Donato Ferdori, Fenicità. Nota di lettura di Simone Consorti

Poesie in forma di Fenice

Diversi temi si intrecciano nell’ultima raccolta poetica di Donato Ferdori, Fenicità (Transeuropa ed. 2024), in particolare l’amore, il sogno e il sesso; tuttavia il filo rosso che unisce le varie liriche e le due parti del libro è, senza dubbio, la presenza della morte. Più che un filo, anzi, essa qui rappresenta una vera e propria corda, o meglio un cordone ombelicale, visto che, oltre ad essere presente e viva, può dare la vita. “Sorella morte, grazie / a te sono vivo”, è l’incipit del componimento a pagina 31.

D’altra parte, per converso, la vita lascia morire (“La vita è sempre quella e mi vuol bene / lasciandomi a morire nella metro, circondato / dai sedili”). In diversi altri passaggi i due termini antitetici sembrano fondersi come in una sorta di ossimoro, che tra l’altro è una delle figure retoriche più ossessivamente presenti nella raccolta, come negli esempi che seguono: “il futuro è nel presente”, “gaia violenza”, “sigaretta d’ossigeno”. Non esiste morte senza vita e viceversa; esse sono fuse insieme come un cerchio che non ha principio né fine, come un anello nuziale la cui scomparsa non può separare. Di qui il titolo della raccolta, felice neologismo, che rimanda al mito egizio e greco della Fenice. A ben vedere dunque questa morte non è un evento ma un processo: “I morti stanno morendo” (p.15).

Nella prima parte, più ampia, si alternano paesaggi onirici e urbani, la città impersonale presenta sedili e uomini vuoti nelle metropolitane. La seconda parte non è solo più breve, ma anche più concentrata e rarefatta. Qui lo spazio si restringe e si limita a due camere intime: la stanza da letto, esalante amore, e quella dell’ospedale impregnata di un pacifico dolore, luoghi limitati e angusti, correlativi oggettivi di un tempo limitato, ristretto, che viene a mancare. (“Sei in prigione in un ospedale / italiano. Lì ti senti libera / pensando alla mia stretta [] Siamo leggeri in questa gravità”, si legge a p. 51). Questi versi contengono molto dell’essenza del libro e ce ne svelano il tono, appunto, leggero, nel senso positivo che dà Kundera a questo aggettivo: leggero e sereno. Una strana leggerezza che richiama, in qualche modo, la voce di Sandro Penna, per cui spesso amore e dolore rimavano (“Un dolore m’inonda: / un amor…”). Grace under pressure, avrebbe detto Hemingway, ma qui c’è di più, qualcosa che non è solo unaccettazione rassegnata di una via senza uscita: è la coscienza di star vivendo insieme tutto. Così, anche ciò che divide può unire.

“17 poesie con Giovanna” è intitolata questa seconda parte. Con non per, come ci aspetteremmo; proprio la scelta della preposizione dà testimonianza di una compresenza che non ha nulla a che fare con un omaggio postumo, e ci rinvia ad un libro scritto e da scrivere insieme, magari sotto dettatura reciproca, non ad una dedica: un libro a due voci e quattro mani. Così, anche se in Fenicità la morte è rinascita e ci troviamo davanti ad un tempo circolare, in cauda non possono non affiorare alla mente i versi definitivi della Szymborska: “Non c’è vita / che almeno per un attimo / non sia stata immortale. // La morte / è sempre in ritardo di quell’attimo”.

Simone Consorti

*

Donato Ferdori – Fenicità – Transeuropa ed. 2024

*
*
Sorella morte, grazie
a te sono vivo.

Tu sola rendi tutto così bello,
stasera l’ho capito.

E non ho più paura di incontrarti,
almeno credo, ascolto un pianoforte

e leggo un diario antico, sembra il mio:
invece è di una donna
folle in Olanda nel ’43.

Perché rendi possibile
la meraviglia che non riesco a dire,
tu meriti di esistere.

*

Negli ospedali che diventano
case, nelle stanchezze
subliminali che senti con la pelle
sottile e t’incazzi;
nelle case che sono ospedali
dolcissimi e fuori dagli incubi c’è
sempre il tuo corpo sottile
e se urlo mi dici dormendo “amore che c’è”
e ridi se sbatto la testa e mi perdoni.

Nell’ospedale del mondo mi porti
a passeggio, è vitale
come un bambino che non sa che fare,
che s’incazza e poi sorride ai salici,
ai cagnoni. E nei tuoi occhi
c’è tutta questa festa inarrestabile
a cui ogni viltà si dovrà arrendere.

È ancora luna piena, rosa-luna
e ci fermiamo ancora a respirare
la fatica, la libertà
nella campagna strana.

*

RIANIMAZIONE

Dormi drogata dagli aghi d’ospedale
oggi ancora e la preghiera
sembra perdere forza, serri
le palpebre a metà, persa nell’Ade
e schiudi le labbra bruciate
dal non avere saliva, intubate.
Hai le mani legate al letto
e pensi che sia una tortura,
che ti abbiano buttato nel cassonetto
e lo riporti perfino il giornale,
il tuo magari, ma tu
li hai denunciati tutti, amore.
Ti passo i guanti sull’attaccatura
dei capelli, sui polpastrelli gonfi
di medicinali. I chirurghi tronfi
e stanchi danno udienza, le infermiere
devono confrontarsi coi tuoi no
da incubo foucaultiano. Riconosci?
Forse in parte, in parte mi sorridi
o mi maledici. Siamo fantasmi intorno
all’unica cosa vera, il tuo corpo.
Chiedo alle vene di aprirsi un po’
di più, di baciare meglio le vene
di quel polmone alieno che è ora tuo,
di far correre il futuro rosso scuro
senza intoppi, il nostro mare che si deve aprire,
Dio.

*

Domani ci cuciamo l’uno
all’altra come in un’opera
di Maria Lai, poi ci cuciamo
al sole che nel sole ci sentiamo uno
come Kurt Cobain e ancora
alla casa sul mare, rilegare
l’istante l’infanzia e il futuro
in un libro di gioia, di spinte
e capelli tirati,
di sonno-pane rubato ai ladri
psichici, gli incubi dimenticati.

Hai detto “non siamo diventati
il nostro destino”, quello che avremmo avuto
distanti, troppo fedeli al ruolo assegnato
da Lachesi o che ci siamo scelti, e invece
il tuo fiuto pazzo
sente piste nascoste, tesse trame
libere nell’arazzo infinito
che qualcuno direbbe divino, ma noi
non lo chiamiamo, meglio
non essere troppo seri,
bere uno spritz, salire in motorino.

*

Perché mi hai abbandonato?
Perché il fiume in cui fu gettato
il corpo di Rosa Lu non si è fermato?
Perché tanta sfortuna in risposta alla virtù?
È troppo, hai detto, troppo per pregare,
troppo per credere in altro che non sia il mare
e farsi accogliere, farsi cenere nell’onda,
non aprire più gli occhi tagliati sul soffitto indegno,
sui volti ormai estranei dei più intimi.
È troppo per scrivere senza mani,
camminare senza piedi,
pisciare senza reni,
respirare senza polmoni,
amare senza speranza,
vivere in una stanza.

*

Ora lo sai bene, amore,
perché è andata così,
sai tutte le cause, tutti gli effetti
quasi conflati insieme e per tal modo
che ciò ch’io dico è un semplice lume.
Ridi nella giostra del tempo e dello spazio,
mi sgridi ancora e ancora
per la mia rigidità,
per la mia incapacità di vedere
che la vita è razionale e irrazionale
e sfugge sempre come te.

Brilli in ogni festone per le strade
delle tue città,
scoppi nei fuochi di Napoli,
di Ostia, di Passiano.
Forse sarai tu Rosalu,
la figlia che volevamo,
con le tue mani parlanti che furono
anche mie, coi tuoi piedi
strani, eleganti –
altro che bionici!
Di carne pulsante,
risorti in chissà quale ventre.

Hai riportato i polmoni
al resto di chi ti aiutò
a stare per un po’
in una casa sicura di ferro e d’oro
dove due erano uno solo.
Si stava così bene,
fuori pioveva piano nella notte

*

Donato Ferdori (Bologna, 1970) è dottore di ricerca in Filosofia (Università di Bologna) e insegnante di Filosofia, Storia e Scienze umane nelle scuole superiori. Si è principalmente dedicato al pensiero kantiano, alla filosofia della storia di Benjamin, al rapporto tra etica e religione in Kierkegaard, al comunitarismo di MacIntyre, scrivendo numerosi articoli ospitati da riviste come il Giornale critico della filosofia italiana e Filosofia e teologia, oltre che da opere collettanee come gli Atti dell’undicesimo congresso kantiano internazionale. Ha realizzato la monografia L’autonomia come principio spirituale (Luciano, Napoli, 2012) accolta nella collana Cristalli diretta da Giuseppe Cantillo e Rossella Bonito Oliva ed è in corso di pubblicazione, nella collana di studi interreligiosi Caminantes (Aracne), il volume Il germe del bene e la sua bandiera. Dalla religione razionale di Kant alla Scuola buddista del Loto e oltre. Per Mimesis ha scritto tre volumi dedicati ai rapporti tra filosofia e popular music. Ha pubblicato le raccolte poetiche Pirucche (Campanotto, 2015) e Fenicità (Transeuropa, 2024) e il primo volume del romanzo Polline (Fuorilinea, 2025). Tra gli scritti apparsi on line si possono segnalare Give Yourself Away. Etica e arte a partire dalla “fine” degli U2, in «Scenari», 20.02.2018; Tre Pasolini personali, in «Neobar», 14.04.2022; Nei luoghi di Tarkovskij, in «Scenari», 10.06.2022; L’iperuranio e il divano. Etica e psicologia del profondo possono convergere? in «Operaviva», 20.05.2023.

Una risposta a "Donato Ferdori, Fenicità. Nota di lettura di Simone Consorti"

  1. notevolissimo esorcismo poetico. intensa la resa emotiva (che non s’arrende) e s’anima di verso in verso di sempre nuova “carne pulsante”. una sacralità del corpo che fa riecheggiare in mente gli stessi inel’udibili dubbi di sempre (vita, “sarai tu (…) che volevamo”?), poiché, inevitabilmente “siamo fantasmi intorno / all’unica cosa vera, il tuo” corpus. ecco cosa: aleggiamo, e a/leggiamo sopra le parole, incarniamo una collezione di testi (ma troppo disorganizzati per poter sperare in una analisi delle “trame” che abbia un senso).

    ordunque? la sofferenza è più infinita dell’arazzo, quindi “meglio / non essere troppo seri / bere uno spritz, salire in motorino“…

    forse la chiave è tutta racchiusa nel dire un “lume“, “semplice lume” in contesti frivoli/disincantati, tipo al bar, tipo un barlume. ma quanta verità può sopportare un uomo? (chiedeva Federico). poca, pochissima, rispondo io, quindi ben vengano il “troppo” e il “chissà quale” e pure la “viltà” (per quanto tale).

    l’aria sono le parole, i polmoni il sudato trapianto sul foglio, con “rosa luna” (e “Rosa-Lu“) a farsi accogliere (quasi di sorpresa). i “senza” sono tanti, i “con” passano spesso inosservati (“con/frontarsi”, “con la pelle”, “con/flati”, “con le tue mani”, e poi “incontrarti” e “riconosci?”), ma sono tanti pure loro.

    6 a 6, financo, un bel pareggio. poteva andare peggio…

    ordunque, non saremo “diventati il nostro destino” (ma possiamo diventarne molti altri), e in ogni caso un po’ d’irrazionale è il miglior antidoto (contro i “chirurghi tronfi“). finché restiamo capaci di fermarci a respirare “la fatica, la libertà / nella campagna strana” possiamo ancora sopravvivere (al peso lordo del mare).

    una felicità fenice che sa rinascere. l’eco d’un sor/riso che riso/rge.

    un abbraccio fraterno a Donato che oltre ad essere ottimo poeta è pure una bella persona (se le parole non mentono). in questa sera triste e depressogena, mi porto a casa, come ben dice Doris, la “coscienza di star vivendo insieme tutto”, nonostante tutto. grazie.

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