ed eccoci giunti a Marzo, con la tipica freschezza della primavera a vivacizzare le nostre prosenze inquietanti. non so dirvi molto dell’autrice, Annapaola Paparo, se non che sembra umanamente affabile (qualità rara tra gli artisti geniali) e che l’ho conosciuta sul blog letterario “degli italiani all’estero e nelle altre galassie” scribacchini in fuga
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Dopo aver perso la trama alcuni mesi fa, ne ho trovata una nuova di zecca sotto il letto. Sono ancora indecisa su cosa farne: un romanzo, il soggetto di un film d’azione o d’animazione, uno sketch pubblicitario, una soap opera?
Intanto ve la illustro.
Siamo in un mondo piccolo piccolo, alla stregua di quei mini pianeti che compaiono ne Il Piccolo Principe di Saint Exupery:


Sul pianetino ci sono cinque case, che differiscono a seconda della personalità del proprietario (come succede anche nella vita reale). Oltre alle case ci sono panchine, aiuole, fontane, una piscina e un Ristopub. A seconda di dove ci si trova, si cammina dritti oppure a testa in giù, o in orizzontale.
Gli abitanti si chiamano Faggio, Bibi, Ortica, Torlonia, Eufisio. Nomi bislacchi ma non più di quelli che si leggono nei romanzi che vengono scritti oggigiorno.
In questo momento, il sole sorge (per convenzione e per comodità, faremo finta che l’astro illumini tutto il pianeta).
Ortica è la prima a svegliarsi. La vediamo stiracchiare le sue braccia sottili come spaghetti e appiattirsi con le mani i capelli crespi. Scende dal letto che è già vestita e truccata; senza nemmeno prepararsi un caffè lascia il suo prefabbricato azzurro di finta plastica e va ad aprire il Ristopub, che è l’unico locale del pianeta, a due passi da casa sua.
I primi clienti non si fanno attendere. Sono Faggio e Bibi.
Faggio svolge un mestiere intellettuale, e indossa sempre giacca e cravatta. Bibi non svolge alcun mestiere, indossa il pigiama tutti i giorni e non si capisce bene di che sesso sia (gli altri non glielo hanno mai chiesto).
I due ordinano la colazione e si siedono a un tavolo.
Faggio: “Che vita dura”
Bibi annuisce piano, sembra che gli pesi la testa.
Faggio (indicando Ortica): “Invece, guarda quella lì, cosa fa tutto il santo giorno? Panini, brioche, aperitivi. Non deve usare il cervello.”
Bibi non parla. Fissa le sue mani, che diventano ogni giorno più trasparenti.
Faggio: “Sai quante parole devo scrivere io ogni giorno?”
Bibi: “Cinquemila.”
Faggio: “Altrimenti non mangio, perché non mi pagano.”
Bibi: “Sì, non ti pagano, e quindi non mangi.”
Ortica porta un vassoio con le colazioni: due caffè, due succhi di frutta, due brioche con la marmellata. Sembra placida e tranquilla come al solito, muta e indifferente al mondo esterno, tanto più che il mondo è piccolo ed è difficile che qualcosa possa ancora stupirla.
Dietro il bancone c’è un televisore che Ortica guarda nei tempi morti. In tv c’è Torlonia. Non solo ora, per la verità. Torlonia è sempre in tv.
Stamattina canta “Le mille bolle blu” e si è pitturata le labbra di rosso. Ortica guarda e ascolta con interesse. Le piace quando la sua beniamina si esibisce con una canzone nuova, con un trucco nuovo.
“Ortica, se risponde alla mia domanda può tenersi il resto.” Faggio le porge una banconota da cinquecento Bottoni-Farfalli. Ortica la prende e la incassa, senza dire una parola, senza accennare un sorriso.
“Secondo lei,” continua Faggio “qual è il miglior mestiere del mondo?”
Domanda piuttosto facile. Ortica indica lo schermo televisivo, dove si vede ancora Torlonia, che ha finito di cantare e sta preparando una torta di mele in una cucina gialla.
Non era la risposta che Faggio si aspettava, ma non fa niente.
Faggio e Bibi escono.
Faggio: Cosa farai oggi?
Bibi (tossendo leggermente): Prima di tutto, devo rimettermi dall’influenza. E magari cercare di prevenire l’allergia agli acari, quella ritorna ogni tutti gli anni.”
I due si salutano e vanno in direzioni opposte, uno a destra e l’altro a sinistra (non ha importanza dove vada chi, ancora non è stato stabilito).
In due o tre passi sono già arrivati nelle loro rispettive dimore: nel suo piccolo castello medievale, Faggio siede davanti alla macchina da scrivere; Bibi invece è già nel suo letto bianco latte nella sua casetta cubica e senza tetto, color bianco latte fuori e bianco latte dentro.
Torlonia ha la casa più bella e sontuosa di tutto il pianeta: un grattacielo rosa shocking, così, quando lei si affaccia dall’ultimo piano, può calare le trecce per far arrampicare gli amanti (in realtà non c’è nessun amante, ma per convenienza e convenzione fingiamo che ve ne siano), oppure guardare il resto del mondo dall’alto verso il basso.
Tutti pensano che oggi Torlonia sia in televisione, nel senso di “dentro” la televisione.
In realtà, lei è in vacanza in camera sua. Però si annoia. Così prende la cornetta del telefono e compone un numero.
Tuuu, tuuu, tuuuu.
Bibi: Pronto, chi è?
Torlonia: Sono io.
Bibi: Ah, ciao. Pensavo che fossi in Tv.
Torlonia: No, sono in vacanza. Stiamo mandando in onda le repliche del mese scorso, tanto ve le sarete già scordate.
Bibi: Infatti.
Torlonia: Perché non passi da me che ci divertiamo un po’? Mi hanno regalato il karaoke e poi ho Harry Potter in 3D, altrimenti c’è la vasca idromassaggio che fa le mille bolle blu…
B : Mi dispiace, oggi non esco di casa neppure se mi pagano.
T.: infatti, ti pagano per rimanere a letto.
B: Fai la spiritosa?
T.: Non sono spiritosa, sono diretta.
B: Torlonia, tu non puoi capire. Tu sei una che ha la vita facile. Sculetti e sorridi, e va tutto bene. Della sofferenza, tu non sai proprio niente.
La faccia di Bibi al telefono, non riusciamo a vederla. Ma per convenzione e semplicità, la immaginiamo viola come una patata viola.Intanto, Ortica si sta scervellando per ricordare il nome dell’uomo che è appena entrato nel Ristopub. Lo conoscono tutti, perché è colui che costruisce le case, ma nessuno ne ricorda mai il nome.
“Buongiorno” dice lui, e Ortica annuisce, come fa con tutti. L’uomo le sta mostrando un giornale, anzi, il giornale, la Gazzetta di Oggi. La scrive Faggio tutti i giorni in quintupla copia. Ogni giorno prima compone l’edizione del giorno dopo (che è un controsenso, ma ancora una volta facciamo finta che non lo sia).
“Vorrei un caffè corretto, e vorrei anche discutere di un fatto serio.”
Ortica strabuzza gli occhi, la sua espressione più intensa da mesi. Gli serve una tazzina fumante, e si appoggia con i gomiti al bancone. È tutta occhi, bocca e orecchie.
“Il giornale è pieno di errori” esordisce l’uomo.
Puntandovi l’unghia nera dell’indice, gli errori di grammatica davvero brutti: ciliege, valige, c’è l’ho, qual è, un pò. E poi, films, links, drinks. Le parole straniere non si usano al plurale, se al mondo ci fossero dei bambini lo saprebbero anche loro!
Per non parlare, aggiunge l’uomo, del contenuto delle notizie: “Anche quest’anno è arrivata la primavera”; “Ieri sera erano tutti davanti alla televisione a vedere Torlonia”; “Il 40% della popolazione mondiale è donna, un altro 40% è uomo, il restante 20% è incerto sulla propria sessualità.”
L’uomo si sbraccia, sembra proprio dispiaciuto. Addirittura una lacrima brilla dentro ciascuna orbita oculare (due orbite oculari, assumeremo per convenzione).
Come sempre, e forse molto più di sempre, Ortica rimane muta perché non sa cosa dire. Le dispiace che quel tizio (come si chiama?) si stia innervosendo per una cosa di cui non frega niente a nessuno. Lei stessa, i giornali li usa per pulire i vetri del negozio, oppure per incartare le ceramiche quando trasloca da una stanza all’altra. Le uniche cose che Ortica legge sono le interviste a Torlonia, che di solito sono più foto che parole.
In quello stesso momento, Faggio sta camminando per strada, in cerca di ispirazione per il giornale di domani.
Faggio (parlando ad alta voce con se stesso): “Scrivere storie sembra facile, lo pensavo anche io quando ho deciso di cominciare, ma non lo è affatto. La gente mica lo sa cosa vuol dire, perdere l’ispirazione.”
Dietro le porte di vetro del Ristopub si vede un uomo che si sbraccia davanti al bancone. Addirittura si stropiccia gli occhi, come se piangesse. Faggio lo riconosce: è quello che costruisce i ponti, le panchine, le altalene. È piuttosto strano, vedere un uomo alterato così, in pieno giorno, senza motivo. Il suo sesto senso da giornalista gli impone di avvicinarsi per saperne di più.
Faggio: “Buongiorno, posso chiederle il nome? Mi serve ai fini del dovere di cronaca.”
Eufisio (squadrando l’altro dalla testa ai piedi): “Prima che le ricordi come mi chiamo (lo sapete tutti ma ve lo dimenticate ogni giorno) può rispondere a una domanda?”
Faggio (un po’ sorpreso): “Vabbè il giornalista sarei io, comunque faccia pure.”
Eufisio: “La grammatica, quella non rientra nel dovere di cronaca? E la propensione a scrivere baggianate?”
Faggio (mettendosi le mani sui fianchi): “Certo che per lei è facile parlare. Lei mica deve spremersi il cervello, tutti i giorni. Lei ha solo da segare, incollare, mettere chiodi. Che ci vuole? Inizi a fare un mestiere più intellettuale, e poi ne riparliamo.”
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Il sole tramonta sul nostro Piccolo Mondo, e il giorno dopo risorge ancora una volta.
Nel Ristopub, Ortica sta quasi per svenire perché è entrata Torlonia, in tutto il suo splendore, in tutti i suoi brillantini, in tutta la stoffa maculata del tubino-guaina da giorno.
Torlonia: “Buongiorno.”
Ortica (con una mano sul cuore): “Oh mio Dio!”
Torlonia (ridendo divertita): “Come sei sciocca! Non sono Dio, sono solo un miracolo della natura, e a differenza di Dio sono vera e mi puoi toccare con le tue mani.”
Ortica non se lo fa ripetere due volte: le afferra una ciocca di capelli, se l’attorciglia all’indice.
Ortica (con un filo di voce): “Io vorrei essere te.”
Torlonia: “Questo lo capisco, chi non vorrebbe essere me? Però non è facile come sembra. Non sai quante volte mi sveglio con il desiderio di una vita più semplice, di un fisico meno vistoso, di un lavoro da niente. Insomma, capita anche a me di voler essere te.”
La campanella della porta tintinna ancora. Un altro cliente. Stamattina il locale si sta riempiendo in fretta.
Bibi si è cambiato il pigiama, ma in faccia ha sempre lo stesso colorito grigio-violaceo.
Bibi: “Buongiorno. Posso avere un cappuccino, se non è troppo disturbo?”
Senza attendere risposta, trascina le pantofole verso uno dei tavoli.
Bibi (rivolgendosi a Torlonia): “Lasciami stare tu. Non ci vengo a casa tua. Nemmeno ti immagini come mi sento male oggi. Non puoi capire. Beata te. Anzi, beate voi” e con il mento indica Ortica che è venuta a servirgli il cappuccino.
Sul tavolo di Bibi, c’è una copia della Gazzetta di Oggi (che qualcuno, non si capisce bene chi, ha portato questa mattina).
Il titolo principale recita: “Il costruttore Eufisio fuori di se dentro il Ristopub.”
Bibi legge ad alta voce. Non vorrebbe commentare con le altre due, perché le disprezza, ma proprio non si trattiene: “Cioè, io in vita mia non ho studiato molto, ma credo che su se, in questo caso, ci vuole un accento. Forse addirittura due.”
Torlonia annuisce. In effetti, gli accenti sono molto carini sulle parole. Anche Ortica acconsente senza parlare: per oggi ha esaurito il serbatoio verbale quotidiano.
Faggio (entrando all’improvviso, trafelato): “Proprio bella la vita di voialtri! State qui a fare salotto, quando al mondo c’è un problema grave.”
Gli altri lo guardano, stringendo gli occhi. Cosa può mai essere successo? Si sono esaurite le riserve di inchiostro? La carta di oggi da usare domani è ammuffita? La sveglia non ha suonato?
“Il costruttore, coso, come si chiama lui, ci ha lasciato.”
Bibi (stringendo un tovagliolo di carta): “Nel senso che è morto?”
Asso: “No, nel senso che è andato via. Stamane doveva costruirmi una finestra ma non si è fatto vedere. A casa sua non c’è. Ho girato tutto il mondo ma non l’ho trovato.”
Torlonia: “Embè, che problemi aveva? Sembrava il più felice di tutti, non si lamentava mai.”
Faggio: “Ecco, come dimostri non capire una ceppa, diva nella torre d’avorio. A quel tipo stavamo tutti sulle scatole. Me lo ha detto ieri, chiaro e tondo. Non lo leggete il giornale?”
Bibi: “Non abbiamo fatto in tempo, sei arrivato tu a interromperci.”
Bibi fa scorrere il dito lungo le righe. L’articolo riprende fedelmente le dichiarazioni dell’uomo della sera precedente: “Questo è un mondo di incompetenti. Il mestiere che fate, lo fate tanto per fare un favore agli altri, perché voi siete tutti convinti di meritare ben altro. A dire il vero, anche io sono convinto di meritare di meglio, merito di vivere in un mondo migliore di questo qui.”
L’epilogo della storia forse è un po’ scontato, ma ve lo racconto lo stesso.
Eufisio il costruttore era scappato dal mini mondo «approfittando di una migrazione di uccelli selvatici.» (Che Saint Exupery ci perdoni. Questa non è una scopiazzatura, è un omaggio).

Trovandosi senza un costruttore, la popolazione mondiale si trova ad affrontare un grave problema. Per dirla con le parole di Torlonia: “Tutti sono capaci di scrivere due parole in croce. Vorrà dire che il giornale lo scriveremo tutti insieme, o a turno. Mentre Faggio lavorerà come costruttore.”
Nell’ultima scena o capitolo, vediamo Faggio costruire un muro di mattoni di terracotta (un muro che ha poco senso, in mezzo alla piazza, ma bisogna avere pazienza con lui, sta ancora imparando). Con la fronte grondante di sudore, impreca a denti stretti contro questo mondo crudele, pieno di gente sbagliata nel posto sbagliato.
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pausa di riflessione a margine del testo.
impossibile per me commentare questo splendido racconto senza citare, oltre a Saint Exupery, uno degli scrittori più grandi e più sottovalutati d’ogni tempo: Gianni Rodari. tutto l’insegnamento di Rodari, grande narratore nonché pedagogista (le due cose, guarda caso, spesso e volentieri vanno a braccetto), si riassume in poche righe: il motore della creatività è la fantasia, il sesto senso del cervello umano, capace di interpretare e reinventare la realtà mediante la narrazione di “storie”, ovvero – in altre parole – mediante il “pensiero narrativo” (si veda la psicologia culturale di Jerome Bruner). tale capacità è presente nell’essere umano fin dalla prima infanzia, si perfeziona in parallelo all’acquisizione delle competenze linguistiche e diventa strumento essenziale per la strutturazione dell’esperienza, per la rappresentazione del mondo (sia esteriore che interiore) e per la vita in società. la fantasia, dunque, incarna il senso più profondo della natura umana e costituisce il processo mentale mediante il quale possiamo compiutamente immaginare entità astratte come la libertà, la morale, l’altruismo, la giustizia, l’infinito, la democrazia, la vita ultraterrena e così via. eppure… eppure negli ultimi decenni sempre più spesso assistiamo a stravolgimenti dei percorsi di formazione scolastica che puntano in direzione diametralmente opposta. con un abile gioco di prestigio si passa dal manuale (inteso come libro di testo) al manuale (inteso come lavoro manuale) ottenendo due piccioni con una fava: popolazione mediamente più formata/specializzata/adattata all’idea di un mercato totale e meno istruita/emancipata (meno capace di pensiero critico e di visione d’insieme). e non è un problema solo italiano (alternanza scuola-lavoro e “buona scuola”), ma globale. prendiamo ad esempio il Giappone: nel 2015 un attacco senza precedenti alla cultura sociale ed umanistica nell’istruzione superiore è stato portato dal “consiglio per la competitività industriale” (il nome è tutto un programma, eh?), un organo di nove ministri, le cui aree di competenza sono le seguenti: sette manager aziendali, un ingegnere e un economista (!!!!). risultato? ai bambini e agli adulti del nuovo millennio di fantasia ne resta davvero poca. d’altro canto il mercato globalizzato richiede omologazione, e l’omologazione, in fondo, non necessita né di fantasia né di creatività, anzi, meno ce n’è e meglio è. tutto ciò per dire che la scrittura di Annapaola Paparo è un potente antidoto contro il livellamento culturale prodotto dall’industria letteraria contemporanea. i personaggi del suo piccolo mondo sono umanamente stravaganti eppure archetipici nonché sempre pronti a sorprenderci con la loro ironia, con i loro mestieri e con l’inconsapevolezza di insegnare qualcosa in più sulla vita semplicemente inventandola. la fresca genialità affabulatoria vagamente naif dell’autrice li accompagna trovando il punto di flesso tra la fantasia e la tragedia umana. sì, insomma, come spesso accade – Esopo docet – è più probabile venire a capo del pasto nudo di burroughsiana memoria rivangando la spontaneità di una favola che coltivando intricate et aulentissime prose proustiane. ed ecco allora il re nudo, l’illuminante raccontarsi della storia in modo piano, creativo, tipico dell’intuizione spesso disarmante con cui amano sorprenderci gli “occhi bambini”, ecco la semplicità che rivela la sua natura in punta di forchetta: quella di complessità risolta, privata delle sovrastrutture mentali nonché delle mode culturali che assai spesso ci fanno smarrire le trame. ordunque, come non meravigliarsi e non riconoscersi in questo Piccolo Mondo, dove un prezioso scarto *intellettuale* (“mestiere” meno faticoso di “segare, incollare, mettere chiodi”, ma parimenti prezioso) ci aiuta a vedere le cose da un’altra prospettiva? non è forse proprio il cambio di prospettiva la chiave di volta che ci consente di riconoscere nella trama apparentemente banale della realtà quotidiana ciò che *trama* contro di noi rendendo il mondo un luogo crudele, pieno di gente che “erra” da un posto a un altro? mi sbaglio? chissà. in ogni caso, mal comune mezzo gaudio (anche “il giornale è pieno di errori”, no?) e con amara facezia (così ci divertiamo un po’ anche senza passare da Torlonia), aggiungerei che i giornali sono pure pieni di fake news…
resta il fatto che, come Ortica, a volte navighiamo il web placidi e tranquilli, muti e indifferenti al mondo esterno, convinti che – comediceilproverbio – il mondo è piccolo ed è difficile che qualcosa possa ancora stupirci. e invece siamo più che altro persone inquiete con il cervello in quiete e basta che tra le parole resti solo un minimo spazio di fantasia, un Piccolo Mondo, perché la meraviglia accada.
Delizioso il racconto di Annapaola Paparo, illuminanti le riflessioni di malos. Oltre a Saint Exupery e Rodari, aggiungerei il Calvino delle Città invisibili. Nomi simbolici che diventano archetipi moderni: Faggio, Bibi, Ortica, Torlonia, Eufisio; di abitanti di case “invisibili”, raggiungibili attraverso geografie esistenziali: “A seconda di dove ci si trova, si cammina dritti oppure a testa in giù, o in orizzontale.” Per quanto riguarda la domanda iniziale dell’autrice sul cosa farne, lo immagino come un bellissimo libro illustrato e un film d’animazione.
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Piacevolissimo il racconto e condivisibili i commenti di Malos e Abele. Stavo anch’io pensando a Calvino, al suo utilizzo della fantasia come coefficiente della ragione. E nella scuola, in barba a tutte le norme calate dall’alto, è il principio senza il quale la conoscenza non si raggiunge. Direi,anzi, non diventa parte dell’essere. Un caro saluto
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molto bello il racconto, che con una lingua brillante e che guarda le cose con stupore, tratteggia un piccolo mondo che non è altro che il nostro. Il linguaggio ci porta in giro mostrandoci tante piccole meraviglie, alla fine torniamo, e vediamo però che anche lì c’è la divisione del lavoro, la vecchia maledizione biblica, la noia, la televisione e i muri da costruire, per la bellezza della fiaba quasi non ci accorgiamo di essere tornati a casa.
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@Abele + @Roberta: perché no, benvenga il buon Calvino delle città invisibili, come pure di Marcovaldo.
: )
@Giancarlo: mi piace l’idea del “quasi non ci accorgiamo”, perché in un certo senso è proprio quando siamo presi di sorpresa (si veda Milton Erickson) che risultiamo più vulnerabili (e quindi più fertili mentalmente)
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