
Guglielmo Aprile – Il sentiero del polline, Kanaga Edizioni, 2020
Il titolo riprende un’espressione propria del linguaggio della mistica navaho: allude al simbolico itinerario spirituale a cui erano chiamati gli iniziati durante le cerimonie religiose tenute da questo popolo, quando un nuovo membro della comunità perveniva, tramite danze e preghiere, canti sacri e pitture sulla sabbia, a un più alto grado di consapevolezza di sé e del cosmo e al superamento dei propri individuali limiti esistenziali.
La raccolta, scandita in più sezioni diverse per lunghezza ma omogenee nei temi e nello stile, ruota intorno a un particolare aspetto caratterizzante della dimensione umana: l’inquietudine di fronte all’orizzonte: quell’anelito primordiale che persuase anche i primi naviganti a sfidare acque sconosciute alla ricerca dell’incognito, e che trapassa dal tempo del mito a quello della storia, nutrendo anche nell’Ulisse contemporaneo la fiamma che lo spinge incessantemente a partire, a convertire la sua esistenza in erranza e vagabondaggio della mente, dei sensi e dell’immaginazione, in una inesausta tensione di ricerca del nuovo, anche a prezzo della rinuncia ai consolanti ormeggi di facili sicurezze e abitudini.
La fascinazione del nomadismo, in parte debitrice del motivo pascaliano del divertissement, è il filo conduttore del libro ed è declinata per mezzo delle frequenti metafore del volo e del viaggio: punta perciò a dare sfogo e respiro a quest’ansia incoercibile e a questa necessità di spazi che si risveglia alla vista dell’ampiezza incontaminata del paesaggio naturale, e che assume risvolti metafisici quando riconosce le proprie radici nell’incapacità dell’individuo di rassegnarsi ai propri limiti e di trovare appagamento
in un’immagine già data e codificata del mondo
Metamorfosi (Ischia, spiaggia di San Montano, 2021) Di un ignoto misfatto fu questa baia teatro: un titano precipitato dal cielo per qualche immemore colpa, ora giace inerte lungo la spiaggia; e il suo corpo enorme, in parte la pietà delle acque protegge, in parte sfracellato e in pezzi in lunghe frane di scogli si svela; e la sua posa stremata, sconfitta plasma la costa in anse e in promontori: accatastano i ripidi graniti montanti a picco sullo specchio azzurro quello che fu il macigno frantumato delle sue ossa, e le creste che innalza scomposte e diseguali l’arenaria furono le sue scapole, le costole che dense masse vegetali curvano, lo sterno è steso nell’alveo in cui forse scorreva un fiume, dal greto cosparso di denti mozzi, rotule spaccate rose dal sale i massi che rovinano dal ciglio a riva, velati dal muschio; e sono i picchi gomiti, e le vertebre conchiglie, e i bui anfratti nella rupe scavano orbite che contennero occhi ed oggi cave, ombelichi ventosi, e la sua pelle si è mutata in sabbia, e fu il suo cranio la cima che popoli invasero di agave e di mirto; e il sospiro ricorda delle onde quell’antichissimo scempio, e quel tempo in cui un essere anteriore agli uomini signoria aveva sopra questi luoghi. Pellegrini Armate piroghe, gli stormi vogano la corrente abbagliante che muore nel delta del sole, in cerca si perdono di isole nel cielo, aerei golfi, meandri del fiume di diamanti silenzioso. Seguo le flotte piumate finché esausto, su guanciali di nuvole chiudo docile le mie ali. IV Placida la corrente s’insinua nella laguna e molle e felina ne avvolge i fianchi e con la carezza molteplice e stanca li cinge delle sue acque, li abbraccia. Il fiume e la terra si cercano con mani incessanti si sfiorano, amanti che a capriccio simulano e poi disfano stagni e banchi di canne coi loro corpi avvinti. II Vogatrici del vento o eremiti in preghiera, quale isola, nuvole, cercate? Portatemi con voi, più in là di dove i miei occhi si perdano, più delle cuspidi inargentate delle Ande, oltre i temporali sulle rive dello Zambesi: siate traccia e rotta verso distanze radiose intraviste a cui fa da confine questa pelle Gabbiani a Cardiff Per il centro di Cardiff, capita che ne vedi qualcuno, sporadico: deve avere appena varcato il mare ma in cerca di cosa? O forse si è perso. Che pena, mentre becca tra i rifiuti con la lancia che trafiggeva pesci, avvilito dal traffico, spaesato e intimidito dalla folla. Tra i campanili e i neon dei magazzini io cerco ancora, soffocata dal rumore delle auto, l’eco del suo grido selvaggio; e come lui rimpiango i grandi spazi inviolati dall’uomo, le spiagge e le scogliere dove il cielo non ha confine, e non si ode che il lamento del mare ininterrotto e la sua ossessa folle risata. Ciò che il vento non dice Lungo le ampie strade consolari mi sono perso, per estorcere al vento il nome che gli diedero gli uomini quando era bambino, per non esserne uccisi: la parola che va di luogo in luogo nella sua corsa gridando da secoli, e la cui eco sembra sulla bocca dell’orizzonte spegnersi. Dio che non sa dormire, che non ha padre né nido, vento cacciatore di spazi: a nessuno confida cosa ci sia ad ovest dei suoi passi, se non all’uccello che incrocia con la sua la propria orbita e che nella sua scia si tuffa cieco.