Giancarlo Locarno: Le tramvai ivre

Jackson Pollock, Number Five
Le tramvai ivre, Giancarlo Locarno

Primitivi e giovani inverni
al verde clemente dei gradini della metropolitana
rovistano tra i giornali
gli stati sussistenti delle cose
e si perdono nelle nebbie ornamentali dell’alzaia
senza il giroscopio
che traccia la topografia di Milano
sulla tela del Number Five.



Le aggraziate signore che consultano
i cestini della spazzatura e il dopomercato del martedì
al Gratosoglio, cogliendone le ultimizie
non sono il malo frutto della pianta dei mutui subprime
esercitavano anche prima i loro giri ebdomadari
lungo la via dei Missaglia, famosa famiglia di armaioli milanesi del 400
oggi estinti. Altri armaioli più forensi accudiscono al loro posto
giuslavorandone le cucce al rosso dell’alizarina.


Dai mantici al duomo
il vibrato dell’unda maris satura lo spazio
sottratto alle fonti di santa Tecla.
La pazza a piedi nudi alza le braccia
nella mitezza dei mondi asseribili.
I piccioni della piazza sono furie
insinuate nella sezione aurea delle sue acque
come la colomba al diluvio.



Nel mezzo galleggiano le due lapidi a Pinelli
e il paesaggio non è più quello di Sironi
ma sterpi d’Arizona e lontano zigurrat con tre strisce di colori primari:
come un terzo occhio di Shiva acquattato nella brousse.
Erba secca e qualche fila di pioppi dalle prevedibili geometrie
il residuo ottocentesco di un morone dei bachi
tipicamente lombardo.


Giù dagli embrici bandiere triangolari
bianche Come sottovesti di studi fotografici
quando in un passo in dehors giraffe modelle
fanno voltare il bianchino correzionale
ai pensionati di via Pericard.




“Debout les morts!”
nel bar anni settanta ricostruito
ed esposto alla triennale vicino al cabanon di Le Corbusier.
Hanno messo anche i senza mano ai semafori
e mostri, che fumano sul tram per Rozzano
provando le musichette per cellulari
e io non ho provato nessuna pietà
a costeggiare quelli che furono i capannoni del lavoro
senza più gli operai in tuta e in bicicletta e senza i due piani di mense,
basta correggere le smagliature col photoshop.


Dalle grinfie in equilibrio sulle barre distanziali
il discanto dei precari esala
ricorsivo e inscatolato
nei bandi di gara al ribasso
dentro la divisione della divisione linguistica del lavoro.
Come cani abbandonati sull’autostrada
cadono scaglionati lungo il tragitto del quindici
quasi a ispezionarne la linea di displuvio
che insidia gli sterpeti.
I guardiani dei segreti nel tempo oltre il limes li minacciano
dalle insulae e dalle migrazioni con stracci colorati.


Filarchia
debiti umanizzati
appena ci si distrae un poco
occupano i palazzi di ieri
non lasciano più nulla
nemmeno una maggiostra
al fondamento
che non sia l’orrore
dello schema d’impresa
sul grafico aziendale
del nuovo millennio
a buttare la terra sul teschio sulla crapa
dove nessun Canova verrà
ad estrarre il paradigma del bello.
A noi il catriosso
e l’andare in zurlo
per il misero caule d’un soffione.


Si espande dal principio la materia che albeggia verso la Ghisolfa.
le parole non l’hanno ancora raggiunta
qui nel terzo regno
dove le strade sono radici ai rinfianchi chiomati di finestre.



Al canto rotto ridotto a sirventese
le foglie degli insiemi infiniti di pensieri
che vibravano sul ramo
si ricompongono piegate nel cranio
e io rotolo senza strisciare come un punto della cicloide
lungo la catenaria dei giorni.


Prendo il mio tram
dove si incontrano solo le parallele dei navigli
e come Orione nel cielo d’ inverno
No, come un verso scazonte
la città
batte l'ala e i denti.

Io sono rimasto quello puro.

Comincio a intravedere i grandi ritmi naturali
-che Pollock descrive così bene-
attuarsi nel kalpa presente.

Lungo gli hangar tra le terre d’ombra
cadono le prime teste mozzate
dalla macchina missoria
e le prime strisce dal muro della tela
d’un azzurro indifeso.

Questo cambia la polare

e la precessione delle primavere
attorno alla linea monodica dell’autostrada
ai miei riluttanti mattini.


3 risposte a "Giancarlo Locarno: Le tramvai ivre"

  1. Una delle tue poesie più belle, Giancarlo. Assai mi aggrada la premurosa ricercatezza con cui si rovistano “gli stati sussistenti delle cose”, ovvero ciò che veramente esiste come “Le aggraziate signore che consultano /  i cestini della spazzatura e il dopomercato del martedì”;  e poi il paesaggio, “non più quello di Sironi”, e il tuo dell’anima dai “grandi ritmi naturali”.

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  2. dopo il “battello ebbro” di Rimbaud, ecco il “tram ebbro” di Giancarlo.

    : ))

    l’alzaia, id est, la fune con cui i braccianti mutati in animali da tiro trainavano le chiatte lungo i canali (anche sui navigli?), diventa il cavo aereo che dà elettricità al pantografo e Giancarlo *diventa* il tram numero 5, alla deriva lungo le vie di Milano.

    a differenza di Rimbaud, però, qui l’io poetico non s’abbandona a un viaggio verso l’ignoto e non fugge dalla civiltà, sebbene il format mostri più d’un punto di contatto: ciò che prende corpo in questi versi è un ri/capitolare, un vivisezionare coraggioso le sconfitte dalle società “civile” umana lungo un percorso *obbligato* (quello della storia e del tram), mettendo insieme presente, passato e futuro.

    i poveri cristi costretti a nutrirsi degli scarti del *mercato* assurgono ad archetipo sempiterno del modello di società plasmato del Potere (dinastico, bellico, finanziario, ect), mentre i giuslavoristi “rossi” a difesa dei lavoratori si “evolvono” lustro dopo lustro (slavando prima in rosa e poi in grigiastra connivenza con tutte le *storture* più che coi “diritti“)… ma non divaghiamo.

    la musica, presente nelle note dell’organo del duomo, diff’onde a ondate, nell’eco di spietate mareggiate passate e future (dolente ironia), mentre un’umanità (in mi) minore, sopravvive spiaggiata, con assai poche speranze residuali, bersagliata da uccelli Hitchcockiani tra lapidi divelte (Pinelli), quadri urbani squarciati (Sironi), residuati ottocenteschi, modelle longilinee (guardare ma non toccare, quella è robba perricchiii), tramezze divelte di capannoni del fu lavoro (oggi, lo sanno tutti, non c’è lavoro – pagato onestamente – e “non ci sono i soldiii”), precari esalati, operai cani bastonati sull’autostrada, finestre pop-up in svendita, stracci di migrazioni al ribasso, carcasse di ideali (nessun volatile “vola alto” oggigiorno), onde per cui, i nostri sogni vanno “in zurlo” in pochi attimi (o in un “soffione“), e poi cosa ancora? ah, sì, brandelli di canti (un tempo di rivolta operaia, ora di cortigiani intenti a celebrare i padroni)… insomma, una Milano popolare piegata/piagata nel cranio, e, a doveroso contorno, scazonti di visioni pollockiane nonché i cadaveri (poco alla volta, inesorabilmente) di chi ci ha accompagnato nella vita ed or trapassa a una miglior….

    vera poesia, si legge, nei versi e tra le righe, qui: Giancarlo in grande spolvero, plauso incondizionato. che aggiungere? beh, che a differenza di Rimbaud non c’è ricerca (di un assoluto, di un’esperienza estetica allucinatoria, d’un affrancarsi da legami e vincoli sociali).

    Giancarlo è oltre: la consapevolezza è già ben salda, di stampo in qualche parte nicciano e in larga parte vichiano: le uniche “parallele” sono quelle dei navigli… qui invece il cerchio si chiude (“comincio a intravedere i grandi ritmi naturali”) in un eterno ritorno che non appare né benevolo né rassicurante. il “cerchio della vita” non traccia alcun disneyiano *equilibrio*, bensì un *connaturato squilibrio* che rimanda a una lotta di classe dove vita e morte, vincenti e perdenti erano, sono e restano predefiniti e immutabili. cambiano, forse gli attori, chiamati a recitare il solito copione, così che il verbo di Giancarlo incarna veri e propri versi catartici e purificatori, medianti i quali si sviluppa e evolve l’auto-consapevolezza stessa (non so se riesco a spiegarmi… “ri/luttante” evoca sia un lutto reiterato che un resistere disincantato, pertanto destinato a cedere il passo a nuovi “mattinali” di stampo cefisiano).

    è vero, c’è sempre un “new day rising” per il sol dell’avvenir, ma qui la nota è il mi (minore), non il sol.

    : )

    il domani che non si può evitare dietro l’angolo è la solitudine sociale che (im)palpabile s’insinua in ogni dove (specie in chi è rimasto “puro”). “sono io / che vanno” scriveva Oltremare, una poetessa della rete… ed in effetti oggi più che mai ci ritroviamo tutti insieme, stretti e sardinati in autostrada (bollino nero!) e tutti cantiamo una singola melodia, se non addirittura la singola nota (a latere, di cui sopra). mi sovvengono i santoni, il Buddha (ben ricordo d’aver letto e commentato un tuo scritto “giovanile” indiano) con annesso ciclo cosmico al termine del quale corvo rosso avrà il nostro “skalpa”. amen.

    l’unica mia perplessità è che i cicli cosmici che descrivono l’evoluzione e l’involuzione dell’universo indiano/buddista dovrebbero avere una durata di miliardi di anni, mentre i cicli del nostro tessuto socioeconomico sono “più a misura d’uomo“, tipo il ciclo Frenkel che descrive le dinamiche economiche di un paese meno sviluppato che si aggancia alla valuta di un’area (o di un paese) più forte… o tipo il keynesismo bellico (tanto in voga nell’UE… eh, se non sai già di che si tratta, fai a meno di cercarlo con l’AI di Google perché ovviamente ti risponderà che “AI Overview non è disponibile per questa ricerca”)… o tipo i cicli boom/burst delle bolle finanziarie e del debito privato (che viene scaricato sul pubblico).

    resta il fatto che la consapevolezza della ciclicità del tempo e dell’esistenza umana/socioeconomica non alimenta più di tanto il buonumore… anche perché, oltre ai soldi e al lavoro (onestamente retribuito), manca anche il cibo e si continua a morire di fame (non solo a Gaza)… ohi, sarà per questo, forse, che, giorno dopo giorno, alimentiamo a noi stessi ripetendoci la storia che non può esserci nulla di nuovo sul fronte occidentale? o forse è solo che abbiamo ben altre cose a cui pensare, tipo il nuovo Samsung Galaxy Z Flip/Fold 7 (si piega!) o l’Asus ROG Phone 9 pro (con processore Qualcomm Snapdragon 8 Elite e display AMOLED da 6,78 pollici a 185 Hz, ideale per gaming!)…

    ecchilosà… vabbeh, tanto chi può dire di saper la Verità? io no di certo… ogni volta che per un attimo temo di saperla, presente, passato e futuro coagulano in un una trombosi priva di coordinate e piena di caos, che in fondo è la realtà definitiva del pensiero umano (demenza senile… sia mio padre che mia madre sono finiti così, perché mai io dovrei fare eccezione??), dopo la quale moriamo (liberazione/naufragio purificatorio in un nulla irreale finale, una sorta di abbandono totale alla vastità del male). (che suona meglio di “mare” e fa pure rima).

    brrrr….

    ma non buttiamoci troppo giù! finché c’è vita c’è sperdanza! e finché c’è vita posso ancora sperare di leggere e condividere altri pensieri su una nuova poesia di Giancarlo!

    : ))

    chiudo pertanto con uno dei miei nanoforismi preferiti: “invecchiando, primavera dopo primavera, si scopre fallace ogni cosa che prima era vera”.

    un abbraccio forte e chiaro, fratello: siamo sulla stessa barca, pardon, tram (number five)…

    e allora gimmie five! alright. gimme five! alright. are you ready for a new vibration? gimmie five! alright. gimme five! alright. party people rock the nation…

    : )

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  3. Questo poemetto è un affresco urbano e storico di Milano che ci dice che la Palestina non è poi così lontana, mescola visioni quotidiane e tracce di memoria collettiva, intrecciando degrado e ironia. C’è tanto di bello in questi versi, complimenti Giancarlo

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