Sotto Vuoto poesie trascelte di Monica Guerra (ed. Il Vicolo)
“Da questo poco sospeso
tutto si fa chiaro e ogni cosa sta
nell’esattezza del proprio posto” … Monica Guerra da Sotto Vuoto
Monica dipana due filoni precisi. Quello più personale e autobiografico con la definizioni di figure compiute nel suo passato. Quello dell’osservatrice, e cos’è il Poeta se non il migliore osservatore al mondo! Momenti familiari, il senso di appartenenza (badate bene, non di nostalgia!) per il mondo che l’ha vista crescere, prima bambina, poi ragazza, poi donna, e il viaggio in Russia che l’ha maturata e segnata in senso positivo.
C’è una forte, positiva tensione tra Monica e il mondo culturale e poetico russo, non dimentichiamo che l’autrice conosce bene inglese e russo, il che la avvicina a un mondo poetico molto più cosmopolita. Quando parla di quel “grande freddo”, i suoi versi raggiungono momenti di particolare, intensa drammaticità. Sfuggono al diario, diventano osservazione, hanno un dentro e un fuori.
Si capisce come sia l’esperienza quella “comare” con cui fare i conti e a cui rendere conto, e da essa ripartire verso un mondo sempre nuovo da guardare con gli occhi stupiti di una bambina. E’ la capacità di sapersi meravigliare, del non dare mai nulla per scontato, il rifiuto completo della patetica nostalgia di qualcosa o per qualcuno che non è più, ed e da questa inaspettata, tagliente, grinta che l’autrice riparte verso quello che forse non è più un mondo nuovo, ma un mondo che sicuramente ancora le offrirà slancio e spunto per definire ispirazione e poesia. Flavio Almerighi
1) nella stessa lontananza (pg. 14)
Vicinanza e lontananza sono termini legati alla sfera spaziale, ruotano attorno alla fisicità, alla presenza o all’assenza, ma in una relazione di coppia caratterizzata da una distanza, tanto abituale quanto inevitabile, assumono, nel tempo, sfumature più liquide. Il mio “Amarsi” si nutre del ri-conoscersi nella reciprocità della mancanza, una brama nostalgica che appartiene a entrambi nel medesimo momento e in cui, emotivamente uniti, ci si rispecchia.
2) io che scivolo un valico la poesia (pg. 22)
Il mio nerobuio del tunnel, il mio universo sottosopra, quell’unico varco solitario da cui riesco a scorgere un barlume di senso: la caduta libera nell’autentico mondo del profondo e poco importa la misura dell’abisso che si trova sul fondo, il centro esatto è Poesia.
3) che la bellezza non è fissità (pg. 24)
La fissità è l’antitesi della vita, un tentativo umano di rendere immobile ciò che immobile per sua natura non è, lo sforzo vano di cristallizzare qualcosa per timore di perderlo. Salpando dal conosciuto si teme, talvolta, di smarrire qualcosa di sé, il non conoscere sfida il non riconoscersi. La Bellezza è un’armonia costruttiva e dovrebbe essere accettata e celebrata entro la sua stessa variabilità. Inscindibile dalla fisarmonica del buono la bellezza è, a mio avviso, autenticità metamorfica.
4) e noi, stranieri, a casa (pg. 31)
Casa è ciò che porto con me, per giungervi devo sgombrare il superfluo, rinunciare alla pretesa della protezione di un qualunque recinto. L’essere straniera in una landa sconosciuta mi conduce nei meandri rarefatti dell’intimo, attraverso una preziosa mappa dell’animo. Nella precarietà dell’inconsueto sono soltanto io, le mie mani nude, le mie nude risorse a fare di me, entro i miei limiti, la miglior dimora possibile. Giungo a casa dallo spaesamento.
5) il riflesso che incalza, vuoto a rendere (pg. 39)
Il paradosso di un’indicibile solitudine su un treno gremito.
Il paradosso di scrivere dell’indicibile.
Il paradosso del riconoscermi in quell’unica forma destinata a deperire.
Non prenderti così sul serio,
sussurra il mio riflesso dal velo bianco del finestrino,
la verità lì non esiste e la giustizia è parziale.
Non prenderli così sul serio,
nel loro vacuo rumore, sul binario
chiacchiericcio estenuante del nulladire.
Sfila muta la neve a imbottire l’intercapedine.
Sono vuoto a rendere,
questi quattro connotati
in cui ora mi riconosco.
6) le ginocchia negli spigoli della stazione (pg. 43)
Una metropoli in cui tutto appare candido e trionfante, nelle larghe strade non c’è traccia di povertà se non qualche inappropriata, sporadica, emanazione che fuoriesce dai buchi della stazione. E giù due manganellate, una divisa, quanto basta a contenere quattro moncherini mendicanti uno sguardo. Un tombino o un coperchio. Non essere visti o non esistere?
7) una luna resiste imprecisa (pg. 47)
Qualcosa resta, seppur calante o crescente, ciclico e mutante, comunque in sostanza resta. Al di là del nostro comprenderlo o non comprenderlo. Al di sopra di noi. Resta ciò che rappresenta, ciò che simboleggia, ciò che ci travalica. L’alba sale e la luna, piena di grazia, indossando il cielo si maschera. Qualcosa sta, al di là dei nostri umani limiti che corrompono la vista.
8) tutto si fa chiaro e ogni cosa sta (pg. 51)
All’improvviso, inciampando nel verde curvilineo di fronte al mio piccolo terrazzo, con i sensi pacificati dalla cornice dei miei luoghi, ogni cosa trova l’esattezza del suo posto. Come se, dopo tanto buio peregrinare, una piccola lanterna illuminasse il quadro a giorno. Sono qui, dentro di me, una luce minimale, al posto giusto.
9) nello spicchio l’interezza (pg. 52)
Tutta la complessità del macrocosmo sta comodamente ripiegata entro la piccolezza del micro. Dall’analisi di uno spicchio emerge la misura esatta del tutto. Proporzione? Geometria? Forse solo dal Noi si può intendere e convalidare l’io.
10) un folto di strofe il silenzio (pg. 54)
Alcuni luoghi ci parlano. Il viale del mio paese è uno di questi. Ricordo un passeggiare silenzioso, eppure denso di rumori di vita vissuta. L’eco dei passi accumulati nei secoli, il fiume che borbotta nel sottofondo, le campane a scandire la morsa del tempo, una donna che sbatte una tovaglia a quadri su un cortile, il cigolio di una carrucola che agita le lenzuola stese ad asciugare. Il concerto autentico della vita nella dimensione poetica del silenzio.
11) noi, qualcuno, qualcun altro? (pg. 57)
Ogni uomo, da solo, non vale quanto singolarmente varrebbe se unito agli altri. Viviamo in un tempo di buchi e di tane, all’interno dei quali ognuno si crogiola e impera. Ego tronfi e deliranti, pensieri ristretti in logiche individuali e cuori in isolamento. La vita prescinde dall’uno, se quell’uno non riconosce in sé il seme del Tutto.
12) la foglia viva che mi distoglie (pg. 61)
Amo stare all’aperto, passeggiare, annusare, filtrare la vita attraverso i sensi. La natura mi ripaga con l’ineguagliabile moneta del colore. Il Bianco e il nero sono l’eterna dicotomia dell’umano, la corda tesa a mezza via su cui il bipede funambolo, barcollando, tenta di rimanere. La foglia viva (e verde) mi spalanca l’orizzonte, rappresenta una categoria non esauribile nel principio della dualità. Armonia e non dominio.
13) muto che da solo vale tutto (pg. 70)
Io che amo le parole. Io che ho atteso una frase d’amore tutta la vita, in un mare di assenza genitoriale. Io che ho avuto, da adulta, il privilegio di un solo e unico abbraccio paterno. Il gesto muto che supera il limite di ogni eloquenza.
14) (che sia più preciso dell’orologio?) (pg. 71)
Il tempo dei ricordi non è lineare, spesso s’inerpica e s’invola, talvolta s’incastra. Per quanto possa essere confuso e instabile, divine un’isola di salvezza, specialmente nella vecchiaia. Sul bordo del letto mia nonna piangeva una fuga di casa, avvenuta quarantaquattro anni prima. Prima che io nascessi. Il dolore è uno strumento affilato e ben più preciso dell’orologio.
15) nelle pause delle nostre differenze (pg. 72)
Distanziare, contestare, esasperare le differenze -finanche le diffidenze- conduce in una terra di desolazione. Solo sospendere il giudizio e capire che l’altro da noi non è altro che il frutto di una vita diversa. Mettere in “pausa” le differenze significa concedere e concedersi l’opportunità di costruire, di stabilire un rapporto autentico, rinunciando a pregiudizi e convenevoli.
Monica Guerra è nata a Faenza il 4 ottobre 1972. Ha pubblicato le raccolte monografiche Raggi di luce nel sottosuolo (Albatros 2013), Semi di sé (Il Ponte Vecchio 2015), Sotto Vuoto (Il Vicolo 2016) e il saggio Il respiro dei luoghi (Il Vicolo 2014) scritto a quattro mani con il sociologo Daniele Callini. Vari articoli e poesie sono presenti all’interno di riviste letterarie e antologie contemporanee.
Molto bella l’idea di Flavio di intervistare dei poeti senza fare delle domande ma suggerendo dei titoli di loro poesie, lasciandoli liberi di parlare e, come succede in questa ispirata intervista a Monica Guerra, dare il la per qualcos’altro, che va oltre il semplice commento o riflessione sulla propria poetica. Come a provare che una poesia non si esaurisce mai, ma è fonte che continua a sgorgare. Mi è particolarmente piaciuta questa definizione di Flavio: “Musica è il suono stesso dell’involucro sotto vuoto che protegge l’anima, il ricordo, le radici, qualsiasi cosa, che spaccandosi produce suono.” E la poesia non è altro che il tentativo di ricucire cocci… saldare spaccature, ferite, lacerazioni. Come confermano anche le risposte di Monica Guerra, che aggiunge delle riflessioni molto profonde sull’essere stranieri, sui nostri limiti e solitudini… Non avendo nel mio caso letto il libro, non mi resta che immaginarmelo dalle risposte alle non-domande poste. E chissà… questo potrebbe essere un modo per farci venire veramente il desiderio di leggere un libro.
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Grazie a Neobar per la pubblicazione e grazie a Flavio Almerighi per l’opportunità di scrivere questo pezzo. Un’intervista rischia spesso di scivolare nel banale, nel consueto o nel troppo personale, questo format, invece, consente all’autore di compiere un lavoro di scavo attorno ai propri versi…beh l’autore non metterebbe mai la parola fine a tale significativo lavoro: dal parlare dei versi nascono nuovi versi, un processo che si espande e che si autoalimenta.
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in senso generale (basti guardare come va il mondo) *dissento* leggermente circa lo stare di ogni cosa “al proprio posto esatto” – tanto che mi viene da scambiare le varie quantità, ottenendo “da questo tutto sospeso / il vuoto si fa chiaro ed ogni poca cosa sta / nell’esattezza del suo posto”. comunque, *sento* volentieri la musica (come ben nota Flavio Almerighi) e la musicalità è molto se non tutto in poesia (concordo sulla tristezza delle verbosità similprosa nella poesia più o meno contemporanea… eccheccazzo, già la poesia è una nicchia angusta, se poi financo la defraudiamo della musicalità, cosa resta a demarcarla dalla prosa?)
: ))
quindi bene, prima di tutto perché Monica Guerra scrive di “autenticità metamorfica” con intensa musicalità emotiva.
ma bene, oltretutto, anche perché Monica Guerra non solo possiede quella schiettezza provinciale con cui entro facilmente in risonanza (vedasi le borse della spesa di “in provincia”), che potremmo definire anche come “capacità di sapersi meravigliare” (sottolineata dal prezioso commento di Flavio), ma ha scritto il verso “e due posteri a dire sguaina la foto” che già da solo me la fa amare.
geniale, da ultimo, anche il formato di questa pseudo intervista, che se non ho capito male, prende le forme di brevi considerazioni a partire da versi scelti qua e là da Flavio Almerighi tra le poesie dell’autrice. tra tutte, nota particolare per le righe evocate da “ginocchia negli spigoli della stazione” (altro bellissimo verso), che si chiudono con la domanda retorica la cui risposta si ottiene sostituendo “o” con “è” (non essere visti è non esistere).
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Grazie di cuore per questa approfondita riflessione sui miei testi (editi e non). Eh già, colpito nel segno, quello spostamento di o/e era proprio voluto così, ho lasciato la domanda aperta ma in realtà la constatazione era proprio chiusa, non essere visti equivale a non esistere. Grazie davvero.
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Grazie di cuore per questa approfondita riflessione sui miei testi (editi e non). Eh già, colpito nel segno, quello spostamento di o/e era proprio voluto così, ho lasciato la domanda aperta ma in realtà la constatazione era proprio chiusa, non essere visti equivale a non esistere. Grazie davvero.
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