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Stiamo imparando a morire anche noi
del ’70: è una cosa tutta nuova,
come un’alba in ascensore, un sapore
da dire ai robot e agli animali.
Non esistono i vecchi, gli anziani
nel senso che noi diamo a questi termini:
la lotta con il corpo per esprimere
la vita è compimento, non declino.
Mangeremo l’orrore, lo faremo
coi nostri denti da latte e del giudizio
sincero, e poi davvero marciranno
i mostri che legavano la voce.
Possibile che senta così poco?
Dov’è l’apocalisse che ci spetta?
Avrà forse i colori degli Ottanta
proiettati nel 2030:
quel buio patinato, quel rossetto
esistenziale, il verde di quel sole.
I nostri film da fare ci sospingono,
non moriremo senza aver girato
le scene che ci inventeremo lì
per lì come se fossero già scritte:
quelle per cui saremo odiati e amati.
Questo almeno spero: avere il tempo
di dare il mio colore e diventare
trasparente e potente come il mare.
Voglio titoli nuovi, senza storia:
titoli che si inventino la trama
di un sogno vago più della memoria.
Il corpo è il mago, ce li detterà.
SUL SILENZIO
Quando uno è solo è pieno di parole;
in tre si scherza, un po’ ci si vergogna
d’essere seri: è cosa da bambini,
si pensa, e il silenzio se ne va.
In cinque ci si ruba
la voce per saltar fuori dal nulla
ed essere applauditi – nelle pause
tra un furto e l’altro parlano gli enormi
spettri cui non abbiamo dato casa
in noi, per debolezza.
Silenti si può esser solo in due:
io raddoppiato da quel criminale
sacro del mio fantasma, o io e te.
BERGMAN A NATALE
Se non c’è la bontà vera –
che è rarissima: è la severità
che annienta l’io, spezza il respiro,
brucia l’ora – allora ci sia almeno
la bellezza che è spietata e così rara
anch’essa: specchia ciò che la bontà distrugge,
fa carezzare un viso inesistente,
restituisce lentamente il fiato,
dilata il giorno ai suoi confini estremi.
*
Hai mai pensato, amore, hai mai pensato
ai titoli di coda e ai Radiohead
che verrebbero ora che è finita?
Mi hanno sempre commosso le exit music
che scorrevano sopra un fotogramma
di vittoria, imprigionato nello schermo
alla fine di una storia di avventura e di dolore.
Niente vittoria per noi, tante emozioni
sospese sui giudizi lapidari.
E mi rifugio nell’endecasillabo:
tu diresti “nella mente”, nell’artrosi
del sentire.
La vita è sempre quella e mi vuol bene
lasciandomi a morire nella metro circondato
dai sedili.
Hai mai pensato, amore, hai mai pensato?
Ma tu non pensi, senti solamente.
Io penso e sono stanco di pensare.
CAPODANNO
Lo stomaco ti duole: è già mattina
e ancora non hai capito
quello che questa notte era venuta
a dirti; ti rigiri,
ricordi le parole che hai scambiato
nell’anno ancora vecchio con Lucia,
amica di altri tempi per telefono,
mentre la notte era già inflazionata
di fuochi e di petardi.
La fitta torna insieme alle parole
maldestre che cercavi di abbozzare
spiegando come mai
ti eri dimenticato il compleanno
dell’unico nipote e ai soli zii
avevi regalato le matite.
L’anno che è appena nato è vuoto
d’amore, la saliva è senza uscita.
Il corpo è condannato al vestimento,
ma sai che devi andare almeno là,
dove c’è gente e forse ancora un senso
di vita, un’aria di comunità.
Riunione inaugurale: apre una donna
segnata dall’età ma sorridente
con gli occhi, con le labbra e con qualcosa
in più che non riesco a nominare.
Risuona la preghiera sempre nuova,
il mantra quotidiano è nelle scale
linde e deserte mentre suona all’uscio
un’altra praticante, un’altra amica
ben poco conosciuta, eppure intima,
e si collega al canto.
Poi prende la parola Caterina
e la parola inciampa nella gioia
di piangere per quell’assiduità,
per la naturalezza di quel meeting
mattutino. E io penso che è sacra
non la preghiera in quanto tale o i libri
da cui leggiamo massime consunte
eppure sempre belle a riascoltarsi,
ma proprio quel sorriso, quella voce
rotta, quel gruppo di persone sveglie
e strette in un legame
franco come la luce, come il mare.
E anch’io piango di gioia, di dolore,
di tutta quella colpa che attanaglia
le viscere e le tiene prigioniere,
di quell’io così fragile a toccarsi,
che qui non ha barriere, né bisogno
di parlare, di farsi riconoscere
dagli altri. Qui c’è amore.
Ce n’è da dare agli angoli di strada,
nei luoghi di lavoro, nei momenti
in cui si chiude il mondo e la memoria.
A MARGINE DI “PUSH THE SKY AWAY”
Era scritto che la pioggia
fosse buia, che Nick Cave
mi riempisse dai suoi solchi di sollievo,
mi straziasse col ricordo della vita.
Era scritto e l’avevo scritto io
su un quaderno senza giorno.
Quel che ho visto quella notte
mi accompagna nella morte
quotidiana degli impegni,
“Vacci piano, non è ancora
tempo”, e poi tempo non è stato più
ed è ancora tempo zitto nell’attesa.
Era scritto tutto questo, e l’avevo
scritto io, su un quaderno silenzioso.
Biciclette abbracciate, arrugginite
su un lampione al Palazzetto.
Lui è dentro, l’australiano,
e stavolta non è un film
di Wenders, solo la mia vita grama
e immensa, l’australiano
ha rapito i tuoi capelli,
le tue nocche, le mie note
belle e il sangue del pensiero.
Mi ridà ora tutto a pezzi
di quattro o tre minuti,
di infarti diluiti.
Dissi cose orrende, tradii la mia fede
per amore e persi entrambi
quella notte e il sellino della bici
mi castrò senza pietà.
Dissi cose anche stupende,
mentre il palco si accendeva
lessi il libro di Fenoglio a
voce alta, la baciavo sulla vita,
percorrevo le montagne della schiena
dolorante e tutta d’oro.
Tutta la sceneggiatura
sul quaderno silenzioso,
sul quaderno senza giorno,
sul quaderno senza fine.
AUTODENUNCIA
Il bacio in pandemia
è un crimine, un miracolo.
Si fondono le lingue, si traduce
la paura in orizzonte, il mandorlo
ha le gemme, nella piazza semivuota
giochiamo con le mani:
la polizia è lontana, è luna nuova.
*
Tuona su Roma nord, è primavera
ma fa freddo, alla finestra –
mangiata dalla vita – stai fumando
e il libro legge le tue gambe, piove
piano ma anche dentro,
guardi l’angelo metallico lontano
là sul fiume, mentre il cane
che ami tanto si è abbracciato sul divano.
Non ho fame, non ho sete,
non ho sonno, sto nuotando alla finestra
(sverniciata, legno nudo che fu bianco e dietro il vetro,
ricamata fine fine, c’è la tenda, anch’essa bianca).
Non ho prima, non ho dopo. Il mio disco
sta ascoltando la tua casa e il pomeriggio.
Un tiro ancora di tabacco e venti righe
d’intimità straniera e d’aria fredda, poi chiudiamo
fuori la città. Lei risplende grigia e immensa.
Il vinile – finemente d’anni Ottanta – sta chiamando
mani e labbra.
*
Al quarto e al quinto piano tutto ok,
le fondamenta che non vedi crollano.
E’ già allagata la cantina, il vino
rimane asciutto nelle teche chiuse
a chiave, mentre un topo
e un coniglietto galleggiando sbattono
sui muri... La paura è la maestra
di ogni uomo, di ogni donna, ci insegna
a scrivere, a non leggerci nel cuore,
svuotare i genitali, supplicare
comprensione, comprensione.
Trema il seno, arde la stanza, si spengono
le mani. Insegnare alla maestra
è solo un sogno. Un’altra casa,
forse, per entrambi, un’altra scuola.
Donato Ferdori, nato a Bologna il 03-10-1970, è dottore di ricerca in Filosofia (Università di Bologna) e insegnante di Filosofia, Storia e Scienze Umane nelle scuole superiori. Si è principalmente dedicato alla filosofia pratica kantiana, alla filosofia della storia di W. Benjamin, al rapporto tra etica e religione in Kierkegaard, al neocomunitarismo di A. MacIntyre, al rapporto tra filosofia e popular music, pubblicando numerosi articoli. E’ autore delle monografie L’autonomia come principio spirituale (Napoli , Luciano, 2012), Filosofia e popular music. Da Zappa ai Beach Boys, dai Doors agli U2 (Milano-Udine, Mimesis, 2013 – volume curato insieme a S. Marino), La filosofia degli U2 (Milano-Udine, Mimesis, 2013), La filosofia di Suzanne Vega (Milano-Udine, Mimesis, 2017). Ha inoltre pubblicato la raccolta di poesie Pirucche (Udine, Campanotto, 2015).