Tu carne,
anima, sangue,
il posto
più bello e lontano
dove sia mai stato.
Alì impara l’italiano leggendo i necrologi –
si esercita davanti ai manifesti;
negli spiazzi muti di periferia
non giocano bambini
lì ragazzi con occhi da vecchi
danno il culo per mangiare.
Del primo uomo
conservo l’immagine di me
che si rimette a posto i capelli
riflesso nello specchietto di un’auto.
Da quella notte non riesco più
a farmi toccare la testa,
ogni volta mi tiro indietro
balbetto scuse;
così macella il mondo
senza spargere sangue
in un silenzio dove niente
riporta indietro dalla morte.
È come l’amore
desiderio invincibile
e ogni giorno
devi aumentarne la dose
per poterla sentire.
Stefano vene butterate
getta via la lista
di mense, docce, dormitori
ché lì non puoi farti.
Orfano di luce, l’angiporto
non dirà addio all’inverno;
il vento decapita le parole,
Genova incagliata
nave senz’ancora
del tuo sale
le nostre lacrime,
solo da morti
avremo meno freddo.
Piegarlo su un lato
che non soffocasse
del suo vomito;
il sogno guarirlo,
ripresosi la certezza
delle botte ovunque.
Odio il bene
voluto a mio padre
e odio odiarlo;
con la bocca piena di sangue
per terra in cucina
sono ancora quello che fissa
sulle piastrelle rotte
l’impossibile fuga
di rondini dipinte.
La tomba di Claudio
è lapide nel fango.
In tasca la sua ipodermica –
per farmi non uso altro;
uccidere la morte
penso questo su ogni buco.
In riformatorio a mio padre
sfondarono i denti
perché non mordesse
mentre succhiava;
con me ha fatto lo stesso,
sussurro soffocato
che non arriva a parola
solo nell’eroina
non tremo
davanti alla vita.
Se quando esci sei solo
torni a rubare;
corpi annichiliti
sordi a ogni cosa
ti scarcerano a mezzanotte.
Alle pensiline di Marassi
Stefano senza denti
si mastica le gengive;
il desiderio è essere
dimenticati dal mondo,
infiniti nessuno
per sempre cadere
niente nel nulla.
Un frigo traboccante di cibo
così immagino una famiglia felice;
il nostro era vuoto, spento,
ché almeno risparmi corrente;
a quindici anni per i servizi sociali
sei causa persa, da adulti
il nome è lavoratori svantaggiati
convocati a chiamata su strade, bagni,
culi da pulire.
Aveva ragione Stefano,
undici centimetri
la circonferenza del braccio;
solo l’eroina
realizza il sogno più grande
“togliere alla morte il senso”.
Cristina vende i capelli
e il suo latte materno,
da cena ci spartiamo
una latta dei cani;
intuire la verità
è peggio che saperla,
amore della morte madre
ti prego stringimi
facendo di me l’istante
di un tuo bianco frammento.
Lo hanno messo nell’ultima stanza
in fondo al corridoio di medicina
dove abbandonano chi non ha più speranze.
Al di là delle finestre
gli alberi affrontano il vento
sbattendo contro il cielo
come falene alla ricerca di luce.
Non c’incontriamo da tredici anni,
ma sei dentro me
nel modo in cui tiro su col naso
nella cura delle scarpe pulite
o quando allungo la minestra con il vino.
Ho coperto di tatuaggi
le cicatrici che mi hai lasciato,
non c’è rivincita nella tua malattia
è l’istinto d’amore
che rende questa gabbia,
la vita, un carcere inespugnabile.
Quando moriremo
morirà anche ciò che è successo;
e in questo ospedale
dove tra pochi istanti
sarai solo il penultimo
ad essersene andato
ti asciugo la fronte
perché sei mio padre
ed io per sempre
tuo figlio.
Fuori dal San Martino
dimesso da un’overdose
mia sorella mi abbraccia,
mi stringe a sé
tentando di tenermi insieme
come quando si cerca
di trattenere l’acqua
con le mani a scodella.
Testi tratti da “Cosa resta”
(puntoacapo Editrice 2015, prefazione di Mauro Ferrari).
*
tre inediti:
La resa delle onde
nel farsi mare calmo
l’ultima supplica-
morire di te
in un’innocenza d’infanzia.
Derubare, uccidere
uno di questi volontari
le loro buone azioni
che credo solo nel bucarmi;
è il silenzio che mi toglie
il tuo darmi un nome
che non c’è niente
dove gli occhi ancorare.
Morire sorriso di madre,
la morte della vita rumore-
lembo d’amore
e compassione.
Che poi ti danno la coperta
il sapone, l’asciugamano
quasi a farti sentire in debito
quelli della Caritas
che dietro hanno Gesù Cristo,
il culo al caldo.
È la coscienza del dolore
noi già morte creature-
la bellezza di morire
per mettervi a tacere.
Come mio padre
scopami di stupro,
e d’amore sfamami;
sino al per sempre-
quando non si è più niente
“… Con la luce rastrella lo spazio, seziona il dettaglio abbagliando il particolare e poi lo soffonde spegnendo la rabbia sullo squarcio, sulla ferita, trasformando l’atroce in abbraccio, accoglimento, infinita coesione, amore inatteso. La particolarità dei testi, così puliti e scarni che sanno raccontarsi con pochissime parole, è il suo avanzare disarmato, munito di grande sincerità che si offre senza scudo. C’è sentore di forte pulizia immaginale percorrendo i suoi versi che congela le ambientazioni alla torcia di una potente proiezione razionale, abile a frammentare (paradossalmente) anche il più piccolo cono d’ombra. Una specie di volontà kamikaze capace di puntare/allargare un faro indagatore ed essere/divenire allo stesso tempo carta assorbente per una materia che così scioglie i suoi grumi più duri, in una liquidità d’emozione cruenta e travolgente, come la verità, la poesia”.
Doris Emilia Bragagnini
*
Enrico Marià è nato nel 1977 a Novi Ligure (AL) dove risiede.
Ha pubblicato le raccolte: “Enrico Marià” (Annexia 2004); “Rivendicando disperatamente la vita” (Annexia 2006); “Precipita con me” (Editrice Zona 2007); “Fino a qui” (puntoacapo Editrice 2010 con prefazione di Luca Ariano, II ristampa); “Cosa resta” (puntoacapo Editrice 2015, prefazione di Mauro Ferrari). Nel 2013 è stato inserito nel censimento della giovane poesia italiana dai 20 ai 40 anni compilato da pordenonelegge. Nel 2016 invece è stato selezionato per “ Il Fiore della Poesia Italiana” opera in due tomi che scansiona la poesia italiana dalle origini a oggi. Suoi testi compaiono su riviste, antologie, siti web e blog alla stregua delle recensioni delle sue opere.
E già “Alì” lo richiama, Pasolini. Quell’Alì dagli occhi azzurri che qui “impara l’italiano leggendo i necrologi”, in uno spiazzo di periferia. E la periferia, la borgata di Pasolini, torna a parlare con la cruda purezza dei corpi, in quello stile confessione che si sbarazza dei perbenismi. Una lingua tutta nuova che Pasolini ci ha lasciato e che in Enrico Marià si fa più scarna conservandone tuttavia la forza incisiva: “Odio il bene/ voluto a mio padre/ e odio odiarlo;/ con la bocca piena di sangue/ per terra in cucina/ sono ancora quello che fissa/ sulle piastrelle rotte/ l’impossibile fuga/ di rondini dipinte.” Questi versi, in particolare, li trovo di una bellezza disarmante: il muro che ci troviamo di fronte, con “piastrelle rotte” e le “rondini dipinte” – immagine del decoro di una cucina che perde i pezzi – riduce le impossibili vie di fuga. Tramortisce, fino a sentirne “la bocca piena di sangue”, l’esistenza estrema che viene a configurarsi. L’eroina che piega il corpo e continua a sottrare il resto, fino agli affetti, e quel bisogno lancinante di tenere insieme i cocci rimasti: Fuori dal San Martino/ dimesso da un’overdose/ mia sorella mi abbraccia,/ mi stringe a sé/ tentando di tenermi insieme/ come quando si cerca/ di trattenere l’acqua/ con le mani a scodella.
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