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Raymond Queneau (1903-1976)
I fiori blu
Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Eudeno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano Greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano le persiane. I Normanni bevevan calvadòs.
Tutta questa storia, – disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d’uscita?
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Les fleurs bleues
Le vingt-cinq septembre douze cent soixantequatre, au petit jour, le duc d’Auge se pointa sure le sommet du donjon de son château pour y considérer, un tantinet soit peu, la situation historique. Elle était plutôt floue. Des restes du passé traînaient encore ça et là, en vrac. Sur les bords du ru voisin, campaient deux Huns; non loin d’eux un Gaulois, Euden peut-être, trempait audacieusement ses pieds dans l’eau courante et fraîche. Sur l’horizon se dessinaient les silhouettes molles de Romains fatigués, de Sarrasins de Corinthe, de Francs anciens, d’Alains seuls. Quelques Normands buvaient du calva.
Le duc d’Auge soupira mais n’en continua pas d’examiner attentivement ces phénomènes usés.
Les Huns préparaient des stéques tartares, le Gaulois fumait une gitane, les Romains dessinaient des greques, les Sarrasins fauchaient de l’avoine, les Francs cherchaient des sols et les Alains regardaient cinq Ossétes. Les Normands buvaient du calva. Tant d’histoire, dit le duc d’Auge au duc d’Auge, tant d’histoire pour quelques calembours, pour quelques anachronismes. Je trouve cela misérable. On n’en sortira donc jamais?
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Nota del traduttore
«Secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d’essere una farfalla: ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d’essere Chuang-tzé? E in questo romanzo, è il Duca d’Auge che sogna d’essere Cidrolin o è Cidrolin che sogna d’essere il Duca d’Auge?
«Un intervallo di 175 anni separa le apparizioni del Duca d’Auge nella storia. Nel 1264 incontra san Luigi; nel 1439 compra cannoni; nel 1614 scopre un alchimista; nel 1789 si dedica a una strana attività pilorica nelle caverne del Périgord. E finalmente nel 1964 avviene il suo incontro con quel Cidrolin che egli aveva sempre visto in sogno immerso nella più assoluta indolenza su di un barcone amarrato stabilmente a riva. Anche Cidrolin, dal canto suo, non fa che sognare … La sua sola occupazione sembra essere quella di riverniciare la staccionata lungo il suo tratto di banchina, imbrattate dalle scritte ingiuriose d’uno sconosciuto.
«Chi sia questo sconosciuto, lo si scoprirà come in un romanzo poliziesco vero e proprio. Quanto ai fiori blu …»
Così il risvolto di copertina, certo di mano di Queneau che presentava Les fleurs bleues nella sua prima edizione, Gallimard 1965. Appena presi a leggere il romanzo pensai subito: «È intraducibile!» e il piacere continuo della lettura non poteva separarsi dalla preoccupazione editoriale, di prevedere cosa avrebbe reso questo testo in una traduzione dove non solo i giochi di parole sarebbero stati necessariamente elusi o appiattiti e il tessuto di intenzioni allusioni ammicchi si sarebbe infeltrito, ma anche il piglio ora scoppiettante ora svagato si sarebbe intorpidito … È un problema che si ripropone negli stessi termini per ogni libro di Queneau, ma questa volta sentii subito che in qualche modo il libro cercava di coinvolgermi nei suoi problemi, mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida, mi provocava ad un duello tutto finte e colpi di sorpresa. Fu così,che mi decisi a provare. Il problema era di rendere il meglio possibile le singole trovate, ma farlo con leggerezza, senza che si sentisse lo sforzo, senza creare intoppi, perché in Queneau anche le cose più calcolate hanno l’aria di essere buttate lì sbadatamente. Insomma, bisognava arrivare alla disinvoltura d’un testo che sembrasse scritto direttamente in italiano, e non c’è niente che richieda tanta attenzione e tanto studio quanto rendere un effetto di spontaneità.
La traduzione che qui si ristampa (identica a come uscì nel 1967, se non per minimi ritocchi) è un esempio speciale di traduzione “inventiva” (o per meglio dire “reinventiva”) che è l’unico modo d’essere fedeli a un testo di questo tipo. A definirla tale già bastano le prime pagine, coi calembour sui nomi dei popoli dell’antichità e delle invasioni barbariche (che introducono fin dall’inizio il tema del disfacimento della Storia) molti dei quali in italiano non funzionano e possono essere resi solo inventandone di nuovi al loro posto.
Fin lì si trattò solo d’un avvertimento. I problemi cominciano in seguito, con i continui cambiamenti di registro e di diversi tipi d’intervento che essi richiedono. Ci sono giochi di cui si trova subito un equivalente non troppo lontano (se Q. per dire “folclorico” dice aussi faux que lorique, possiamo provare a mettere “tanto folle quanto clorico”); ci sono giochi in cui l’italiano offre occasioni più felici del francese (la battuta “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, in una discussione astronomica del Seicento, dà forse qualcosa di più che Copernic soit qui mal y pense); ce ne sono altri che non permettono di cavarsela con leggerezza e obbligano ad arrampicarsi sugli specchi (al capitolo terzo compare una ragazza canadese d’origine pellirossa iroquoise, termine che Q. associa con ironie, ire, e scompone in ire au quoi; in questi casi, perché quel tenue spunto non si perda, io non so resistere alla tentazione di dilatare, sovraccaricare e talora esorbitare: “L’irochese ironizzata si fa irosa od irritata” è una frase — addirittura in versi: due ottonari rimati — che ho introdotto io di mio arbitrio, ma che penso renda tutte le intenzioni dell’originale).
Altro problema sono le citazioni di poesia francese nascoste nel testo, o spesso neanche nascoste ma spiattellate lì come luoghi comuni. In qualche caso ho sostituito la citazione attingendo al patrimonio della memoria poetica italiana corrente e scegliendo qualche verso magari completamente differente ma che facesse al caso in quel dato punto; altrove ho messo in evidenza la citazione lasciandola in francese (e addirittura aggiungendo la citazione della fonte, che solo per il lettore francese può considerarsi sottintesa). In altri casi poi, quando erano proprio delle parole che contavano, ho tradotto pienamente, trascurando i precedenti e gli echi.
Poi ci sono i localismi contemporanei. Per esempio, Q. chiama un personaggio che fa il conducente d’autobus ératépiste, dalla sigla Ratp (Régie Autonome des Transport Parisiens); ho cercato di conservare almeno la rigidezza della denominazione chiamandolo sempre “Dipendente trasporti pubblici”.
E ci sono le allusioni all’attualità, con effetto anacronistico. Per esempio, nell’espressione del parlato sgrammaticato à quoi na sert?, come battuta d’un dialogo a proposito delle Crociate in Egitto, si può leggere “Nasser”. Io me la sono cavata come ho potuto.
La maggiore difficoltà in Queneau sono le espressioni del parlato popolare, che diventano motivi ricorrenti e in cui consiste il vero spirito del libro, come nel capolavoro queneauiano Zazie. Qui la battuta riccorrente dello sfiduciato Cidrolin è: Encore un de foutu. Io ho cercato di renderne la funzione ritmica di ritornello rassegnato, con “Anche questa l’ho in quel posto”, espressione che però suona più volgare che in francese; ma questo scxarto verso la volgaritò è un rischio che si corre sempre, quando si cercano equivalenti italiane a espressioni del francese popolare.
L’ironia popolare è più facile da rendere che i valori legati al parlato, all’argot, all’uso corrente. Tra i giochi più dotti, c’è quello del Duca d’Auge, che usa parole che non potevano essere note ai tempi suoi come péniche, siesta, mouchooir, e alla domanda “Vous pratiqueriez donc le néologisme, messire?”, spiega che è un privilegio prevedere la forma che le parole assumeranno in futuro seguendo il filo delle etimologie. Naturalmente per parole italiane di diversa radice ho dovuto cambiare la catena delle derivazioni.
Senza problemi invece passa in italiano il pastiche di Robbe-Grillet, nella descrizione d’un bar e soprattutto del berretto a pallini del padrone (il nome del locale, Bar Biture, riporta al tema del sonno, dominante in tutto il libro, così come il nome del padrone, Onésiphore, che è lo stesso di quello del vescovo del Duca, stabilisce una delle tante corrispondenze tra le due storie parallele).
Pure senza difficoltà di traduzione sono i dialoghi sulla linguistica, satira della “disciplina pilota” di quegli anni, e quelli sulla storia (“la storia universale in generale e la storia generale in particolare”) in cui passano termini della discussione storiografica più aggiornata come histoire événementielle o che avranno fortuna in seguito come microhistoire. Poi la psicoanalisi con la sua Traumdeutung … Le scienze umane, insomma, sono rappresentate tutte quante.
L’identità tra storia e attualità, tra cultura e senso comune, impronta di sé il linguaggio del libro. Gli ambienti storici visitati dal Duca d’Auge nel suo viaggio nel tempo corrispondono quasi tutti ad argomenti alla moda nella cultura francese recente: l’alchimia (col suo lessico misterioso), Gilles de Rais, Sade (“il mio buon amico Donatien”) le caverne di Lascaux e di Altamira. Non mancano neppure le allusioni a Heidegger e ai suoi Holzwege, i “sentieri che non portano da nessuna parte” …
Per qualcuna delle difficoltà ho avuto la fortuna di poter consultare l’autore, a voce e per lettera (e l’amicizia che è nata da quel rapporto è stato il frutto più prezioso di questo lavoro). Rimpiango solo di non avergli chiesto di più, e non solo sul significato letterale delle frasi. Ma eravamo due conversatori laconici, purtroppo, e in Queneau l’ammirazione per Mallarmé forse si fonda anche sull’affinità nel temperamento taciturno, almeno a quanto suggerisce una lettera che mi scrisse. L’avevo interpellato sul nome dei due cavalli parlanti del Duca d’Auge, che si chiamano Démosthène e Stéphane. Il perché del primo non è chiaro, dato che è un cavallo parlante che tende all’eloquenza, ma l’altro, che solo bofonchia poche frasi, perché si chiama così? “Le Stéphane en question, — mi risponde Q.— c’est (por moi) Stéphane Mallarmé. Il était peut-être “causant” à ses mardis, mais son oeuvre fait —me semble-t-il — penser à la concision, sinon à la taciturnité”.
Ricordo anche che gli domandai del titolo Les fleurs blues, che richiede soltanto una traduzione letterale (la scelta di “blu” anziché “azzurri” m’era apparsa più scattante e queneauiana) ma che resta misterioso come significato in rapporto al libro. Mi spiegò il significato francese dell’espressione, che indica ironicamente le persone romantiche, idealiste, nostalgiche d’una purezza perduta, ma non mi diede altri lumi sul valore di questa immagine nell’insieme della vicenda del Duca d’Auge e di Cidrolin, questione sulla quale i commentatori di Q. ancor oggi continuano a discutere.
L’espressione fleurs blues, compare due volte nel romanzo, all’inizio e alla fine. All’inizio il Dica d’Auge, partendo da Larche (attenti al nome!) esclama: “Loin!, Loin!, Ici la boue est faite de nos fleurs”. Si trattta di un verso d’un verso di Baudelaire con un cambio di consonante (“Loin!, Loin!, Ici la boue est faite de nos pleurs in Moesta et errabunda nelle Fleurs du mal“). In Q. il fango è quello della Storia che si disfa (“Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là”) e di cui tutto il profitto che si può ricavare sono “un po’ di giochi di parole” e “un po’ di anacronismi”; ma è certo che questa fanghiglia contiene tanto i “fiori” degli ideali delusi quanto i “pianti” di cui la realtà della Storia è inzuppata.
Al finale, quando il Duca d’Auge approda con la chiatta di Cidrolin trasformata in Arca di Noè (l’Arche) per attraversare il diluvio e arrivare alla meta sognata (cioè uscire dal Tempo? O ricominciare l’Eterno Ritorno d’un tempo ciclico?) vediamo che “uno strato di fango copriva ancora la terra, ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando”.
Ideali e sogni contro lo spessore della vita che ci circonda: l’ombra del Don Quijote che s’affaccia a metà delle Fleurs bleues (evocata da un lettore aggiornato nel 1614, data della prima traduzione francese) ci invita a vedere in questo libro una variante moderna del capolavoro cervantino. Ma c’è chi ricorda anche il Calderón de La vida es sueño, almeno nel tema generale dell’incertezza tra i due termini. E, passando alla problematica del sogno nel Romanticismo tedesco, s’impone per più d’un motivo il riferimento all’Henrich von Ofterdingen di Novalis, dove un giovane sogna un fiore azzurro, simbolo dell’ideale, della poesia, della vita pura e perfetta, e lo cerca attraverso esplorazioni nella storia e nella natura.
Siamo in un clima letterario e intellettuale completamente diverso? Sì, ma non senza rapporti. Una trentina d’anni prima, Q. aveva seguito all’École des hautes études i corsi di André Kojève sulla filosofia di Hegel, non solo ma era stato lui a redigere i testi dei corsi e a pubblicarli. L’immagine di Hegel che Kojève consegnava alla cultura francese era ben diversa da quella di “filosofo della Storia” che da più d’un secolo circolava nella cultura italiana; era sulla “uscita dalla Storia”, attraverso la conquista della Saggezza che Kojève metteva l’accento. Questa idea centrale si trova in più d’un romanzo di Q., ma mai in modo così esplicito come nelle Fleurs bleues. Le parodie caricaturali di fatti storici ed epoche possono essere facili e scontate, ma quel che ci mette Q. è una specie di sarcasmo contro il tempo e i suoi valori, contro L’ “homo historicus” rappresentato dal frenetico Duca d’Auge (non incline però all’interventismo: si rifiuta di partecipare alla Crociata, e sta ben attento d’evitare di trovarsi in mezzo alla Rivoluzione francese), contrapposto all’uomo statico per eccellenza, che sonnecchia su una chiatta immobile sulla Senna e la cui unica attività è il sogno.
Il Duca d’Auge, il divenire storico, sono sogni dell’uomo che vive solo nel presente? O l’eterno presente è solo un sogno che s’alza dal fluire del tempo senza riposo? La mano della coscienza infelice che scrive sulla staccionata di Cidrolin la parola “assassino” è quella di Cidrolin stesso che s’assume le colpe del proprio sogno cioè della Storia, oppure fa parte del sogno del Duca d’Auge che aspira a una redenzione in cui tutte le colpe siano cancellate da una mano di vernice?
Ma l’uscita dalla Storia non è quella che più contemplare un Cidrolin che annega i suoi oscuri rimorsi nel pernod (“essenza di finocchio”), né il fangoso camping internazionale lì vicino col suo sogno di fraternità internazionale (ammucchiata geografica allo stesso modo che all’inizio del romanzo il campo fangoso del Duca d’Auge si presenta come un’ammucchiata storica) custodito da un giustiziere fanatico. Sbarcato Cidrolin, sarà il Duca d’Auge a prendere il comando dell’Arca che miracolosamente si mette a navigare senza bisogno di rimorchiatore e raggiunge il suo monte Ararat. E gli abitanti dell’Arca sono un’allegoria complessa: comprendono (coi due cavalli) gli usi della parola nell’argomentazione e nell’elusività poetica e profetica, così come (con la figlia idiota del Duca) l’umanità (“preadamitica”?) di prima del linguaggio.
Le interpretazioni più convincenti del romanzo (come quella di Vivian Kogan) sono in questa direzione della fine della Storia secondo lo Hegel di Kojève. Ma non bisogna dimenticare che negli stessi anni dei corsi di Kojève, Q. seguiva alla stessa Scuola anche quelli sulla gnosi dello storico delle religioni H. C. Puech. Les fleurs bleues, secondo Alain Calame, si legano alla simbologia gnostica e ai suoi derivati, soprattutto a Gioacchino da Fiore (non si chiama Joachim il Duca d’Auge?) decifratore delle corrispondenze tra Vecchio e Nuovo Testamento (le due storie che s’alternano nel romanzo sono piene di corrispondenze) e teorizzatore delle Tre Età che sviluppano nel tempo i tre aspetti di Dio, finché l’Età dello Spirito non pone fine alla Storia. È appunto a questa Età dello Spirito che tende il viaggio di Joachim de Les fleurs bleues.
E ancora: il tempo per gli gnostici è la parodia involontaria dell’Eternità; dunque il giustiziere Labal, guardiano del palazzo in costruzione che muore sotto le macerie del crollo, potrebbe essere, sempre secondo Alain Calame, l’Arconte che finisce nella propria trappola …
Ho voluto solo informare dei più recenti tentativi d’interpretazione. Ma resta sempre in piedi il primo, quello psicanalitico (Anne Clancier) che ha dalla sua il fatto d’essere stato proposto vivente l’autore e non smentito da lui. Il belluino e sempre euforico Auge sarebbe l’Es, Cidrolin un Ego sonnacchioso e pieno di complessi di colpa, Onésiphore Biroton la Censura, Labal il Super-Ego. Ed è solo l’Inconscio che ha preso coscienza di se stesso attraverso i sogni che può sbloccare la barca e guidarla verso il recupero dell’innocenza …
Si tratta pur sempre d’un libro che non parla d’altro che di sogni e d’interpretazione di sogni, e dove si dichiara: “Réver et révéler, c’est à peu près le méme mot”. Questa è una frase che non ho potuto tradurre; chiude una battuta di Cidrolin che contiene una gran verità tanto per la psicoanalisi quanto per la letteratura: “Sta’ attento con le storie inventate. Rivelano cosa c’è sotto. Tal quale come i sogni”.
ITALO CALVINO
Dove finisce Calvino e inizia Queneau?
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nn conosco questo scritto ma, cmq, mi desta curiosità..
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Questo di Queneau mi manca, interessanti e brillanti anche le note del traduttore
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ah, che tuffo al cuore: papà raymond! beh, probabilmente calvino deve molto a queneau, mentre papà queneau penso queneaun debba nulla a calvino (e sia chiaro che se qualcuno nutrisse dubbi in proposito e domandasse “ma perchè?” risponderei senza timori di smentita “per queneau”).
noi, per contro dobbiamo moltissimo a entrambi…
: )
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Credo, invece, che dobbiamo molto al Sig. Raymond Queneau.
Calvino ha sempre avuto una bella testa, benché sopravvalutata. Altrimenti non avrebbe messo alla porta scrittori della grandezza di Morselli… Il Sig. Calvino rifiutò una bella manciata di autori straordinari. Il caso Morselli è stato riaperto: a presto gli scritti…
“Papà” Raymond è assolutamente unico.
Non si possono paragonare i due.
Un saluto caro!!!
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L’ha ribloggato su Il Capestro.
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