“… gli angeli suonano le loro trombe tutto il giorno / la terra intera in movimento sembra oltrepassarli / ma nessuno sente la musica che suonano / nessuno neppure ci prova”… Così cantava, stornellava acido e sublime il Bob Dylan di New Morning… Correva, per la precisione, il novembre 1970 – l’anno in cui l’aspro e ormai famoso cantore della nuova protesta giovanile, non ancora trentenne, fuggito sette volte di casa adolescente, e poi vissuto perennemente ramingo, on the road, si ritrova laureato honoris causa dall’Università di Princeton… Precisamente da allora, come ricorda la Fernanda Pivano, ci “mostrò una sua nuova maniera, non più folk, non più folk-rock, non più country and western: di un Dylan ripiegato sulla solitudine e la disperazione, che con l’antica voce rauca propose di vincere alienazione e paranoia tentando di accostare o almeno di non respingere la gioia della vita lontano dalla corruzione cittadina, dal falso eccitamento urbano, dall’inquinamento mortale delle metropoli.”
Poi molta acqua passò sotto i lunghi ponti di tutti i grandi fiumi del mondo – e il cosiddetto cantautorato s’irradiò, si diversificò, si autorigenerò, si conclamò… Il decennio degli anni ’70 fu forse il primo in cui, a livello mondiale, questi soavi o asprissimi ballatisti divennero non mera curiosità per rari amatori, o scelta comunque preziosa, ma merce corrente, materia prima usuale del mercato: insomma ampio oggetto di consumo… Basta scorrere, e limitiamoci ai menestrelli di successo di casa nostra, quelle ormai lontane classifiche degli l.p.; dove spiccano, tra i 33 giri più suonati, nomi già ben consolidati (la mitica Scuola genovese, per intenderci), o del tutto e felicemente nuovi. Gino Paoli, ovviamente tra i primi, torna a pubblicare Le due facce dell’amore proprio nel ’71. E Fabrizio De Andrè fa uscire in quello stesso anno tre dischi presto celebri: La buona novella, Tutti morimmo a stento, Non al denaro, non all’amore né al cielo. Gaber stampa Polli da allevamento nel ’79. Per la generazione successiva, è proprio l’inizio di una tendenza, diciamo di un cult in progress: Francesco Guccini pubblica Radici nel ’72, Le stanze della vita quotidiana nel ’74, Via Paolo Fabbri 43 nel ’76; Lucio Dalla, in collaborazione con un poeta di ruolo come Roberto Roversi, ci dona Anidride solforosa nel ’75, e l’anno dopo Automobili, con quella perla di “Nuvolari”, piccolo frammento melodico e mentale di un vero epos collettivo:
Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari
la gente arriva in mucchio e si stende sui prati
Quando corre Nuvolari quando passa Nuvolari
la gente aspetta il suo arrivo per ore e ore
e finalmente quando sente il rumore
salta in piedi e lo saluta con la mano,
gli grida parole d’amore
e lo guarda scomparire
come guarda un soldato a cavallo,
a cavallo nel cielo d’aprile
I nomi nuovi, che presto sarebbero esplosi, erano Venditti e De Gregori (il loro primo album a mezzi, Theorius Campus, uscì nel ’72), Alan Sorrenti (anche Aria nasce nel ’72), Riccardo Cocciante (Anima, 1974; L’alba, ’75), Edoardo Bennato (I buoni e i cattivi è del ’74), Angelo Branduardi (La luna, ’76; così come Alla fiera dell’Est), il professore di filosofia Roberto Vecchioni (Elisir, ‘76; Samarcanda,’77), Ivan Graziani (I lupi, ’77), Eugenio Finardi (Diesel, 1977), Rino Gaetano (Aida, ’77), Renato Zero (Trapezio, 1977; id. Zerofobia), perfino Franco Califano, il grezzo autocritico viveur di Tutto il resto è noia (’77)… Talenti così diversi, malinconici o divertenti, impertinenti o sbroccati – ma sempre e comunque “autori”, maledettamente autori del loro stesso canto… Lasciamo perciò a parte il discorso di Lucio Battisti, così mediato e guidato dai testi di Mogol, se pure così importante e nuovo per quegli anni, e riuscito col tempo a diventare sinonimo infibrato e campione fonosimbolico di un certo modo di far canzone come racconto, scena sensibile, teatro mentale, lacerto vissuto di un suono che trasmette rimbalza parole come aforismi stessi emozionali. Una recente poesia di Valentino Zeichen “Per Lucio Battisti” (dalla sua ultima raccolta Neomarziale, del 2006), dà conto di questa deriva preziosa, scanzonata, che è al contempo golfo o ripostiglio di interi, minimi orizzonti generazionali:
Anche i poeti che fanno lo stage
nelle torri d’avorio, sull’Atlantico
dove meditano sui millenni,
fischieranno un tuo motivo
come le sirene delle navi.
Non si conosce nostalgia
che non sia da lontananza, fin
dalle frecce preistoriche degli addii.
Perciò le canzoni accompagnano le vite
mentre la buona poesia i secoli.
E sorvoliamo il percorso di tanti gruppi, ben miscelati e aggregati di talenti, dove è più arduo individualizzare la personalità creativa, insomma l’autore: e citiamo en passant l’esempio nobile dei Nomadi, dei New Trolls, del Banco, delle Orme, della stessa Nuova Compagnia di Canto Popolare (Li sarracini adorano lu sole risale al 1974). Finalmente, Pino Daniele, Vasco Rossi, Rino Gaetano, Gianna Nannini, Ivano Fossati, Alberto Fortis; e i Litfiba col loro rock duro, acerrimo e davvero indiavolato…
Paolo Conte, oramai così storicizzato, esordisce in verità con un suo bel ’33 solo nel 1974: Paolo Conte (già ricco di golosi o svogliati classici come “Questa sporca vita”, “Wanda”, “La fisarmonica di Stradella”, “Onda su onda”, “La giarrettiera rosa”). In pochi anni seguiranno Un gelato al limon (’79), Paris milonga (’81), e insomma la celebrità. Ma era già autore noto e riverito per altri (“Azzurro”, “Tripoli ‘69”). C’è comunque aria nuova, e la sensazione di un qualche superamento della bella tradizione degli chansonniers francesi poi così ben imitati, perfino innovati dai nostri Paoli e Tenco, Bindi, Lauzi ed Endrigo. “Paolo Conte è un luogo geografico in cui la memoria e la fantasia si scambiano i ruoli” – scriveva Vincenzo Mollica in una vecchia monografia dell’82 uscita per Lato Side Editori – “giocando con le luci e la prospettiva e sfrugugliando con la gamma delle sfumature esistenti tra il bianco e il nero.” E Vito Riviello, poeta giocoso, non esita a riconoscergli, anzi diagnosticargli, un vivace talento surrealdadaista innestato su melanconico sguardo crepuscolare: “Infatti con un filo alchimistico di cui conosciamo la provenienza riesce a legare lo sguardo degli ascoltatori a sensibili immagini vaganti, in un’atmosfera più dadaista che surrealista. Infatti nell’area dadaista le cose vivono di luce propria, mentre in quella surreale di luce riflessa. Per queste caratteristiche ‘dada’ e per le diavolerie evocative, la ‘romanza’ di Paolo si ascolta, s’immagina ma anche si ‘vede’. Perché la canzone di Conte si può rappresentare non appena è stata evocata. La rappresentazione escogita un tempo presente che sembra reale (in qualche modo lo è), invece è la possibilità dell’inconscio di vivere un’apparente attualità.”
Leggiamo/ascoltiamo il mitico incipit di “Genova per noi”:
“Ma quella faccia un po’ così / quell’espressione un po’ così / che abbiamo noi prima di andare a Genova / e ogni volta ci chiediamo / se quel posto dove andiamo / non c’inghiotta e non torniamo più.” Con quell’inserto seguente strepitosamente visivo, se non visionario: “Macaia, scimmia di luce e di follia, / foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia. / E intanto nell’ombra dei loro armadi / tengono lini e vecchie lavande. / Lasciaci tornare ai nostri temporali, / Genova, ai giorni tutti uguali”…
Le ultimissime generazioni già hanno i loro nuovi campioni, menestrelli del verso. Ma noi fermiamoci, per il momento, alle ultime o alle penultime…
Il brio stralunato e istrionico di Max Gazzè, o le accanite, trasfiguranti metafore di Mauro Bersani (“Il mostro” è una pura, sliricante canzone davvero degna di nota), sono assurti agli onori di ogni aficionado. Vinicio Capossela merita un discorso a parte. Così come in separata sede occorre analizzare certe recenti prove “liriche” di un consumato cow-boy o gringo del rock quale Luciano Ligabue… Molto più ci preme ricordare un altro bravissimo ma trascurato cavaliere, hidalgo tra parole e note, Andrea Chimenti: L’albero pazzo, un album del ’96, resta indimenticabile: “Srotola la mente fragile come carta di riso / calpestata, stropicciata, consumata, lacerata / e unta da mani sporche, senza scrupoli / Carta fragile, da bagnare in acque lacrimose / carta fragile, da stendere sotto al sole / Su cui scrivere belle parole / e notti di tepore / segreti bisbigliati e poi dimenticati”…
Coi Marlene Kuntz siamo in un’area egualmente romantica e irrequieta, ma assai più energica e cadenzata. “Sin dal loro primo lavoro, dal titolo emblematico, Catartica (1994), da cui hanno cominciato a tessere trame noise-rock all’interno di un panorama italiano in caduta libera, convogliando nelle musiche e nei testi quel malessere esistenziale di una generazione che avanzava” annota Max Parri “hanno sempre esaltato una teatralità lirica e concettuale” di marcata, esuberante intensità.
L’odio migliore (’98), Ho ucciso paranoia (’99), Bianco sporco (2005), sono alcuni altri titoli di un gruppo che, sulla scorta dei testi del suo leader Cristiano Godano, lascia davvero il segno quanto a emozione lirica e catartico flusso immaginifico. “Il solitario”, “Poeti”, “La lira di Narciso”, “La cognizione del dolore” (sulla scorta di Gadda), sono in fondo solo parti, schegge, frammenti armonici di un’inquieta, modernissima controelegia, per l’appunto, alla “Bellezza” (citiamo sempre dal c.d. Bianco sporco):
Noi sereni e semplici o cupi e acidi,
noi puri e candidi o un po’ colpevoli
per voglie che ardono:
noi cerchiamo la bellezza ovunque.
E noi compresi e amabili o offesi e succubi
di demoni e lupi, noi forti e abili
o spenti all’angolo:
noi cerchiamo la bellezza ovunque.
E passiamo spesso il tempo così,
senza utilità (quella che piace a voi)
senza utilità (perché non serve a noi)
L’ultimo arrivato, in un panorama nazionale intasato di problemi e proposte, mode consunte e nuove pseudoestetiche, sembra essere proprio Simone Cristicchi, trentenne, capace di vincersi – udite udite – l’alloro sanremese con una canzone dedita alla nobile causa dei malati mentali, della follia come costrizione e umiliazione assoluta… Ma ha commosso un po’ tutti, l’estroso, allampanato ragazzone romano, salito alto su una semplice sedia, mimo di una nuda bianca rosa di spine, con un piccolo, struggente inno dostoevskijano al sottosuolo più tacito e fervoroso, alienato eppure ancora e sempre salvato, fiorito d’ipersensibile: “Ti regalerò un rosa”… Dalla sua esperienza di studio e solidarietà artistica e civile presso il Centro di igiene mentale, è nato anche l’omonimo spettacolo teatrale, un fresco libro mondadoriano (con testimonianze e lettere di “pazzi” rinchiusi per anni nei vecchi “manicomi”), e un ispirato film-documentario, Dall’altra parte del cancello.
Avremmo voglia di recitargli, in assonanza concreta e ideale, una delle ultime poesie del povero Bruno Lauzi, cantautore storico scomparso da non molto. Ma una poesia vera, non una solita canzone. S’intitola “Redde rationem”, e faceva parte di un volumetto alquanto struggente, Riapprodi, edito nel 1996 da Laura Rangoni Editore:
Ma prima o poi
dinnanzi a voi verrà
l’uccello lira
della verità:
comparirà dal vostro
teleschermo
o inaspettato
da un foglio di giornale…
dalle stanze più interne
della casa
correranno curiosi
i tuoi bambini
cui quel canto sgraziato
farà male
però comunque l’incuriosirà…
chiederanno: “Papà,
cosa vuol dire?”
E tu dovrai tacere.
E non morire.
Lasciamo dunque da parte l’eterna querelle sul valore o meno poetico delle canzoni, e sulla possibile, impensabile assimilazione tra cantautori e poeti, poesia istituzionale, cosiddetta e cartacea o al contrario mera, agile poesia da cantare… Tutti temi scomodati e sciorinati fin dai tempi aurei di Jacques Prévert – con esiti alterni, alterni equivoci e alterne mistificazioni. Valga perciò, a sgombrare il campo da inutili polemiche e aciduli luoghi comuni, il parere ci sembra equilibrato, e finalmente non pregiudiziale, di Maurizio Cucchi, noto poeta di ruolo, e tifoso/amatore di Paolo Conte e dell’arte speciale della canzone: “…il corpo di lei mandava vampate africane, / lui sembrava un coccodrillo / i saxes spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga / …da lei saliva afrore di coloniali… Ecco, rigato, il testo che scende, deriva dalla musica, dal suono dell’epoca, dall’epoca filtrata affettivamente attraverso la memoria del cantante (dico qui, cantante nel senso più letterale e alto, di colui che canta in modo attivo, s’intende, non certo nel senso di pura voce interpretante). Arte speciale la canzone. Il cui discorso, per Conte, torna perfettamente, come tutt’uno – se ben fatto, inscindibile – di parole, musica, voce (la quale ultima è in sé sintesi di parola e musica). Non c’è bisogno di chiamarlo poeta, non ha bisogno di una falsa aureola in più. E poi sono cose diverse. Chi non lo sa è noioso, petulante, tremebondo; e non vuol bene alla canzone…”.
Plinio Perilli
Grazie a Plinio per questo suo scritto di qualche anno fa che torna quanto mai attuale vista la diatriba sul nobel a Dylan. Sarebbe bello sentire cosa ne pensano i lettori di neobar. Per quanto mi riguarda, giustissimo riconoscere la poesia dei cantautori, che per molti di noi hanno rappresentato la poesia con cui siamo cresciuti. Giustissimo e meritatissimo il premio a Dylan, di cui ne riconosco da sempre la grandezza. Anche se confesso di non averlo mai amato particolarmente (non l’ho mai ascoltato per giornate intere per intenderci). Per quanto riguarda i menestrelli di casa nostra, d’accordo invece con Plinio su De Gregori (e ammetto che senza Dylan non avremmo mai avuto De Gregori), il primo Venditti, Guccini, Conte, Daniele, Bennato, Graziani. Aggiungo Ron, Lolli, Kuzminac, Capossela, Testa; ma su tutti un gradino più in alto (fino al cielo) rimane lucio dalla.
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Anch’io non mi scandalizzo se un cantautore prende il premio Nobel, sicuramente la sua opera può essere letteratura, però è necessario stabilire una corretta nomenclatura, all’interno della letteratura si può aggiungere la casella Canzoni accanto a Poesia, Prosa e Teatro.
Voglio dire che sarebbe sbagliato considerare tout court una canzone come una poesia.
Non parlo di Dylan del quale conosco un pugno di canzoni, ma non l’intera opera .
Penso a De Andrè, uno dei cantautori da me più amati, ho tutta la discografia e ho sentito parecchi suoi concerti negli anni 70 e 80. Mi sorgono subito però dei problemi “filologici”, ad esempio il testo di Carlo Martello è di Paolo Villaggio, sono di Massimo Bubola i testi delle canzoni sul “West”.
Anche tanti testi di Dalla sono di Roberto Roversi.
Una canzone è composta da testo e musica che possono avere autori diversi, ma la canzone è un’unità, il concetto di autore è quindi diverso, spesso è un’equipe.
E poi c’è l’interpretazione, una canzone di De Andrè cantata da un altro non è la stessa cosa.
Bisogna anche capire criticamente cosa si giudica ed eventualmente si premia, dando a ciascuno il suo.
Penso che testo e musica di una canzone si sorreggano a vicenda, traendo forza l’uno dall’altra, e che analizzandoli separatamente perdano molto. Ad esempio se leggo i versi di “ Bocca di rosa”:
E alla stazione successiva
Molta più gente di quando partiva
come fosse poesia, dovrei dire che sono versi orrendi. La canzone è splendida.
Ho recuperato qualche mese fa dalla casa dei miei genitori un vecchio libro con i testi delle canzoni di Claudio Lolli che avevo preso da ragazzo, Lolli è un altro cantautore che mi piace tantissimo, ma leggendo questi testi come fossero poesia, mi sono apparsi subito piuttosto deboli.
Per questo penso che le canzoni debbano essere chiamate canzoni , e magari letteratura in quanto canzoni.
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Ciao Giancarlo. Come ho fatto a dimenticare De Andrè? Ma ce ne sono anche altri ancora a partire da Modugno! Certo, c’è il discorso che non sempre i cantautori sono autori dei loro testi. Dalla deve a molto Roversi anche se poi raggiunge dei grandi risultati anche con i suoi versi, come appunto con Come è profondo il mare. E’anche vero che i versi di una canzone a volte deludono se separati dalla musica. Lo stesso De Gregori, ad esempio, lo ha detto a proposito della Donna Cannone con tutti i suoi “futuri”. Ma è anche vero che i testi di Dylan appaiono già da anni in antologie scolastiche, e versi di altri cantautori possono reggere benissimo anche se solo letti, penso a Leonard Cohen (Dance Me to the End of Love, Come Healing, In My Secret Life), che ho seguito più di Dylan, ma anche Sting (The Secret Marriage, Fragile, Englishman in New York) e tanti altri, così come, per ritornare a Dalla, funziona benissimo leggere L’anno che verrà, Anna e Marco, Meri Luis e L’ultima luna come solo poesia.
Sting – Fragile
If blood will flow when fresh and steel are one
Drying in the colour of the evening sun
Tomorrow’s rain will wash the stains away
But something in our minds will always stay
Perhaps this final act was meant
To clinch a lifetime’s argument
That nothing comes from violence and nothing ever could
For all those born beneath an angry star
Lest we forget how fragile we are
On and on the rain will fall
Like tears from a star like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are how fragile we are…
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Non riesco a capire come si possa discutere sul come un cantautore e/o autore di testi in forma di canzone non sia considerabile quale poeta e/o letterato! Ricorderei solo, a fronte di poco utili polemiche sul Nobel riconosciuto a Bob Dylan, che, in tempi arcaici, la recita delle Liriche era accompagnata dal suono delle lire ed erano più (probabilmente) cantate che recitate, Sappho docet! Insomma riterrei che solo la QUALITA’ possa essere il discrimine tra canzone/poesia e non mi sembra poco.
R.M.
ps: Sul cantato-recitato, poi, tanto ci sarebbe da discutere prima, auscultare poi!!
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E’ da tanto tempo, da almeno un decennio, che si parlava di una possibile candidatura al Nobel di Bob Dylan. E ne sono stata sempre convinta.
Non farei distinzione tra testo e poesia, in questo caso (e sono molto critica da questo punto di vista), perché Robert Zimmerman aveva già deciso quale strada intraprendere insieme alla musica: seguire umilmente la lezione altissima di Dylan Thomas.
Ora: Dylan Thomas non poteva avere epigoni, così come altri GRANDI poeti. Tenendo conto di ciò, non possiamo restare indifferenti alle *parole* di Bob, che hanno costruito un’epoca e temprato diverse generazioni, trasformandole in sensibilità e coscienza civile… Indicare il senso più profondo della Pace, dell’unione, dell’impegno quotidiano verso i derelitti e il rispetto per gli umili. Anche questi erano i temi delle sue ballads.
Non entro nel merito di polemiche. Non mi interessano per la loro sterilità.
Un abbraccio,
Nina*
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Bob Dylan ha scandito con a sua musica e forza poetica impetuosa stati importanti della mia giovinezza, ne ho sentito subito la forza di protesta sociale, ma anche l’energia di una parola che innervata di musica apriva emozioni e testimoniava sete di cambiamenti interiori e non solo sociali. Un cammino verso la poesia dunque che trovava modelli illustri nel passato già alle soglie del mito, Orfeo docet e nel tempo moderno la suggestione di vari chansonnier. Un poeta è colui che dice attraversando lo stupore semplice della parola e per questo è fabbro insonne di forma e cesella la semplicità tentando, rischiando, riprovando sulla tela dell’anima e sulla carta del cuore l’accordo più vero, il tralcio di sangue di sé. Plinio Perilli, nel suo ampio saggio, offre da par suo, una bella orchestrazione storica e sinestetica del mondo dei menestrelli del vento di cui oggi Dylan incarna magistralmente il… Whitman con la chitarra, Il neo premio Nobel è oggi più che mai voce di poeta ma sovrano di solitudine che attraversa i fields dell’ America e ci regala scintille e lacerazioni di storia in testi intensi che spingono a cercare la voce popolare e profonda dell’ America migliore.
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Ben venga il riconosciutissimo merito al “vecchio Bob”, ovvero il grande Bob Dylan, con il Nobel che da illo tempore dovevano assegnarli.
Nell’ultimo suo concerto l’ho visto, finalmente, sorridere (cosa rara), gli avevano già dato il Nobel, il concerto in questione è il Desert Trip del Festival dedicato ai pilastri del rock. Il Bardo di Duluth è stato il protagonista, insieme ai Rolling Stones, della prima serata del secondo weekend del Desert Trip e, appunto, se la rideva! Mick Jagger ha ringraziato Bob Dylan per aver condiviso il palco, per la prima volta, con un premio Nobel, aggiungendo che “Bob è come il nostro Walt Whitman e che nessun altro meritava il premio più di lui” e, aggiungo, se non altro per il suo impegno politico, sociale, come l’altro genio di John Lennon.
Questo tipo di cantautori li definisco “poeti in musica”, come nel bellissimo scritto di Plinio Perilli appaiono i nomi dei cantautori italiani dal grandissimo Fabrizio De Andrè a Lucio Dalla, da Francesco De Gregori a Francesco Guccini , da Pino Daniele a Rino Gaetano, da Lucio Battisti a Paolo Conte e dal contemporaneo Max Gazzè a Vinicio Capossela e, aggiungo io, da Franco Battiato a Michele Salvemini in arte Caparezza etc. etc. abbiamo un notevole materiale da ascoltare, che ci ha accompagnato negli anni, in momenti da ricordare, come pure in quelli da “dimenticare”. se poi ai testi (poesia) ci aggiungiamo le note è fatta, perché la musica arriva direttamente all’anima, dato che è senza filtri, tocca corde nostre molto profonde e alcune canzoni, come certe poesie sono indimenticabili ed eterne.
Asupta Gabriella Greco
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Bob Dylan non è la stessa cosa, non è paragonabile. Senza togliere nulla ai cantautori che hai citato, caro Pliniooo, vorrei solo contradirmi dicendo che: a. i valori artistici non sono paragonabili.
b. ma Dylan eccelle, è un’altra cosa.
Sono d’accordo con te, quando affermi che D, ha attraversato tutte le etichette per diventare se stesso e bussare senza vergogna sulla porta del paradiso, (qualunque cosa essa sia).
Knock knock knocking
On Heavens Door…
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In seguito alla III edizione del concorso letterario on line “In linea con la Poesia” organizzato dalla rivista Poeti e Poesia, ed al reperimento di un notevole numero di testi di elevato valore, la casa editrice Pagine di Roma ha deciso di continuare la ricerca di nuovi talenti letterari con un’iniziativa che mira a pubblicarne le opere.
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