“Sono più orgoglioso delle cose che ho letto che di quelle che ho scritto”. Borges distingue, in sintesi, la poesia di cose e quella di pensieri. Questa distinzione richiama il binomio fondamentale della poesia del ‘900, quello di soggetto-oggetto. La poesia di Maria Grazia Palazzo è già oltre questa coppia di termini. E’ già fuori dal ‘900, ne sia o meno consapevole. E questo superamento avviene grazie al linguaggio poetico.
Paradiso perduto
Un verso asserragliato nella mente
anapestico anacoreta analfabeta
duro come un capezzolo imbottito
al tritolo di fantasia ormonale
dirompente diroccato dirottato
dovunque sia
ognuno ha un loculo
dove dormiente imbraccerà
l’enigma dell’amoroso incontro
su cui si può a lungo abbrustolire
sciroccare sdraiare.
E intanto il divenire accade
come dettame d’un dittatore
crudele spietato diseguale
che punge sferza mette in crisi
disturbando il terrestre paradiso perduto
perché la durata di un verso è breve
più o meno breve
o più lungo
più o meno lungo
ma dura sempre quel tanto
che poi finisce
diluisce in luogo occulto
forse selvaggio
il primitivo grido non ancora sillaba quasi verso
asserragliato nella mente
anapestico anacoreta analfabeta
veramente.
L’azimuth dell’autrice non è solo un punto astronomico. E’ un punto direzionale, un punto di vista tra interno ed esterno, il dentro e il fuori, i nomi e le cose. Come scrive Walter Vergallo nella presentazione, sperimentiamo un “viaggio verticale”. Il mondo poetico di Maria Grazia Palazzo nasce da un fondale oscuro e profondo, un “luogo inferno” appunto. In questo senso, solo in questo, questa è poesia “superficiale”, ma nel senso illuminista evidenziato con originalità dal Leonardo Sciascia. Il viaggio poetico della Palazzo “porta in superficie” il mondo interiore dell’autrice. Senza psicologismi. Con la potenza pneumatica della parola poetica.
9
Tra le ombre di paradisi perduti
ricerchiamo luoghi di festa
tra racconti al porto
e panni stesi
attendiamo ritorni e partenze
nostre sembianze
presenze di avi più vicini che mai
al tramonto.
Cerchiamo all’orizzonte
nuove incerte frontiere
o un salvacondotto per l’anima.
Dove il sole bagnato addolcisce
la schiena di mura medioevali
con punte di cannone fra le dita
di aloe
di acacie verdi e dure
e infila sempre un’impietosa nenia
annunci sussurrano l’enigma
di vita peritura
in umida memoria di tufo
ed epitaffi
come enigmi al tramonto
di catrame
di sabbia.
La poesia di Maria Grazia Palazzo non è poesia biografia. E dunque non è poesia femminile. Non è poesia di pensieri e neppure di oggetti. E’ poesia “vivente”. E si pone nel solco di una “riscrittura” della realtà, dei sensi e dei significati attraverso la ricerca del linguaggio poetico. Sarà proprio casuale che le poesie meglio riuscite portano come titolo un numero? La poesia adempie alla sua funzione più potente e legittima. Archeologia, ricatalogazione, architettura del mondo attraverso la parola. Dunque poesia etica.
27
A noi pure i santi vengono dal mare
e suggeriscono le vie
da percorrere migliori.
…
Il mare ci parla
di mondi evoluti
sommersi riemersi.
Prodi eroi di tempo pagano
arruolati a una setta che nutre il nostro io
del dio danaro ammiriamo il sorriso
largo vuoto
appiccicoso.
Siamo eredi di rovine
di cultura ibrida iridescente
scorza selvaggia d’anima
che abita la nostra cupidigia.
Il mare ha parlato
– sarà così per sempre –
di nostra miseria
e nobiltà.
…
E verranno altri santi
ad annunciare il verso incongruo
da meridiano zero.
Se non c’è la biografia dell’autrice, partecipiamo lungo tutta la raccolta alla biografia della sua poesia, la “poesia bambina” la definisce l’autrice. Una biografia poetica che si dipana in un movimento ascensionale semantico e sentimentale, oltre che lirico, dai primi versi spezzati e incerti – “una metrica oscura e fitta” leggiamo – a poesie perfette come gemme, scolpite attraverso l’uso sapiente di anafore, allitterazioni e ossimori.
Femminile
Originale possiede l’ovale del viso
il suo corpo è corteccia
di segni
da codici antichi
pergamene.
E muretti a secco le stanno intorno
con cielo
con tramonto
con ferito orgoglio.
E di fatti grandiosi non sa dire.
Un giorno
Il cielo scuro lumaca dell’anima
la nuvola sull’occhio
di finestra in finestra
di porta in porta
i volti sono somiglianti di solitudine.
Ottobre ecco la tua sfinge che danza
piangiamo fiori.
Ho rivolto personalmente all’autrice la domanda cruciale che Rilke pone al giovane poeta. Potresti vivere senza poesia? Forse sì. La risposta è piana e densa allo stesso tempo. Come la sua poesia che si pone già oltre tutte le grandi questioni poetiche del passato. Grandi sì, ma passate.
Sfere lucide a incastro
Fissa finestra sul mondo
vorrei fosse fessura di cielo
oh mio azimuth
e poi una nuvola
e poi perdermi
segnando tutto.
autrice che non conosco, però eccellente..
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Mi sembra una poesia disorientante ma determinata.
E’ percorsa da una preoccupazione formale che funge da spina dorsale, da direzione: il verso anapestico, analfabeta della prima o quello incongruo di 27.
Attorno a questo si accumula un materiale proteiforme in perenne mutazione, oggetti naturali, frammenti di storie e culture passate, scorci di paesaggi, il tutto da vita a un solo oggetto complesso in moto.
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