Cinema e poesia, il “gigante e la bambina”, di Pasquale Vitagliano

“La poesia consiste nel far entrare il mare in un bicchiere”, dice Italo Calvino. E questo è stato il tentativo che Terrence Malick ha compiuto con il film The tree of life. Il regista cult americano ha cercato di “riprendere” – con la precisione di un naturalista – la vita in tutte le sue forme. Il corpo, l’anima, la memoria, l’astronomia e la preistoria, legate insieme non dal filo soggettivo della narrazione, ma da quello oggettivo della storia. Il suo, dunque, è stato uno sforzo poetico nel senso di Calvino: ha cercato di fare entrare la vita – tutta la vita, quella mossa dalla natura e quella mossa dalla grazia – in un film, in un “bicchiere” di immagini, anzi di im-segni, cioè quelle strutture create da Pier Paolo Pasolini quali unità di base di una grammatica e di una sintassi del cinema. 

Un discorso sul cinema-di-poesia non può che partire dal poeta-regista friulano. Ma la premessa ineludibile è una riflessione sulla sua legittimazione. In altri termini, ha senso parlare di poesia del cinema quale genere proprio rispetto alla scrittura e, quindi, rispetto allo stesso fare cinema? Ne vale la pena? Arricchisce lo spettatore-lettore? Ovvero ci troviamo di fronte ad una mera e auto-referenziata speculazione teorica? Credo di poter dare una risposta positiva. Grazie al sincretismo dei linguaggi e delle tecniche che la civiltà post-moderna ci mette a disposizione – altrimenti saremmo condannati al silenzio, posto che tutto è stato già scritto – il cinema grazie alla poesia può diventare più potente. Allo stesso modo il verso scritto, attingendo al repertorio visivo del cinema, può diventare più immaginifico. In entrambi i casi, a beneficiarne è il destinatario ultimo dell’opera, lo spettatore-lettore, grazie ad un livello più intenso di com-mozione. Per effetto di questo dialogo proficuo, il cinema amplifica il proprio processo di identificazione, mentre la poesia scritta può sentirsi meno debole e sola. E’ difficile per la parola scritta competere con le immagini e con la musica. Senza parola scritta, tuttavia, il cinema-di-poesia neppure esisterebbe.

Dobbiamo tornare a Pasolini e alla necessità che il cinema abbia un proprio linguaggio. Se il cinema “comunica” vuol dire che “anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune”. Pasolini definisce queste immagini significanti, gli im-segni, attinti dal dizionario del “caos” e tradotti dall’autore in forme espressive. Ad un primo livello di espressione questo linguaggio è molto rozzo, attinge alla dimensione “pre-umana” dei sogni e della memoria.

La sfida del cinema di Pasolini – e di tutto il cinema di poesia ed in questo egli è stato veramente un profeta – non è rappresentare la realtà, ma riprodurla. “La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare”. Quindi, come per la letteratura, esiste una prosa e una poesia anche nel cinema. La differenza la fa le tecnica narrativa che per la poesia è data dalla “soggettiva libera indiretta” , quale traduzione in immagini del discorso libero indiretto letterario. Così come la lingua scritta si presenta a noi come convenzione che ha il compito di fissare la lingua orale, il cinema viene visto da Pasolini come il momento scritto della lingua naturale che è l’azione: “L’intera vita, nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente”. La poesia nel cinema lo sottrae alla tradizione culturale prosaico-narrativa.

La poesia irrompe nell’ultimo film di Lars Von Trier, Melancholia, spezzando anche gli argini rigidi del “dogma” iper-realista del regista danese. La poesia ha la stessa funzione dell’imminente apocalittica catastrofe: disvelare il caos celato dietro l’ordine apparente del linguaggio e delle relazioni convenzionali. Se l’impatto preannuncia un nuovo ordine non si sa. La poesia può solo profetizzarlo. Il poeta, come il folle malinconico, il veggente, può riuscire a vedere ciò che gli altri, i “normali”, non vedono. Il cinema, con la sua potenza visiva e sonora, quando fa poesia, esalta oltre misura i sensi della scrittura. Offre allo spettatore-lettore un’esperienza totale, che la lettura-scrittura da sola non è in grado di offrire.

Siamo ancora lontani dalla creazione di un grammatica del cinema universalmente riconosciuta. Le tecniche cinematografiche sopperiscono in fondo a questo deficit, forse incolmabile, perché strutturale. Lo stesso Pasolini non riuscì a terminare la sua elaborazione teorica intorno agli im-segni. Eppure, è fuori di dubbio che esista un cinema-di-poesia. In questo il linguaggio visivo è così poco convenzionale che lo spettatore, anche il più sprovveduto, non può ignorarlo, lo “sente” perché “si sente” la macchina da presa.

Più di una volta i poeti si sono cimentati con la tentazione di fissare la magia del foglio bianco nel mentre viene vergato dall’inchiostro nero della creazione artistica. Ma credo che nessuna pagina scritta abbia mai raggiunto il grado di suggestione raggiunto da Emanuele Crialese con la splendida scena di Nuovo Mondo nella quale i cappelli neri lentamente affiorano dentro un mare di latte. Vedo e rivedo questa scena, e mi viene voglia di scrivere. Ma il cinema è più della poesia, più della pittura, più della musica. E’ arte totale.


6 risposte a "Cinema e poesia, il “gigante e la bambina”, di Pasquale Vitagliano"

  1. Grazie, Pasquale, per aver ripreso le riflessioni di Pasolini sul cinema di poesia. Ho avuto la sventura, nei miei anni di università a Bologna, di frequentare le lezioni di uno dei critici più acerrimi delle teorie di Pasolini, che guardava al nostro come a un semiotico improvvisato. Eppure Pasolini è stato un precursore, perché parlava di “sogni”, anticipava l’interesse degli studi di cinema per la psicanalisi. Per mia fortuna ho rispreso a studiare Pasolini nel mio Master a Londra, con una tesi su La ricotta, il suo film piu’ poetico anche se è soprattutto con Uccellacci e uccellini che Pasolini “applica” consapevolmente le sue teorie, film di grandi momenti poetici ma non il più riuscito per via delle digressioni “didascaliche”, politiche, ovvero quando le sue urgenze ideologiche vengono affidate alla parola. Condivido il giudizio sui “poeti” che hai menzionato, fanno parte della mia lista diversi registi iraniani, Erice, Kaurismaki, Ciprì e Maresco.
    abele

    p.s. Per chi volesse saperne di piu’ sull’argomento, invito a leggere Empirismo eretico, in cui Pasolini emerge anche come un attento spettatore.

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