
Abdicare ai pensieri
lasciarli al mare
suono che sfibra
di luce le parole,
le muta in onde
in accenno di danza tra le labbra
In piedi sulla riva rinunciare
alla meta, tornare a essere
Essere – puro viaggio d’acqua
che scivola dal cielo
anella l’orizzonte
s’offre in schegge di luce
alla sabbia sorella che le beve
Questa tua finta esterna difesa
eterna come la pretesa del pugno
che vorrebbe trattenere
l’onda. Ma non c’è buco nella sabbia,
lo sai, che possa contenere il mare.
E allora perché t’ostini a scavare?
Se lasci andare resta solo
il grido del gabbiano
che sfrangia l’assenza,
il volo dell’onda che si silenzia
nella riva sorella dell’abisso.
*
Ed entrasti nella stanza
col turbinio delle rondini
che scoperchiano l’alba,
al tuo passaggio le odalische turbate
si sciolsero i turbanti smeraldini
svampiti i vecchi pinguini tolsero
il cilindro e lo smoking d’ordinanza
avevi occhi selvaggi di murena
miraggi d’orizzonte
sulla bocca
il marchio della luna
Quando iniziasti la danza
stridente dei gabbiani
il mare entrò dai balconi aperti
e a un accenno suadente di sirene
t’inanellò di schiuma
t’incoronò delle spine tremanti
del riccio che proteggono l’abisso.
E tutto tornò furia al tuo capriccio
onda demente che si schianta
urlo di rabbia che acceca e intreccia
la trama del silenzio.
E poi fu l’indicibile dolcezza
dell’acqua che nella sabbia scompare
disegnando la traccia dell’assenza
Mente svestita
d’ogni pudore, d’ogni giusto
ritegno, sei solo un foglio
su cui le dita sgualdrine della vita
scarabocchiano marcette marine
che un vento allegro suonerà con le onde.
E allora ballerai di nuovo,
vecchia mercenaria d’anticaglie,
tra i cimbali delle scaglie lucenti
e le rosse trombette delle branchie
sognerai trasparenze di medusa
chiusa nel buio di una conchiglia
fino al tonfo finale,
o pazza mente benedetta,
l’annegare
nel trionfo di campane.
*
Sul mio corpo steso al sole
dalla spalla casca un
ciottolo bianco
rotola lungo la pelle dorata
sfiora la corsa
folle della formica
la lotta del moscerino prigioniero
d’un pelo sulla pancia
si ferma un istante
(immenso brillare)
su un granello di sale
poi sprofonda nel buco
nero dell’ombelico
dove nascono il riso
e la vita
Acqua che mi detti
parole senza senso
dammi almeno il tempo
di vestirmi di vento
di spogliarmi dello scoglio, del peso
di questo foglio sorpreso a scoprirsi
labirinto.
E vinto sarò tuo come la riva
che al tramonto si confonde di spuma
come la cozza che si fonde alla notte
e nell’occhio socchiuso d’ogni valva
si fa alcova all’insonnia della luna.
*
guarda il mare la ragazza con occhi
avidi d’onde e lascia rapide impronte
sulla riva. Entrando in acqua il corpo
freme si tende in un tuffo
scompare. Tutt’intorno s’infrangono
cristalli luminosi.
Resta il buffo
mistero che sorprende i nostri corpi
vascelli sulla terra, alla deriva.
La carpa
nella vasca dei pesci rossi s’aggira
inquieta come una balena in gabbia,
lenta nel labirinto
delle foglie cadute,
è solo un’ombra dorata il suo corpo
fino al guizzo che dal fondo affiora
il suo volto baffuto, gli occhi tristi
di una domanda già dimenticata,
della ferita d’un enigma che resta
muto. Senza sfingi e edipi sapienti
a lavare lo stigma del silenzio.
*
E t’accorgi che tutto brilla
le pietre sulla riva
i cocci colorati di bottiglia
i resti d’argilla le mille schegge
del mondo che spariva
per moltiplicarsi in schegge di mare.
A ogni tuo passo il sole sfibra
i pensieri li rende spazio soffio
voce dell’onde, indizio di silenzio
vento che vibra di canto d’uccelli
dell’assenza che dondola un inizio.
Accendesti di volo
un pomeriggio inquieto
di visi sprofondati
nel limbo d’un tram maleodorante
poi scendesti alla fermata in via Dante,
giusto prima della mia.
Fu uno sguardo
tra le due porte che si chiudevano
il fulgore di un raggio di sole
nell’intrico del bosco.
Mi lasciasti incollato al finestrino
come il gatto che dietro i vetri sogna
d’artigliare l’ali bianche del gabbiano,
che nel vento è già tornato mare.
*
It springs
Vola
nel canto dei canarini
nel guizzo delle rondini
nel salto plastico del grillo
nel tuffo dell’ape al suo letto
di miele
fiorisce in grappoli d’acacia
in tetti di glicine
sboccia dal muro nella follia
della verbena nella ruota
del dente di leone esplOde
in tappeti di gialle margherite
nella voce del torrente che corre al mare
disegna trame di farfalle, le soffia
a profumare il vento
inonda l’erba, inverda i tronchi
d’edera smeralda la montagna
scolpisce la libellula
sulla punta del ramo
stupisce al silenzio
il cosmo d’aghi del soffione
che aspetta zefiro per seminarla
farla nascere di nuovo
Primavera
Prima
Tutta la notte a provare e riprovare
i passi della danza ma al mattino
sanno solo restare immobili
stregati dalla luce
i fili d’erba
*
Alla fine di questa foglia secca
comincia l’orizzonte
Alla fine del maldestro tentativo
d’un uomo pieno di parole
di trasformarle in cosa viva,
di far crescere un orto.
Ma le zucchine hanno bisogno d’acqua
e non di rime, i pomodori di pali
solidi, ben piantati nel terreno
e non di strambe scelte lessicali.
E così il finocchietto
che sa le vie segrete della terra
avanza furtivo tra le deboli
scarole e il cavolfiore.
E le cicorie impietrite svettano
come eucalipti o pini marittimi
tra le lattughe timide,
gli aborti del radicchio.
L’uomo contempla con la zappa tarda
sempre più tarda nella mano.
Il fiore vellutato
del papavero che danza nel vento
annulla ogni speranza, ogni lamento.
Giardino di Paola
I
Non dorme mai la rosa,
dondola nei petali di regale
carciofo le grosse gocce di pioggia
in cui si tuffa a specchiarsi la luna
che spande alla brezza del mare
quel profumo che solo placa le onde
II
Nell’aloe che stende slancia ritira
ritrosa gli sghembi tentacoli alla notte
trova la luna una casa ai suoi raggi
e nelle gocce brillanti di brina
giocano a confondersi le stelle
*
Stranito con la zappa in spalla
mi domando se i piselli reggeranno
il vento freddo se la terra sulla rapa
sarà abbastanza se la patata
americana soffrirà la solitudine…
Quando il silenzio dell’orto s’accende
della voce delle campane,
spunta il crepuscolo come trifoglio
e danzano le scarole arricciate
e le foglie materne della verza,
esplode il canto dei fringuelli
ravviva i rami di rapidi schiocchi
mentre i miei occhi si fanno d’aria,
levati dalla terra
sulle ali dei gabbiani a scivolare
sulle strade del mare.
al centro dell’orto immobile
d’improvviso
trema sussulta guizza piroetta poi
si ricompone – ma è un istante, una
finta, subito capriola molleggia
arpeggia, si mimetizza nella danza
d’ombra e luce (sostanza
che in ogni fibra del suo cosmo vibra)
fino al salto nel vento in cui ridendo
scompare, lo spiritello soffione
*
Stremato di bacilli, streptococchi
autoscontri e influenze virali e verbali
assalito da pullman pullulanti
di automi scrofanti parole
gracchiate in lingue scavate nel sangue
appeso al tubo di scappamento intasato
dall’orge figurative della mente
i piedi mi portano – e un dio, chissà,
finalmente vuoto d’intenti –
a quel cespuglio
dove il profumo dei gelsomini m’inonda
come una secchiata d’acqua santa.
E mi ritrovo d’improvviso sorpreso
dall’abbraccio del mondo.
Di nuovo questa luce
che scende in onde dal cielo
sul mare arruffato di brezza
sulla terra che al colpo della zappa
si spoglia e trema di radici,
del salto dei fili d’erba.
In piedi tra scarole e lattughe
poso il rastrello e ascolto il vento
nel trillo dei gabbiani, nella voce
della campana che riempie l’aria
si fa odore dolciastro e vinoso
pomeriggio di domenica.
Giovanni grida e corre nel vialetto
e svanisce con l’eco dei rintocchi.
Nel silenzio, vestita di vento una mano
si china a raccogliere un mandarino
ancora fradicio di pioggia.
*
Tutto così connesso legato
sincronico unico fuso allacciante
straripante debordante preciso
concreto compreso ricamato intrecciato
zirlato trillato fischiato
allacciato inglobato spaziato
Tutto così insostituibile irreversibile
irrefutabile innegabile inconfutabile
inintelligibile ineffabile inimitabile
intangibile Tutto in perenne
movimento cambiamento cammino
rivoluzione passo onda salto
corsa volo valanga soffio frullo d’ali
fuga nuvola fruscio di libellula
che si posa sul ramo
universo–Tutto canto liturgia
benedizione coro grido lacrima
preludio andante ondeggiante strepitante
sussurrante fuga d’archi che s’inarca
sparge fringuelli gazze e beccaccini
che sull’acqua intrasparentano il nido di
silenzio (e di nuovo
inizia la danza
*
Nell’abbraccio del mondo
Mai come oggi i sentieri dei poeti sono assediati dal vento dell’irrealtà. Infuriando attorno ai loro passi errabondi, questo vento li espone di continuo al rischio di perdersi nell’artificio, nell’irrilevanza, nel caos. Il loro primo compito non può essere, dunque, che questo: ritrovare un legame con l’anima vibrante delle cose, ridare fiato, calore e vigore alle proprie voci, riaccendere in esse le scintille dell’autentico, rigettarle verso la corposità seminale del mondo. Pochi poeti giovani hanno scritto, come Giorgio Sica, testi così intensamente battezzati da una sete ardente di verità. I suoi Versi di mare e d’orto sono un inno alla poesia in quanto esercizio totale del cuore, dei nervi, dei visceri, della linfa e del sangue, in quanto respiro a pieni polmoni nei gorghi del tempo, in quanto scandaglio gettato nelle profondità del possibile alla ricerca di ciò che trema, vortica, vibra attraverso e oltre la fragile durezza della nostra mente. (Dalla Posfazione di Paolo Lagazzi)
Questa poesia sboccia nell’attività quotidiana, ma non in quella dell’astrazione impiegatizia, ma nell’attività più vicina alla terra e al mare, e al cielo della creazione. D’altronde le parole poetiche vanno pescate e coltivate.
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si, ma lo smarrimento epifanico della seconda poesia mi resta negli occhi.
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