essere molti e saline
vive e più mobili
del mare, abitanti
confusi a risalire
all’indietro, ad uno
stile nobile, le antiche
genealogie anfibie
*
in estinzione ma all’alba
risaliti gli ultimi stolidi
esemplari
sulle sabbie non passi
ma strusci di calli nudi
graffiati dallo stesso verso
come pelli –
partoriranno tutti
anche i vecchi
*
fuori l’anno agosto,
preceduto dal lavorio di un secolo
di settimane
la cronaca ufficiale lo annuncia
fino a che non cade, resta
la bouganvilla rossa
intreccia
la stagione totale
*
dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii
vedrebbero popoli morbidi lentissimi
fondersi agli anemoni polipi i tanti
piedi avvinghiati agli scogli
staccarsi, larve sbocciare
in azzurri
dagli astri, gli stessi
continuamente fossili
*
le nostre vite dicembre
sulle isole Pelagie
furono dei pirati
dei Tomasi
feste lente
lingue di lava
pause lunghe un Pleistocene
ciascun erede della casata
sparso alla sua longitudine
se allarga le braccia, se abbraccia
è una cala
entrata naturale
ma come, cosa, chi altri
che l’aria
*
è che a forza di pensare all’Italia
siamo diventati un po’ Italia anche noi
mugola da scorza vecchissima
mugola mucosa
ulcerata dalla plastica
c’hanno visti con le altre nelle vasche
a Linosa all’ospedale
cinquanta chili o dieci o due di carapace
(le bambine più bruciate) in cura dalle piaghe
prega per dio non dal mare
*
tutto questo succede
e in gran rispetto
del sembrare tutti brutti
tutti grigi extraterrestri
bracci lunghi come gambe
scivolando stupefatti lungo
gli altri non sfiorando
che gli spazi
*
tutto questo accade insieme
tutti insieme tutto in una
volta sola mai decisa
sempre uguale ripetuta
posa ciclica di scheletri silice
le metafore specifiche
fatte al tempo delle visite.
E alle sette: si chiude –
tornano le tartarughe.
*

Dichiarazione di poetica. E’ un libro diviso in quattro parti, quattro movimenti per una sonatina sulla fragilità, con un timbro che ricorre su diversi tempi: quelli liberi ed ermetici di “Bagnanti”, ambientato a Lampedusa e Linosa (che non parla dei migranti, ma semmai di noi davanti ai migranti e alla nostra nulla nudità); quelli (quasi) metrici di “Aeroporto” e delle case sfitte di “Vendesi”, nel tentativo, forse vacuo, di tenere insieme lo sfaldarsi di identità o di riversarle in forme di comunità transitorie, quasi insulse, eppure, in un qualche ultrasuono parallelo, ancora vibranti; e, infine, quelli liberi e aperti di “Trenitalia”, rubati a campione dalle conversazioni che origliavo e trascrivevo sulle Frecce che mi portavano da Ancona a Padova e ritorno. Erano parole semplici, fuggevoli, eppure ci sentivo vibrare una speranza. O forse, come ricorda Adelelmo Ruggieri in postfazione, era “un monito”.
Renata Morresi
Ricordo una foto di anni fa: una coppia di turisti in una spiaggia della Spagna che continua a prendere il sole nonostante la presenza di un cadavere. Mi è successo anche, soprattutto in agosto, di sentirmi della specie descritta da Renata Morresi. Alla tragedia di chi, disperato, attraversa il mare, abbiamo dedicato diversi post in questo blog, ma di questi versi ne siamo particolarmente contenti. Non è facile fare poesia su questi temi senza sfiorare retorica e moralismo, l’autrice ci riesce invece magistralmente rivoltando la prospettiva e grazie a uno stile tanto incisivo e controllato quanto ironico e lapidario.
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