere incrociato al largo della letteratura mitteleuropea motivi di interessi tematico-estetici comuni.
(gino rago)
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Gino Rago
Una meditazione sulla urgenza di un nuovo “linguaggio critico” per la Nuova Poesia Italiana [ del frammentismo mitico, del polittico in distici, della struttura polifonica…]
Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione),senza dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica), se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico, e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti… di fronte a questa prova.
Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi” di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatto appariva a quella contemporanea…
Temo che la “critica letteraria” abbia lo stesso problema oggi di fronte alla nuova poesia…
E’ come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela”
(Dorfles) d’un Lucio Fontana….
Estemporaneamente ho steso queste mie meditazioni stimolato dalle riflessioni di Giorgio Linguaglossa sulla “Vergine degli stracci” di Michelangelo Pistoletto (1967) a proposito dei versi miei di ‘Collage (Poesia fatta con gli scampoli)”, proposti alla lettura dei colti e fedeli frequentatori de L’Ombra delle Parole
qualche giorno addietro.
E se da un lato mi rincuora la con-divisione dichiarata da Giorgio Linguaglossa nel suo commento, dall’altro (ahinoi) tale condivisione conferma i miei timori su una critica letteraria non in grado d’attrezzarsi del giusto ed efficace armamentario interpretativo fondato su un nuovo, appropriato “linguaggio critico”.
Lo segnalarono assai criticamente (qualcuno anche in forma risentita) alcuni Maestri di Estetica negli anni ’60 del Novecento, fra cui Gillo Dorfles, riferendosi alla incapacità di certa critica di cogliere i segni del nuovo gusto estetico contemporaneo.
E proprio Dorfles, in un suo memorabile pezzo, poi ospitato in “Ultime tendenze dell’arte oggi” così si espresse:«Queste opere (il Cancello di Mirko alle Fosse Ardeatine, certe grandi plastiche di Franco Garelli a Torino, di Berto Lardera a Rho, di Barbara Hepworth dinnanzi a Staten House di Londra, gli immensi graffiti e rilievi di Costantino Nivola a Chicago e Boston, la pareta metallica intagliata da Lassaw in una banca di Skidmore a New York) – ormai ben note – sono le nostre “Stanze del Vaticano”, le nostre “statue-colonne” di Chartres…»
(gino rago)
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un bel tentativo di innovazione,
bravo Gino
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Caro Gino,
grazie del tuo coltissimo necrologio di cui voglio richiamare, in particolare, il verso finale “da quel giorno Joseph Roth è di tutti”. con ciò esprimi uno dei valori essenziali dell’opera letteraria ossia la tensione verso l’universalizzazione di esperienze molteplici, la capacità di astrarre l’idea attraverso il filtro sapiente dell’arte, un’idea che si fa patrimonio culturale comune.
Grazie delle letture che ogni volta ci sai proporre.
Francesca Lo Bue
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Ringrazio Gino Rago per avermi invitato a leggere questi suoi versi. Lodevole il tentativo di riportare alla luce una scrittura, il distico (forma eccessivamente rigida per i miei gusti), che, come tale, non credo nasca oggi… però le interpretazioni sono sempre utili ad aggiungere un tassello in più alle proprie conoscenze. Buon sabato e buona poesia a tutti.
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Copio e incollo l’essenza della e-mail di Giancarlo Baroni, poeta di valore, a me inviata per la limpidezza di sintesi e per la icasticità di un suo pensiero:
“Complimenti caro Gino Rago,
[…]
preciso intenso poetico e narrativo, al contempo.
Mica facile scrivere così.
Buona estate
Giancarlo Baroni”
Parma, 13 luglio 2019
P.S.
Non è questo, per me, tempo favorevole alla scrittura. Con ciò sia cosa che mi riprometto di adeguatamente allestire una risposta organica di ringraziamento particolare ad Angela Greco, a Francesca Lo Bue, ad Achille Chiappetti e allo stesso Giancarlo Baroni per la energia preziosa che han voluto dedicare ai miei versi in distici rivolti ad uno dei più alti cantori della Letteratura mitteleuropea, Joseph Roth.
Ancora Grazie,
Accenno soltanto alcune meditazioni dell’amico Giorgio Linguaglossa sulla scrittura poetica in distici, che non è, mi si creda, e Abele Longo ne è bene a conoscenza, una tecnica di scrittura, è molto ma molto di più…
Giorgio Linguaglossa sui distici:
“[…]
Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.
Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima[…]”
(gino rago)
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Andiamo verso una ontologia positiva…
Quelle parole di un tempo, che abitavano la sintassi di un Cesare Pavese o quella di un Sanguineti, adesso sono state messe in mora, sono state fatte sloggiare da quegli indirizzi, sono state evacuate dalla forza pubblica, il ministro della mala vita, Salvini, ha chiamato i bulldozer e ha fatto tabula rasa delle loro residenze, di quelle bidonville che erano l’accampamento delle parole di uno Zanzotto o degli apologisti epigonici di oggi. Quelle parole non esistono più, sono state bandite e rese obsolete. Ma non da noi dell’Ombra, ma dalla storia.
Non so se sia stato il «dolore» delle parole come pensa Nunzia Binetti, io sto ai fatti: si tratta di un dolore metafisico, le parole si sono raffreddate, non sopportano più i massaggi cardiaci degli innamorati della parola poetica e degli esquimesi posiziocentrici del vuoto a perdere, le parole della Musa fuggono da chi vuole accalappiarle con l’accalappiacani o con lo scolapasta. Il fatto è che le parole della poesia non sanno più dove rifugiarsi, fuggono, scantonano, preferiscono dimorare negli immondezzai di Roma (Grazie sindaca Virginia Raggi!), nelle risciacquature dei lavabo, nelle pozzanghere dove ci sono cinghiali e gabbiani e i topi ad abbeverarsi.
Il Signor Avenarius, un personaggio delle mie poesie, dice: «Le parole hanno dimenticato le parole», sono state attecchite dall’oblio delle parole, un virus pericolosissimo che sta decimando le parole vere. Siamo lentamente invasi dalle parole piene, le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi.
Il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» della comunicazione mediatica, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», si assume come incontrovertibile la tesi secondo cui le parole siano libere rispetto alle cose. È ovvio che partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».2]
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».3 La poesia magrelliana, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico la post-poesia magrelliana non corrisponde più ad alcun valore veritativo, il «discorso sullo statuto di verità del discorso poetico» è diventato obsoleto, il discorso poetico si è liberato di contenuti veritativi in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una ontologia liberale. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia magrelliana riepigonizza il percorso del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».4]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
La poesia di Mario Gabriele opera una peritropè della ipoverità, la adotta, e la ribalta nel suo contrario, mette in naftalina i frasari delle ipoverità dell’evo mediatico, mostrandone la intima vacuità, palesando quanto i frasari della comunicazione siano non-significanti, neutri, asessuati. Gabriele dunque adotta il realismo post-veritativo e ne fa una forma-poesia, adotta la diafania dei frasari post-veritativi mostrandone il vuoto sotto vetro che aleggia intorno ad ogni frase ipoveritativa e celebrativa. Lì non c’è nulla da capire, nulla da segnalare… tutti quei messaggi comunicazionali sono faziosi, sono finzione, messi alla berlina della loro intima insignificanza. Il punto è che Gabriele, al contrario degli autori ipoveritativi che della ipoverità ne fanno un sistema, adotta le ipoverità per mostrarne il loro involucro vuoto, assolutamente vuoto di significati. La «nuda vita» di Agamben qui dà luogo alla «nuda verità». E questo è lo statuto di verità del discorso poetico gabrielano: il suo tendere al sotto-zero delle parole raffreddate e ibernate. E questo è quanto.
Nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo in opera il «nudo nome»: la scomparsa quasi totale dei verbi implica la scomparsa totale dell’io plenipotenziario, con il che le onoma risultano galleggiare sulla superficie di un tessuto grammaticale alleggerito della forza di gravità della sintassi. L’assenza dei verbi è la spia segnaletica di questa situazione ontologica, della ontologia positiva del linguaggio. L’assenza di azione verbale, significa assenza di azione sulle cose, e infatti le cose risultano galleggiare in uno spazio di albume d’uovo, incolori e inodori, si assiste a quella scomparsa del «destino» in termini severiniani, secondo cui le cose si danno nella loro datità prive di possibilità di essere significative, le cose si sono liberate del valore di scambio e del valore d’uso. Le cose non sono più cose, sono delle ipo-cose. Deprivate di essenza in quanto de-private della possibilità di un loro destino veritativo.
1] G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21
2] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
3] Ibidem p. 115
4] Ibidem pp. 115,116
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@ per Abele Longo,
è mio desiderio, ardente,avere la tua e-mail. Desidero tendere un filo di complicità poetica diretto avec toi.
La mia e-mail la evinci dai miei commenti, a ogni buon conto eccola:
ragogino@libero. it
In attesa di un segno, buon anno nuovo a te (e alla Redazione tutta di Neobar…)
gino rago
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