Canzoni della Cupa di Vinicio Capossela, ascoltato da Fernando Della Posta

Un disco folk italiano “sudista” di qualità, nell’universo musicale italiano sempre più esasperatamente influenzato da tendenze globalizzatrici neomelodiche e anglofone, potrà sembrare una scommessa azzardata, un lavoro di nicchia, una confezione di sigari di tabacco buono per pochi intenditori. E laddove potrebbe venir meno l’intento del “destinare il proprio lavoro a pochi”, il pericolo di scadere in generi musicali considerati ancora più inferiori come il country cafonaccio da fiera o di sparire nell’oceano nazional popolare, diventa assai grande.

Non è stato questo il caso dell’ultimo lavoro di Vinicio Capossela. Balzato immediatamente al primo posto nelle classifiche nazionali, “Canzoni della Cupa” sembra aver smentito tutto quanto successo finora nell’universo parallelo del folk italiano.

Non è facile spiegare questo straordinario successo, o almeno, dato il poco gradimento del grande pubblico verso questo genere musicale, è sensato pensare che sia dovuto a fattori plurimi e diversificati. Non ultimo il consolidato gradimento verso questo cantautore, che già aveva dato assaggi in passato, del suo voler arrischiarsi in questo tipo di avventura. Si veda il grande successo di brani come “Il ballo di San Vito” ad esempio, datato 1996. Non possiamo dimenticare, inoltre, la recente pubblicazione del libro “Il paese dei coppoloni” e l’uscita del film tratto da quest’ultimo, entrambi legati a doppio filo con il nuovo disco.

Lo stesso Capossela ha dichiarato più volte che si tratta di un album frutto di un lavoro durato ben tredici anni, lungamente incubato e “auscultato” dalla sua vena creatrice. Una vena creatrice che sembra aver mediato al meglio nella sua memoria “d’emigrante” in riferimento agli echi della sua terra d’origine, l’alta Irpinia, quella piccola regione situata a ridosso del Vulture e parte della Lucania storica, e più particolare la città di Calitri, paese dei suoi genitori.

Sono nati così i due capitoli di “Canzoni della Cupa”, “Polvere” e “Ombra”, i quali non a caso prendono il nome dal noto aforisma di Orazio, anch’egli lucano, che si presentano come una vera e propria immersione a trecentosessanta gradi nella tradizione. Una immersione che tuttavia non scade mai nella nostalgia, ma un vero e proprio cosmo altro, in cui le tradizioni e le sedimentazioni della cultura arcaica dell’Italia del sud e contadina vengono incastonate in un mosaico al limite della fiaba, intesa secondo l’opera dei fratelli Grimm o dei contemporanei registi Tim Burton e Hayao Miyazaki.

Ed ecco che in questo mosaico ogni tassello trova un posto ben preciso: le masciare (le mitiche streghe di paese), le mammane, la mammenonne (le bonarie anziane centenarie), il lupo mannaro, le cuccuvasce (le civette), le carovane dei muli che viaggiavano di villaggio in villaggio portando merci di ogni tipo, gli emigrati, i sentieri “cupi” nei boschi, i boschi “animati”, il malocchio, l’amore violento e frustrato, le litanie ai santi, le zitelle, le tanto vituperate quadriglie forsennate che una volta animavano matrimoni e fiere, gli stornelli a dispetto e tanto altro. Non disdegnando nemmeno cenni al mondo del lavoro di quest’Italia considerata “minore” o alla cementificazione e all’industrializzazione, che inevitabilmente l’hanno in parte snaturata e violentata.

Ottimi gli arrangiamenti che, insieme alle ballarelle e agli stornelli, si rifanno al blues e alle musiche cubane alla maniera del Buena Vista Social Club, i quali fortunatamente non oscurano la materia prima e non ne annacquano la provenienza, a testimonianza anche dell’ottimo lavoro di collaborazione instaurato con la cantautrice Giovanna Marini, pluri-premiata artista che da sempre in Italia fa del folk l’unica ragione della sua arte. In molti pezzi, inoltre, ho ravvisato anche diversi echi molto velati del De André dialettale, genovese e sardo, e delle atmosfere di Anime Salve. Davvero un capolavoro! Forse il capostipite di un qualcosa, un genere musicale, che potrà avere un seguito futuro o, se già esiste, un proseguimento con maggiore rilevanza e dignità.

©Fernando Della Posta


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