Antonio Sagredo: Tre vecchie poesie salentine

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Io vado a Otranto

accigliato come un ossesso

danzando con ninnoli e santini.

 

Sono giunto

alla stazione equatoriale

a sghignazzare coi saracini e i martiri.

 

In questo mare crespato

ossa rossicce

fondano una cattedrale,

il mosaico infernale spruzza alchimie orientali

 

Sono corroso,

scateno vessilli di occhi da 500 anni!

 

La salita di Minerva mi sgrana!

 

Mi sanguinano le bende,

come un pagano esperimento!

 

Idolatria delle fedi!

Mare d’ossidiana!

Fallimenti… senza fanfare!

 

 

 Antonio Sagredo

 

Roma, 1971

 

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Lecce-Praga-Roma

 

 

Come è strano questo maggio, oggi,

dopo che Riccardo ha scritto la sua tragedia.

 

La mia strada fu come la tua: una fuga,

un’intuizione verso un suicido altrui.

 

Il broccato di mogano della tua fronte

è più che un crepuscolo d’altri tempi,

e avrai capito che un verso assetato di assoluto

è la solitudine di uno straniero tra le ombre.

 

Ma non cerchiamo l’astratto, ma un concreto di sangue,

come suoni di cinabro  tra gli androni

bianchi e odorosi di una città barocca.

Città mia, mi si ripete tante volte lo stesso sogno

ed io mi aggiro spaventato tra palazzi e viuzze d’oro!

 

 

Non è una visione, non è un assalto dei Turchi:

temo la devastazione del futuro e dell’oscuro risultato.

Non ho amici, non ho ragazze a cui affidare la mia dolcezza,

che possano intrecciare con violenza una corona di speranza,

ma un ricordo saraceno è quanto mi rimane dalla storia

ed io non posso, non posso numerare le sue pietre nere,

di questo cristo crocefisso ad  un crocicchio!

 

Sono il figlio bastardo della luce verde della mia città,

amaro e acre…

gridano e fiammeggiano gli ateismi di  Cesare Vanini,

perché la luce sia una eterna festa pagana

o una miseria teatrale alla Odin Theatret!

 

 a. s.

 

Roma,  23 /5/1976

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La città

 

 

 Verde nella parola e nell’inganno!

 

Terra del Salento,

squarciata da un freddo cerchio di ciclista!

 

Moresco,

notturno barocco di Chopin!

 

Io t’ascolto e t’amo, io,

esiziale uomo del seicento.

 

Hai le acque chiuse, Madre!

Nostra Signora dei Lamenti,

per finzione!

 

Questa terra: rogo di papaveri

è un ricordo di Vanini!

 

Brillano le giravolte di  astri-giullari!

Torta barocca con pizzi e merletti!

 

Dolce

come un bacio di una frusciante cameriera!

I nostri corpi estivi,

come i raggi assillanti di Ravel!

 

Sempre con dolcezza odio la città.

Farò un giro, una passeggiata di tenerezza per i campi,

ricorderò la pietra rosa che m’incantava,

l’odore degli angeli di cartapesta,

dirò una messa al mio dio: io stesso stravolto dai misteri!

 

Io

portatore di reliquie!

 

Lecce, hai le movenze di una verde puttana!

I chiostri annusano  la testa mozzata di un Oronzo!

 

 

 a. s.

  

Roma, aprile/agosto 1976


6 risposte a "Antonio Sagredo: Tre vecchie poesie salentine"

  1. Ho chiamato queste tre poesie “vecchie” e “salentine” prendendo alla lettera quanto mi ha scritto Antonio Sagredo nella sua mail. Vecchie per Antonio perché scritte tempo fa, ma vecchie anche perché guardano lontano, riportano un Salento che si perde nel mito dei saraceni, della morte che arriva dal mare e ha i colori degli spruzzi delle onde, di sangue zampillante da teste mozzate in una tavolozza in cui aleggia l’anima di Giulio Cesare Vanini, grande pensatore del ‘600, eretico e libertino, morto legato a un palo dopo che il boia gli aveva strappato la lingua e, come comandava la sentenza, lo aveva anche strangolato e gli aveva dato fuoco.

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  2. da una Terra densa di colori, passioni, memoria, il magico Salento, rivisitato da Autore che non conosco ma che sa insinuarsi nei meandri del percettore più che lettore, complimenti sinceri
    r.m.

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  3. La mia strada fu come la tua: una fuga,

    un’intuizione verso un suicido altrui.

    Il broccato di mogano della tua fronte

    è più che un crepuscolo d’altri tempi,

    e avrai capito che un verso assetato di assoluto

    è la solitudine di uno straniero tra le ombre.

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  4. Scusate, il commento non era questo. Non so per quale arcano si sia cancellato, sostituito dal copia-incolla dei versi.

    Avevo, più o meno scritto (cioè avevo scritto di più, ma il senso era questo): un viaggio nel tempo e spazio, ampliati dalle proprie vividissime visioni; il risultato è incantatore. In particolare il mio riassunto di lettore è in questi tre bellissimi versi:

    La mia strada fu come la tua: una fuga,

    e avrai capito che un verso assetato di assoluto

    è la solitudine di uno straniero tra le ombre.

    Grazie, un caro saluto!

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  5. Sei molto gentile, Margherita: meriti una poesia:

    La carneficina di via Veneto.

    Sotto un cielo nerastro le iene seguivano un feretro d’argento,
    scintille dai loro denti come da antichi ferri da stiro spegnevano
    il tramonto e non so quale letania erano le froge e la paziente masticatura
    di teste mulesche… le canaglie graduate amavano via Veneto e la carneficina.

    La contrada dei cappuccini tracimava zoccole, cioce e concette, e purulenti
    rivoli e feniche acque dai miserabili vicoli fino al carcere consolare… l’Appia
    spargeva il puzzo e l’acre incenso, come dai turiboli sui pestiferi altari cristiani.
    Sotto ogni quadratino le reliquie di sedicenti martiri, ignoti – e militi!

    Risibili avanzi ossuti, sacra giostra di cozzi e di miraggi nella sessa oleosa
    di feci equine decretavano sui selciati una condanna di chiaviche assise,
    ma nel dondolio peloso di nere donne la vana cenere delle illusioni… sparlava la mia vecchia, ossessa, con gli occhi tarantolati dalla vita, la divorava la cirrosi

    a due passi dall’arteria! Spente le banderuole, i galletti senz’ugola, cancelli
    in rivolta – rugginoso scricchiolio negato! – come se sulle secchie la grandine
    il diritto all’urlo dei camini il fumo sanguinasse obbrobri di catrame! E me ne stavo io, tranquillo come un morto, sul balcone, con le narici nuziali della bianca
    zagara.

    antonio sagredo

    Roma, 8/9 gennaio 2014

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