Giancarlo Locarno: Frigidaire, la morte dei poeti

Quelli della mia età si ricorderanno della rivista Frigidaire,  di Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Stefano Tamburini, Vincenzo Sparagna e altri, è stata pubblicata con varie vicissitudini dal 1980 al 2008, si occupava di fumetti, ma anche di arte, letteratura, politica e inchieste varie, ne ho conservato qualche annata e ogni tanto ne leggo qualche numero.

Nel numero del Gennaio \ Febbraio del 1986 è stata pubblicata un’inchiesta di Augusto Ciuffini : “la morte dei poeti” , a undici poeti viene chiesto: ”Come immagini  che sarà la tua morte?”, le risposte  sono orali, viene trascritto il parlato.  Mi è sembrato interessante riproporla.

I poeti sono: Allen Ginsberg,  William Burroghs, Robert Cordier, Anna Waldmann, Valerio magrelli, Josiph Brodsky, HG Artman, Eddie Baraka, Castellano Giron, Carlos Contramaestre ed Edoardo Sanguineti.

Ho scelto cinque poeti e le loro risposte  che riporto di seguito. Le foto sono quelle dell’articolo di Frigidaire.

Allen Ginsberg

La mia morte non esiste… perché quando sei morto, non sai di esserlo… per quanto ne sappia, per quanto mi ri­guarda, io sono già morto.

Ecco… la descrizione della morte è… come ho detto prima… perché la morte non esiste… e perciò non la si conosce… proprio in questo momento io non la co­nosco… per questo io sono morto… così che la morte è star sepolto in un risto­rante o a Roma nell’Hotel Ritz… mentre discuto un argomento astratto con un giovane… seduto di fronte a me… e non sono affatto d’accordo con chi ti ha det­to “come sei cattolico!”…

Sono in violento disaccordo con lui… questa è una domanda buddista… anzi è una vecchia domanda dei pitagorici… Pitagora ha detto: “Ogni cosa sulla qua­le posiamo lo sguardo da svegli, è morte, e quando dormiamo, è sogno”… e quel­lo che vuol dire è che ogni cosa con la quale abbiamo a che fare da svegli è il morire.

Sì… sono in violentissimo disaccordo con lui… è una domanda da giovani… ogni mattina… quando mi alzo… uno dei miei pensieri è questo: “Il mondo e i suoi abitanti sono transitori, persino la vita degli esseri è come una bolla… la morte viene senza avviso… questo corpo sarà un cadavere… e constatando que­sto… io farò ogni sforzo per lavorare a beneficio di ogni altro essere”… In rap­porto con la mia morte c’è l’azzurro blu del cielo… del cielo aperto… del cielo aperto e vuoto. E se tu volessi avere una documentazione della mia morte?  Metterei la mia cinepresa nel cielo… sul tetto dell’Hotel Ritz.

E questa sarebbe la ripresa della mia morte… nel cielo vuoto.. blu… Per quello che mi dici di Orlowski, di come dovrà essere posto il suo corpo, sì, io ti dico che aiuterò a mettere il suo corpo in terra, con i lombrichi… e le verdure… sua è la terra… mio è il cielo… E non ho mai pensato a che cosa faranno del mio corpo… non ci ho pensato… no… non lo so… forse non mi interessa… non lo so… non ci ho mai pensato… fino a que­sto momento… e visto che lo vuoi sape­re… morirò in un vestito di nuvole, di­steso… volando disteso sul mio fianco destro e la mano sotto il mento… in si­lenzio?, mi domandi di… beh… io sarò… tutte le mie poesie cominceranno a parlare tutte insieme… e voglio dirti anche che quando mori mio padre il mio guru mi mandò un telegramma: “Invio i miei pensieri a tuo padre nel Tarma­kia” … che vuol dire il cielo vuoto… poi aggiungeva: “…Per favore lascialo an­dare e continua la tua celebrazione”.

Perché volerò disteso sul fianco de­stro?… sí… sul mio fianco destro,… questa è l’antica famosa posizione di Budda… volando… sul lato destro con la mano sotto il mento… la posizione che si chiama “Parinovana”… sul lato destro, non sulla schiena… perché non potresti vedere ciò che c’è intorno a te… sul tuo lato destro, perché così tu conti­nui a parlare e puoi vedere il cielo al di sotto… se tu fossi sullo stomaco potresti vedere solo la terra,… sulla schiena po­tresti vedere solo il cielo… ma in questo modo puoi vedere entrambi i mondi… i tre mondi, cielo, terra e uomo.

Valerio Magrelli

È difficile rispondere, perché non so­no mai arrivato a prefigurarmela. E tut­tavia è un tema assillante, che occupa la mia giornata per riflessioni, per piccole tracce. Anche nella scrittura è un argo­mento presente come una specie di fon­dale, come se fosse il tessuto di molti pensieri.

Però, proprio per questa sua qualità di sottofondo, non ho mai pensato a portarlo in primo piano e a farne ogget­to di un’invenzione. Piuttosto, ho l’im­pressione di vivere avvertendo nello svolgimento del tempo la possibilità di uno strappo, di una lacerazione che può arrivare da un momento all’altro. La morte è qualcosa che interviene a ferma­re una parte del mondo, cioè se stessi, mentre tutto il resto va avanti.

Ecco, mi vengono in mente dei versi che ho scritto a questo proposito: che succederà il giorno dopo, la mattina suc­cessiva alla nostra sparizione? Tutto è continuato come se nulla fosse, la vita degli oggetti prosegue, la piantina che uno tiene in casa andrà innaffiata.

E tutto questo mi indigna, credo sia la parola giusta. Ti viene tolta la possibilità di realizzare quello che hai progettato. È proprio l’interruzione del progetto, della grande macchina.

La giornata la vedo come quel gioco, Risiko. È un gioco di guerra, apertura dei fronti, attacchi, diversioni eccetera. Si chiude un’attività, se ne apre un’altra, si pianifica una ritirata o un accerchia­mento. La morte arriva all’interno dello svolgimento del gioco e si porta via tut­to. O meglio, si porta via un giocatore, nel senso che tutti i suoi piani saltano, esattamente questo. La cosa che mi ha sempre colpito è il constatare come le cose più banali, le suppellettili, il petti­ne, non avranno più corso, non avranno più futuro.

Mi viene in mente un’altra mia poesia, sul pettine. C’è questa promessa della carezza racchiusa nel pettine ma che non potrà mai più compiersi. La soglia im­percettibile al di là della quale gli oggetti partiranno per conto loro, continueran­no autonomamente, senza più legami. Per questo pensavo alla storia dell’inci­dente…

Mi capitò di vedere una macchina che sbandava e si rovesciava: il guidatore morì pochi minuti dopo. Lo soccorrem­mo in tre, e anche in quel caso mi colpì in maniera straziante, non cinica o biz­zarra, ma appunto atroce, la cartina dell’autostrada. Vedere dei segnali che indicavano qual’ era l’itinerario, mentre l’itinerario non sarebbe arrivato nemme­no cento metri più in là.

E questo era la chiusura del possibile. Perché nomino tanto spesso gli ogget­ti pensando alla morte?!

Forse li nomino sempre, non saprei. È qualcosa che quasi precede il mio ragio­namento. Penso a quando si cerca nei cassetti. In effetti il problema della reli­quia è veramente abissale, è l’autentico feticcio. Come quando una nave affon­da. Restano cose che da un lato parteci­pano al naufragio, condividono la qua­lità della morte, dall’altro però conti­nuano a vivere. Questo è l’inquietante della reliquia, dell’oggetto sopravvissu­to.

È l’unica traccia della morte, è una specie di alone, di aureola, che si crea in­torno alla persona che scompare, è il suo calco; va via quello che c’era dentro e re­sta la forma della vita che si era costruita intorno, la forma delle sue predilezioni, il paesaggio di questi oggetti. Questo mi ha sempre colpito. Quasi che la vera salma fosse il contorno degli oggetti più che il corpo vero e proprio. Perché a quel punto l’oggetto disegna la vita dell’uomo.

Vuoi sapere se immagino di morire in silenzio o dicendo qualcosa? Mi viene in mente subito questo: ho visto una récla­me di lampadari. C’è Goethe che muore dicendo: “Luce”. Esiste una grande let­teratura sulle ultime parole famose. Si deve studiare tutta la vita per poter dire qualcosa che riesca ad avere la forza di sorprendere, che possa impressionare in qualche modo…

Non mi piacciono gli eventi, i momen­ti estatici, oppure devono essere inattesi, improvvisi, come la tromba d’aria. Ero ricoverato in ospedale in un pomeriggio d’agosto. C’era un grande silenzio. Nel caldo portentoso si spalancano di colpo tutte le finestre, cadono medicine e gior­naletti mentre le porte sbattono una do­po l’altra. Era la tromba d’aria. Queste sono le vere epifanie: i gesti o le frasi memorabili non mi interessano. E poi chi scrive già vive per mettere in scena, per mettere in carta, è bene che il suo la­voro si limiti a quello, senza trasferirlo altrove.

Non ho pensato a cosa ci sarà scritto sulla mia tomba, no, non ci ho mai pen­sato. Veramente, in una di quelle seratacce in cui si ritorna di pessimo umore avevo preso un appunto che potrebbe andar bene; “Attento / a sé di sé / scon­tento”. Mi piaceva questa vicinanza di tensio­ne, contenzione, contentezza, scontento. Attenzione e scontentezza hanno un’unica radice. O per lo meno, anche se non ce l’hanno vorrei che ce l’avessero.

E se continuo a non immaginare la scena della mia morte forse lo faccio sol­tanto per scaramanzia. Come diceva Be­nedetto Croce, la scalogna non esiste, ma c’è. Quindi il pensiero della morte ha questa particolarità, è una tensione pe­renne ma perennemente elusa, perché quando viene in mente la si scansa, la si evita. Questo è uno dei motivi per cui non sono mai arrivato a rappresentar­mela. Poi, certo, c’è il fatto della giovi­nezza, l’ho letto spesso, chi è giovane si sente immortale. In effetti uno ci può pensare finché vuole, ma la morte re­sterà sempre un’eventualità che viene dall’esterno, mai dall’interno, insomma. La visione e l’esperienza che ne ho è sempre quella dell’incidente, che è re­pentino, che non ci appartiene. Sono queste le due ragioni che mi vietano di immaginarmi l’apparecchiamento del­l’ultima ora.

Ma se dovessi scegliere la morte io la vorrei addomesticata. Gli animali mi piacciono addomesticati. Il grado massi­mo cui può giungere l’animale è quello

di perdere la sua animalità e diventare telecomandato. Questo è il mio sogno, e infatti ho grandi discussioni con la mia amica che ha un cane. Io vorrei che que­sto cane facesse tutto a comando, per­dendo naturalmente la sua funzione di cane che abbia quando vengono i ladri. Uno non gli può dire “abbaia, vengono i ladri”, diventerebbe superfluo.

Io non prendo i cani per addomesti­carli, ma se ci sono li preferisco adde­strati. Anche se poi mi piacciono co­munque. Pensavo al desiderio di addo­mesticare l’estraneità, l’animalità della morte, e quindi aspettarsela accucciata, serena, con una specie di anfiteatro di persone care intorno. Cioè la meno mor­te possibile.

Non però in quanto classica, ma ap­punto in quanto la meno morte. Penso a quelle spiagge lunghissime, mentre la morte tremenda è come Dover o cose del genere. Io preferirei una morte olande­se, una spiaggia che prende la rincorsa da venti chilometri e alla fine s’infila piano piano nel mare: uno può cammi­nare fino all’orizzonte, tanto si tocca an­cora, e così eliminare quel problema del­lo strappo. Non dico certo l’agonia, per carità, ma lo sfumare di una cosa nell’al­tra. Perché fino all’ultimo si vuole rima­nere, senza andarsene via. È strano co­me la morte non sia mai vista come una cosa naturale, non venga mai inserita all’interno del progetto quotidiano. Uno non dice mai: “Domani non posso usci­re perché probabilmente morrò”. Se uno ha cento anni potrebbe anche arri­vare a dirlo, ma non lo dirà mai. È sem­pre una sorpresa, un azzardo. Ho letto un raccontino tedesco di un tale che arri­vato a cento anni esclama: “Se non si è fatta viva fino ad ora, mi sa che la morte non verrà più”. Sarebbe una deduzione logica se non avessimo a che fare con un creditore, e i creditori, si sa, prima o poi arrivano. A Roma si dice che a pagare e a morire c’è sempre tempo. Ma il debito alla fine va saldato. Dipende solo quan­do. Mi viene in mente l’orologio del Bel­li.

In un sonetto spiega che ogni orologio nel suo movimento racchiude una com­binazione segreta, la posizione delle lan­cette che indicheranno il momento della nostra fine, come se al suo interno fosse scritta la data della morte di ognuno. C’è sempre ma non c’è ancora: questa è di nuovo la compresenza di cui parlavo prima, tra la vita che scorre e la morte che può continuamente interromperla. E l’unico depositario dell’ora è appunto l’orologio. E un po’ l’equivalente, im­pressionante perché speculare, di un’al­tra poesia del Belli, quella della testa da morto, il teschio che tutti portano den­tro di sé. Anche quello sta all’interno, finché non deciderà di venir fuori. Per me questo non è un semplice paradosso, ma una precisa sensazione, mi sembra di avvertire un incombere nascosto, un ser­peggiare sotterraneo. In una mia poesia ho descritto le tubature idrauliche che attraversano la casa. Ecco, forse il per­corso dell’acqua che si cela dietro le pa­reti mi ricorda qualcosa di simile. Se ne sente il rumore di sottofondo.

Dunque questo rumore ha un suo fa­scino misterioso, in qualche modo ti at­tira, lo ascolti, ma, lo ripeto, provo nei suoi riguardi, nei riguardi di questa pre­senza minacciosa, un sentimento di fa­stidio, di indignazione, appunto. Faccio un esempio. Ho un’enorme passione per il gioco e un altrettanto enorme odio per il gioco d’azzardo, anche perché perdo spesso. Si tratta di due attività che han­no lo stesso nome ma che in realtà indi­cano due cose opposte. Nel gioco infatti, quello che io ritengo veramente tale, ognuno dispone di tutte le sue facoltà e le mette in moto, le mette in gioco. Il principio del gioco d’azzardo, invece, è quello di rinunciare sin dall’inizio alle proprie facoltà, di affidarsi per intero alla sorte. Io vedo nell’amore del caso una tendenza alla necrofilia. Nel gioco d’azzardo si attende una risposta, che in ultimo riguarda sempre la propria mor­te. Il giocatore d’azzardo vuole sapere quando dovrà morire, quando verrà estratta la sua carta, e aspetta il suo tur­no senza poter far nulla. In tutto ciò io non mi riconosco, proprio perché mi piace poter giocare davvero, disporre delle mie mosse.

Ho una spiccata antipatia per la morte come elemento di interferenza. Un gior­no, tornando a casa, ho visto sul cru­scotto di una macchina una copia del “Corriere della Sera” intitolata Sono sbarcati i marziani. Siccome il “Male” aveva già stampato vari giornali falsi, esclusi quasi automaticamente la possi­bilità di una nuova finzione, sarebbe sta­ta troppo banale e prevedibile. Dunque la notizia doveva essere vera. E allora pensai, maledizione, adesso bloccheran­no il traffico, interromperanno le tra­smissioni, chiuderanno i cinema, e im­maginai i mille irritanti dettagli che avrebbe comportato l’arrivo dei marzia­ni. La morte per me è l’arrivo del mar­ziano, che non c’entra niente con quello che sto facendo. È come il gioco d’az­zardo, non puoi giocare perché devi aspettare la sorte, il caso, il numero, l’ospite non desiderato.

È proprio la stessa cosa dell’orologio. C’è scritta l’ora ma non è ancora giunta. È il numero che gira, è il 67 che non esce, però sta nella ruota. E arriva.

Josiph Brodsky

Vorrei morire come il Cardinale Da­nielou… (ride) Dovrebbe trovarselo da sé… come è morto il Cardinale Danie­lou… (ride) Un colore nella mia morte… Trattandosi di un Cardinale… sarà vio­letto… Non mi piace questa domanda. No… è molto morbosa. No… cattolica no… morbosa.

Potrebbe anche… artificiale… ma in realtà credo che sia proprio morbosa… perché (ride) ci vorrebbero ore… vera­mente ci porterebbe via molto tempo… morbosa, proprio morbosa… è la parola che… dà proprio l’esatto senso di quello che vuol dire…

Già… proprio cosí… (ride) in ogni ca­so… per aiutarla… per venirle in aiuto… il Cardinale Danielou è morto come il Veronese… Hm… hm… (risatina) Eh, sí… piú o meno è come una tecnica di in­segnamento… certo, anche se sono nell’insegnamento universitario c’è in me una vena d’inerzia… allora lavori lei… (risatina).

E del mio corpo, dopo la morte, che voglio che si faccia… Che sia sepolto… solo questo… che sia sepolto… l’unica visione che ho a questo proposito è di essere riportato in Russia… nella mia città natale… e sulla tomba qualcosa come… o (pausa) Solo il nome e la data… Nient’altro, non una sola parola. No… 2 in realtà no.

Edoardo Sanguineti

E una domanda per me molto diffici­le, perché sono particolarmente carente di immaginazione in generale; sono un uomo pochissimo immaginativo. Nel senso che i poeti, dico quelli buoni senza dubbio, sono esseri pochissimo immagi­nativi; e vero che, appunto, l’artista e per eccellenza immaginato come colui che immagina. Ma appunto perché è im­maginato così, sono gli altri che immagi­nano, proprio perché sono dotati di fan­tasia, gli altri quelli che non fanno lavo­ro artistico o poesia in particolare. In­fatti posso aggiungere che io ero molto tormentato, quando cominciai a fare il poeta, da questa sorta di radicale impos­sibilità che mi trovavo dinanzi perché mi di­cevo: ma se il poeta è colui che per eccel­lenza è dotato di fantasia, aimè questo mio scegliere di far poesia e proprio molto sbagliato! Insomma come uno che vuole fare il salto triplo e ha le gambe cortissime. Poi mi consolo per sem­pre e mi racconto, in tutte queste opinio­ni che ora espongo, l’idea di Vico per cui “la fantasia è solo memoria dilatata e composta”. Allora dice: va bene, fin qui ci siamo, è per me. Se si tratta di dilatare e di comporre, diciamo così, degli ele­menti dati, non di fantasticare e di im­maginare, sono tranquillo. Credo che poi esistano delle particolari resistenze psicologiche per cui è vero che nonostante sia scarsamente dotato di fanta­sia, ho i miei momenti di debolezza fan­tastica, di caduta; sì, divento uno come tutti.

Pero incontro fortissime resistenze nel terreno dell’immaginazione della morte, non perché non ci pensi, o non ci abbia mai pensato, anzi mi considero un uomo in fondo abbastanza tranquillo, però so bene che è un problema, e un terreno sul quale quando mi accorgo che comincio a fantasticare, immediatamente faccio marcia indietro. Ho dei desideri di fron­te alla morte. Devo dire la morte non mi si presenta come vero e proprio proble­ma, parlo a livello di coscienza natural­mente, non è un tormento, conosco mol­tissime persone che sono estremamente afflitte dalla consapevolezza del loro essere mortali; non dalla morte in generale, ma della loro personale…

Ma perché di questa si tratta natural­mente. La morte degli altri può essere dolorosa, affliggente ecc. ma insomma è poi un dato di realtà con il quale, a un certo punto, si può anche fare i conti.

Ecco. Si può elaborare in lutto, per dirlo in termini classici. Invece la pro­pria morte… bisognerebbe elaborare il proprio lutto in partenza. Allora per me si è trasformato molto nel problema in­vece del dolore, della sofferenza. Io non so descrivere la mia morte ma, come de­siderio, sono molto indifferente sia al modo, alle circostanze della morte. Trovo per esempio estremamente singolari tutti i testamenti o le raccomandazioni lasciate intorno all’uso del cadavere: voglio essere sepolto qui, voglio questo voglio quell’altro ecc. ecc. Sono tutte cose che veramente penso riguardino completamente gli altri ai quali spero non dare troppo disturbo ma se quelli poi vogliono prendersi del disturbo, non potrò mai impedirlo, ecco nemmeno preventivarlo in maniera negativa…

Loro totalmente. Salvo per un punto che non è la morte: è il dolore, la sofferenza, il modo. Cioè la morte allora non è tanto la morte, il momento finale in sé ma ciò che la precede. Per esempio un lunga malattia dolorosa la vedo con una cosa terribile.

E’ quello che mi preoccupa, il resto no. Naturalmente posso desiderare la morte improvvisa, la più indolore possibile, è vero che esistono morti indolore, poi non lo so. Purtroppo nessuno di questo se ne intende;  non so se quello che si addormenta e poi al mattino non si sveglia davvero non soffra. Certo che l’ideale quello di attaccare un sonno vero e non svegliarsi. Qui allora la cosa si trasforma molto, perché diventa molto accogliente come immagine. Cioè a me capita nella vita di essere certe volte molto stanco proprio molto provato e l’idea di non svegliarmi il mattino dopo devo dire mi affascina…

Si questo e vero. Io ammetto volentieri che in questo ci sia una enfatizzazione della situazione. Devo dire però che non provo il terrore di questa immaginazione. E’ vero che è certamente un’ immaginazione addomesticata, cioè questa morte non è un sonno definitivo, sonno molto prolungato, non è che a quel punto scattino in me delle reazioni di ansia, per cui dico adesso se mi addormento non mi sveglio più. Mi ricordo una volta, parlo di molti anni fa una volta mi ubriacai molto e stetti veramente male ed ero in una camera d’ albergo come questa, mi trovavo credo a La Spezia ad un festival di poesia. Io incautamente avevo mescolato vini, e molto stanco, in certi momenti la stanchezza agiva forse più del vino, agì sopra un “me” molto, molto esposto. Non dissi niente a nessuno, mi ritirai c’erano ancora degli amici in giro, dopo cena. Mi ritirai in questa stanza a un certo punto capii che proprio ero in uno stato di completo disfacimento, si confondevano davvero i pensieri come succede in uno stato di forte ubriachezza e con uno stato fisico di spossatezza tale, di perdita d’energia, di pressione bassa, ridotta al minimo… poteva essere la morte. Capii che mi stavo per addormentare e non era poi cosi certo e nemmeno cosi probabile che mi sarei svegliato ulteriormente. Devo dire mi addormentai, non chiamai nessuno, avrei po­tuto telefonare. Ma io ero proprio stan­co… disposto a una resa possibile. Al mattino mi svegliai con molto stupore dicendo: toh, sono ancora vivo Avevo dei dolori alla testa spaventosi, terribili… forse quella fu la mia prova generale. Allora in fondo non so descri­verle in immaginazioni la mia morte, posso raccontarle questa come una spe­cie di prefigurazione, per cui il ricordo sostituisce la fantasticheria. E ripensan­do a quanto lei mi ha detto poco fa, non credo di essere d’accordo sul fatto che nella società contemporanea il tabù della morte abbia sostituito il tabù del sesso. Capisco in che senso lei lo dice però credo che sia come un contraccolpo… che le due cose non siano strettamente corre­late, salvo il fatto che hanno la medesi­ma radice. Cioè, in una società altamen­te industriale quanto più si sviluppa l’or­ganizzazione industriale della società, tanto più il sesso diventa insignificante come problema, come problema che la società deve gestire, controllare, eccete­ra. Un margine di libera sessualità, ecco, non crea problemi.

La morte diventa più imbarazzante in­vece per i ritmi esistenziali e organizzati­vi; dove, cosa si fa di un cadavere, dove lo si mette, sbrighiamoci, è igienicamen­te perturbatile, il giorno dopo bisogna andare a lavorare, non si può elaborare lunghi lutti, segnarli nell’abito, non è il piccolo villaggio, la cultura contadina e via discorrendo. In questo senso diventa tabù, ma non è vero che non se ne possa parlare, o che susciti particolari disturbi. Certamente se in altri tempi un uomo di cultura, un uomo di sensibilità religiosa poteva fondare sulla morte molto spazio della propria esistenza – questo era rite­nuto socialmente utile e comprensibile -oggi questo spazio non v’è più.

E ora le racconto una cosa che può servire come aneddoto complementare a quello dell’immaginazione vissuta piut­tosto come ricordo, appunto, perché ap­partengo a questa categoria. Recente­mente qui a Roma feci una lettura di poesie, alla fine mi si avvicinò un giova­ne. C’erano persone che conoscevo e questo invece era un giovane sconosciu­to, non giovanissimo, doveva essere un giovane insegnante, 25-30 anni, non un ragazzino, il quale mi dice: “Ma io co­noscevo poco delle sue cose”. Io mi trat­tenni un po’ a parlare con lui, perché al­trimenti le persone note fanno muro…

Lui,… devo dire non ero nemmeno en­tusiasta di parlare con questo individuo perché spesso arrivano così, seccatori, diciamo, con il foglietto di versi in ta­sca… cosa ne penso… cose di questo ge­nere. Però questo fu molto tenace e no­nostante poi io mi spostassi con queste persone, avviandomi verso l’uscita, lui sempre dietro con l’aria di chi mi deve chiedere una cosa. Voleva dirmi qual’ era la sua impressione. Io avevo letto varie pagine che vanno dal ’51 e ar­rivano all’81, mi pare cinque testi di pro­sa, di poesia, di teatro; era una specie di autoritratto che avevo fatto per il CIDI, l’organizzazione degli insegnanti, questo mi fece supporre appunto…

forse me lo disse anche… che lui fosse un giovane insegnante. Mi disse: “Io credo di aver capito qual è il suo vero problema. Il suo problema è la morte, perché in tutti i suoi testi, in maniera diretta o indiretta, insomma, tutto il nodo della questione gira e rigira lì”. E pensando poi alla scelta dei testi che avevo fatto, era vero, ma era anche vera una cosa: probabil­mente qualunque scelta di testi avessi fatto, lui avrebbe potuto giungere giu­stamente a questa conclusione. Però ne diede un’interpretazione molto bella. Già mi piacque che in fondo avesse capi­to, ed era vero perché a pensarci è poi vero che il tema della morte mi interessa molto, non come tema mio personale, ma come grande tema. E a questo punto anzi probabilmente posso dire che non ho molti tormenti di fantasia sulla mor­te, che tutta l’opera in un certo senso esaurisce in sé: è pronta e nello stesso tempo crea una situazione di distacco. Ma mi disse una cosa che mi piacque molto, perché disse: “Il suo problema è quello, diciamo così, di comunicare una certa pedagogia molto razionale nei con­fronti del problema della morte”, cioè lui lo disse molto come una sorta di le­zione funeraria, in cui si dice, grosso modo – lui non usò questa espressione -ma mi parve di capire che volesse dire: “Signori morire bisogna, non è vero?!”. Allora questo problema va affrontato, va affrontato sanamente, lucidamente, razionalmente e io lavoro per questo, adesso statemi ad ascoltare e cercate un poco di entrare in quest’ordine di idee… è molto bello.

Anna Waldmann

Ho pensato alla tua domanda e… nel­la mia vita, è così, come nascere e morire costantemente, momento a momento, e uno ha il senso dell’essere… un guerrie­ro, in rapporto a come vive la propria vi­ta… almeno lo spero… no… almeno è possibile… così che la morte volteggia sempre, capisci? Volteggia, è sospesa in­torno… intorno… e tu puoi stabilire un legame o un contatto con quella poten­za, o tempo, o presenza, o situazione, capisci,… situazione ben finita. Io non ho alcuna sensazione poetica circa il tempo e il luogo definitivo; ho avuto al­cune intuizioni di… forse vivere fino a tarda età, capisci… più vecchia. Posso percepire me stessa come una donna più vecchia e invecchiando in questo modo, io credo che tutto ciò potrebbe accade­re… ecco… potrebbe accadere… più tar­di… (pausa)

Accetto molte delle idee della filosofia buddista, ho studiato il libro dei morti e perciò il momento definitivo quando la coscienza di sé, o le cose… o le cose fisi­che cessano di funzionare, nella descri­zione del Buddismo tibetano le cose ca­dono via gradualmente. Subito la vista, il tatto, l’olfatto, tutte queste cose co­minciano ad andarsene, le tue percezioni sensoriali cominciano a scomparire. Ma c’è una coscienza che è ancora presente per un certo tempo e poi questa coscien­za è come estrusa dal corpo e va per un viaggio di qualche sorta, attraverso di­versi paesaggi, territori e ha da prendere diverse decisioni. Ecco, è come guidare una macchina qui a Roma, per esempio, e hai bisogno di una carta stradale così che puoi decidere che strada prendere per liberarti, per uscirtene fuori dal cor­po. Per me è così, in realtà non cerco di rappresentarmelo, io non ho alcun senso di come possa essere la vita dopo la mor­te o qualcosa del genere, ma credo che ci sia una coscienza che continua ad aver vita, proprio posso sentirlo, penso di averlo sentito da qualche vita del passa­to e perciò per me proprio il momento della mia morte non è poi così cruciale, così importante, capisci,… la reale fisi­cità… quando il corpo cessa. (pausa)

Non so quale sarà la situazione esatta, forse fuori, forse in un interno dolorosa, potrebbe essere cancro, una qualche ter­ribile forma di epidemia, radiazioni nu­cleari, qualche oscena morte dolorosa, un incidente, ma la propria morte vol­teggia (pausa)… capisci,… sempre… (pausa)

Una forma? Una forma, già… sì . Ec­co quello che vuoi dire… qualcosa come una presenza, un potere. Può essere, e si manifesta con qualche tipo di… contor­no, ma che poi cambia, già, uno ne ha  un senso così nei sogni. Si prova una sensazione di una atmosfera, di un am­biente dove qualcosa ti dà la caccia: la morte che volteggia e tu, come un guer­riero, sempre un passo avanti. Puoi es­serci quasi in contatto, forse puoi ritar­darla, o puoi metterla fuori strada ma quando il tempo viene,… il tempo viene. Ma se tu hai delle speciali capacità, puoi scegliere, puoi tornare indietro al tuo luogo, quel luogo che è il tuo “luogo delle memorie”, per così dire,… tu vai su quella cima di montagna che hai scel­to tu o quel posto particolare… e che ti­po di giorno è, è molto importante… in qualche modo la tua natura, il tuo carat­tere, la tua personalità ne è toccata… è… è in contatto in qualche modo con il sole di prima mattina, con l’alba, il tra­monto, l’iniziare del giorno, l’alba… e allora potresti morire in quel momento, potrebbe essere a metà della notte o la luce della luna… (pausa)

Mi sono sempre sentita una persona notturna, la mia energia è più viva la notte, suo massimo, e io ho vissuto mol­to in città, specialmente a New York, e ho trovato che funziono meglio quando tutti dormono. Così ho fatto certi sogni, ho lavorato molto a una cosa chiamata Sant Mark’s Poetry Project a New York, che è un centro molto importante per poeti e artisti di tutti i tipi. E sono cresciuta nelle vicinanze di quel quartie­re, che ha anche i suoi segni, segni di sto­ricità; ci ha vissuto quel famoso olande­se, Peter Stuyesant, che fu uno dei primi governatori di New York, e quella era la sua chiesa. È un bel po’ antica, è una delle chiese più antiche… insomma… quel tipo di comunità… e proprio dentro la chiesa c’erano delle balconate per gli schiavi, capisci, delle gallerie per gli schiavi. Una quantità di storia, molto ricca, ci sono storie sul fantasma di Pe­ter Stuyesant e c’è molta gente che le ha raccolte insomma è questo tipo di comu­nità; ed è quasi un cimitero. Ed è quasi come il terreno di un ossario, molto ric­co, perché ci è accaduto così tanto. Ho pensato spesso che quello poteva essere un luogo… (pausa) E’ una sporca città, già, così intensamente compressa, capi­sci, con strati su strati, fin da quando c’erano gli indiani e i lupi e molto altro ancora; era selvaggio… quella parte di Manhattan… un luogo selvaggio. (pau­sa)

Quello potrebbe essere il luogo… Potrebbe esserlo, ci torno nei sogni, capisci?


3 risposte a "Giancarlo Locarno: Frigidaire, la morte dei poeti"

  1. ohibò, ricordo Frigidaire (sono abbastanza vecchio anch’io, eh…)
    e trovo molto interessante la riesumazione della salma di questo numero sul tema della propria morte, argomento sempre più oggetto di “rimozione” da parte dell’essere umano transvirtuale 3.0.
    in effetti, visto il crescente dominio dell’umano sui processi naturali (tecnologia e routine quotidiana), solo quella stronzetta della morte si permette ancora di sfuggire al controllo e di turbare la perfetta riproduzione scenica accompagnata da mirabolanti effetti speciali della nostra (in)esistenza.
    ma come osa!
    : )
    onde per cui, eccoci tutti intenti ad occultarla, ad addomesticarla, o ad esorcizzarla (con fatti o parole, poco cambia) spalleggiati da una società dello spettacolo che, quando non può trasfigurarla in fenomeno di mercato (vedasi la pandemia) rimuove la morte (nonché il dolore, la vecchiaia e la fragilità), puntando sull’imperativo religioso del godimento consu/mistico a 360° nonché sull’immagine di corpi “oltreumani” che tutto possono.
    ancora più inquietante, se possibile, è il tema della morte nei Poeti, il cui corpo maleodorante destinato alla putrefazione difficilmente è emendabile con aulici versi cosmetici.
    : ))
    onde per cui, è assai improbabile che qualche Vero Poeta lasci un commento in calce a questo post.
    ; ))))))

    ma andiamo allo specifico dei cinque intervistati.

    – Ginsberg: rimozione totale fin dall’incipit… “La mia morte non esiste”, tanto che, al di là dei giri di parole “In rapporto con la mia morte c’è l’azzurro blu del cielo” e “morirò in un vestito di nuvole” (Poesiaaa)

    – Magrelli: rimozione parziale “non sono mai arrivato a prefigurarmela”, ma “è un tema assillante, che occupa la mia giornata per riflessioni” e che lo indigna perché “Tutto continua come se nulla fosse” e non potrà più annaffiare “la piantina che uno tiene in casa”. insomma, la morte c’è (“Se ne sente il rumore di sottofondo”), ma “la vorrei addomesticata”. sottolineerei, peraltro, l’aspetto solipsistico Poetico del tutto: piantine, pettini, tubature, cartina dell’autostrada “oggetti”, non persone, perché l’unica persona esistente per il Poeta è l’Io poetico, ed è morto… e in ogni caso l’io interrotto al sé (tipico del Poeta) transenna lo spazio empatico che prelude la realtà plurale del “noi” (tranne di quello maiestatis, eh eh)…

    – Brodsky: rimozione totale con contorno di risatine nervose. E comunque “Non mi piace questa domanda”.

    – Sanguineti: sbrodolata iniziale (non richiesta) di fronte alla domanda che si conclude con una sorta di purtroppo anch’io “divento uno come tutti”, cosa difficile da accettare per un Poeta. segue rimozione parziale “è un dato di realtà con il quale, a un certo punto, si può anche fare i conti” (ohi, bellissmo il “si può anche”). e i conti son questi: non mi frega molto degli altri (spero di non dare troppo disturbo, ma facciano quello che gli pare del mio “cadavere”) o di morire, la cosa importante è che IO non voglio soffrire per morire perché “quello che mi preoccupa” è “il (mio) dolore, la (mia) sofferenza”. e comunque, per quanto nella sbrodolata iniziale dica di difettare di immaginazione, poi concede che il suo pensiero della morte “è certamente un’immaginazione addomesticata”. dopodiché sgattaiola a destra e a manca raccontandoci aneddoti della sua vita “Mi ricordo una volta, parlo di molti anni fa una volta mi ubriacai molto”, e “Recentemente qui a Roma feci una lettura di poesie”, alla ricerca di un esorcismo pedagogico della (sua) morte.

    -Waldmann: rimozione totale attraverso processi mentali non del tutto organizzati al limite del patologico (“la morte volteggia sempre”, “la coscienza è come estrusa dal corpo e va per un viaggio di qualche sorta”) nonché comunicati con affabulazione frammentaria (“capisci?”). È il “il terreno di un ossario” del tutto privo di polpa perché “ci torno nei sogni” e comunque “per me proprio il momento della mia morte non è poi così cruciale” tanto la morte è un sogno perché “credo che ci sia una coscienza che continua ad aver vita”.

    che aggiungere? il solito grazie di cuore per i tanti spunti a Giancarlo.

    (se ti è possibile, sarei curioso di leggere la risposta di Burroughs…)

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  2. Questa malos è la risposta di Burroughs:

    WILLIAM BURROUGHS
    Io rispondo; no, perché io non posseggo la mia morte… non c’è una… io non ho una morte… che sia la mia pro-pria. No… non posso rispondere. (lunga pausa) Bene… la morte implica sempre mancanza di coscienza… un periodo di incoscienza… secondo i buddisti o chiunque ne abbia fatto l’esperienza… e certo non si può descrivere bene qualcosa quando si è inconsci… per quanto ci siano stati molti racconti di gente che è morta, clinicamente morta, e poi tornata indietro a descriverla. E c’è stata una forza di ben definita concordanza delle loro esperienze. Cioè… di star vedendo una luce… e molti di loro come riluttanti a tornare indietro ai loro corpi… e tutte le mie esperienze mi indicherebbero che questi racconti sono accurati… Beh, la morte deve prenderci sempre di sorpresa… sí, di sorpresa… Ogni volta che entro in aereoplano penso a questa possibilità, a come potrebbe essere… il realizzare che qualcosa non funziona… o andare molto veloce in macchina e immaginare che qualcosa può accadere… come… la macchina che si rovescia… una volta ho fatto un sogno… che ero in una macchina che si è rovesciata due volte… e sapevo che ero morto… e dissi… e me ne uscii con facilità… senza sentire alcun dolore… e dovevo avere la
    schiena rotta… non che mi piacerebbe pensare… che morirò in un incidente di aereo o di macchina… Sí… non credo proprio che morirò in un incidente aereo… Né che ci tenga molto a morire in un letto… l’idea non mi piace… ma non si sa mai. C’è un odore associato alla morte… che io chiamo odore di morte… è difficile descriverlo, ma sicuramente esiste… posso guardare qualcuno e se sta morendo… se morirà tra poco… c’è un odore collegato al fatto di morire… un odore privo di colore… (pausa) Penso che sarò silenzioso. Certo la morte è come una persona… la morte può sembrare prendere la forma di una persona o di un organismo e le ultime parole di Billy the Kid furono “quien es?” … “chi è?”… lui era entrato in una stanza buia… Pat Garett, lo sceriffo, era li e allora Pat Garett gli sparò e lo uccise… e le parole di Pat Ga-rett, che uccise Billy the Kid, furono “che Dio ti danni, se non riesco a toglierti di mezzo dalla mia terra in un modo, ci riuscirò in un altro!”. (pausa) La morte è una macchina a cento all’ora contro un muro di granito… la morte… …Lei, lui, non lo so… (pausa) Non riesco a pensare a nulla. (ride) Mi lasci pensare qualcosa… per un po’ piú tardi…

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