
«Che cosa mi è capitato?» pensò.
Ma non stava sognando.
Franz Kafka, La metamorfosi
Ieri ho scoperto una cosa terribile: ho le tette.
Cioè, le mie non sono proprio tette tette. Non assomigliano affatto a quelle che si vedono sulle riviste che legge mia madre – Elle, Cosmopolitan e da poco anche Gioia. E poi non sono nemmeno due, non è che ho bisogno del reggiseno. Ne ho solo una, e tanto basta.
Comunque ero sotto la doccia. Mi piace starci un sacco, sotto la doccia. Soprattutto d’inverno, quando fuori si gela o c’è quella nebbia che ti entra nella pelle e sembra che il freddo sia dentro di te. Di solito non faccio molto caso al mio corpo. M’insapono, passo la spugna qua e là, e per il resto del tempo sto immobile sotto il getto caldo. Mi piace starmene così, a pensare. Penso a un sacco di roba, non sempre divertente. Per esempio, un attimo prima di scoprire la mia tetta sinistra – quella che somiglia a un piccolo vulcano – stavo pensando all’esame di terza media e al fatto che molto probabilmente non lo supererò. Ero lì che mi vedevo la faccia della Gelsi, la prof d’inglese, quella che mi odia, quando il capezzolo sinistro ha iniziato a prudere forte. Allora l’ho grattato di brutto e l’ho sentita, quella protuberanza mostruosa, fuori posto come un brufolo sul naso.
La tetta.
Ho iniziato a sudare, sudavo sotto la doccia, una roba incredibile. Cazzo, ho pensato, non va bene affatto, non va bene per niente. Già è difficile essere un ragazzino di tredici anni col pisello corto, ci mancavano pure le tette.
Mi chiamo Umberto, ma tutti mi chiamano Tonio. Non è una presa in giro, lo giuro. È solo che somiglio un sacco a quel cretino della Melevisione e allora i miei compagni di classe mi hanno dato il ribattesimo. È così che si dice, no? O ribattezzo, non so. Comunque ora me ne sto nel letto a meditare su questa storia che ho le tette e intanto guardo un fottio di tv. Dico fottio perché Giovanni, mio fratello più grande, mi ha detto che dire fottio è cool, che vuol dire fico. Lui ha un sacco di tipe, come dice sempre, e poi se ne va in giro con l’Audi. Mio padre gliel’ha preso perché va bene all’università. È uno sveglio Giò, uno che ha fatto il classico. E poi, mi ha detto una volta che sono tornato a casa come un cane bastonato, se vuoi che ti rispettino devi imparare a parlare. Ecco perché dico fottio. A me sembra che Giò abbia sempre le idee chiare, mentre io non so mai chi sono, cosa voglio e, se lo voglio, perché lo voglio. È difficile andare avanti così. Ah, un mese fa sono tornato a casa malconcio. Non è che le ho prese o cose così, non ero malconcio sulla faccia o in pancia. Mi sono preso un bello schiaffo morale, è così che l’ha chiamato Giò quando gli ho raccontato tutta la storia. All’inizio non volevo dirlo a nessuno, mi sono chiuso in camera e volevo piangere di brutto, ma poi nel pomeriggio Giò voleva giocare alla PlayStation e mi ha costretto a uscire. Quando ci siamo messi a giocare, si è accorto subito che ero strano. È uno sveglio, Giò, l’ho detto. Mi ha detto che sembravo un picio, che avevo un muso da cane e alla fine, dopo che mi ha stressato parecchio e mi ha fatto il solletico – Giò sa sempre come farmi ridere, cacchio – ho vuotato il sacco: in sostanza, ero con i miei compagni di classe negli spogliatoi. Era appena finita la lezione di nuoto, una roba che odio, e dovevamo fare la doccia, cambiarci e poi tornare in classe per le ultime due ore. Fin qui, nessun problema. L’ho fatto un migliaio di volte. Io sono molto sensibile ai cambiamenti. Per esempio, ho notato una cosa: da quando facciamo la terza, nessuno, ma proprio nessuno di noi gira nudo negli spogliatoi. In prima e in seconda ancora ancora qualche pisello nudo lo vedevi. Non che fosse un bello spettacolo, vedere quei vermicelli bianchi, aggrappati all’inguine come frutti acerbi, ma era abbastanza normale. Ora invece sembra che tutti non facciano altro che coprirsi, io compreso. Prima ho detto che nessuno di noi gira nudo, quest’anno: non è la verità, ho sbagliato. Ce n’è uno che lo fa: Ermanno. Lui non si copre mai con l’asciugamano, perché dice che ce l’ha enorme, dice che è un’aquila reale, il suo. Si pianta in mezzo allo spogliatoio e fa il ventolino – una specie di elicottero dove le pale sarebbero il pisello – e tutti lo guardiamo secchi, perché è vero che Ermanno c’ha un’aquila reale e merita rispetto. Comunque io ero appena uscito dalla doccia, no?, e quel giorno avevo l’asciugamano perché mamma aveva lavato l’accappatoio; e naturalmente non mi casca per terra mentre cerco di infilarmi le mutande? Per forza che casca per terra. In quel momento Ermanno era vicino a me e si teneva il Coso in mano e lo puntava in tutte le direzioni, come se fosse una pistola o un idrante: insomma, qualcosa che spara. Io cerco di riprendere l’asciugamano, ma le mutande le ho infilate per metà così vado giù come una pera. Ermanno si volta e invece di prendermi in giro per la caduta indica il mio pisello e poi scoppia a ridere e poi guarda i miei compagni uno per uno e gli fa capire che devono ridere anche loro, perché un pisello così fa ridere. E loro ridono subito, ben stretti negli accappatoi. Ridono perché non è toccato a loro, i bastardi.
Naturalmente, una volta in classe, non si parlava d’altro. Tonio ce l’ha corto, Tonio ce l’ha piccolo e contorto. Tonio adesso lo chiamiamo Shorty. Un’altra cosa che ho notato delle medie è che se dicono qualcosa di te, ti resta appiccicata come una gomma sotto la scarpa. Comunque, quel pomeriggio che ero malconcio, Giò mi ha tirato su di morale. Ha detto: Vedrai che se ne dimenticano. Vedrai che cresce. Tanto finite le medie non li vedi più.
Alla fine ho pensato che Giò aveva ragione. In fondo, ci era passato anche lui, no?, doveva sapere com’era starsene col pisello nudo sotto gli occhi di tutti. Forse è così, anche se lui non mi racconta mai di come se la passava alla mia età. Ora però di questa storia delle tette non ho proprio il coraggio di parlarne con Giò. Un conto è il pisello, che può sempre crescere, un altro le tette. Mai sentito di tette in decrescita, io.
Alla tv danno Il Signore degli Anelli per la ventesima volta o giù di lì. Non ho proprio voglia di guardarlo, ma tanto sono così distratto che non mi disturba. Fuori, la pioggia picchia sulla strada, quindi non ha senso andare a fare due passi. Da quando ho scoperto di avere le tette non riesco a smettere di toccarle. Passo tutto il tempo con la mano sotto la maglietta. Cerco di capire se stanno crescendo. Non ho il coraggio di andare a specchiarmi, perché ho paura che qualcuno mi veda. Ora che ci penso, quando Giò ha un problema, ne parla con papà. Mio fratello fa medicina, proprio come mio padre, quindi spesso si consultano. Nel nostro appartamento c’è una stanza che papà usa come studio ed è lì che riceve sia i pazienti che noi, se dobbiamo chiedergli qualcosa durante il giorno. Sennò possiamo parlare con lui a cena o dopo cena, ma se ci vede entrare nello studio – dopo aver bussato per bene, eh? – lui capisce che è importante. Allora incrocia le braccia, magari si pettina anche la sua barba grigia e ci guarda con paterno affetto. Almeno, con Giò fa così. Una cosa che ho imparato di mio padre è che lui usa molto il sarcasmo. Non lo fa apposta, ma è il suo modo di affrontare i problemi. Per esempio, l’anno scorso è morta sua madre, cioè mia nonna. Non era neanche troppo vecchia, ma è caduta dalle scale e ha picchiato la testa. Papà dice che l’hanno trovata alla fine della rampa, tutta disordinata, come una bambola. Il giorno del funerale me ne stavo sulla mia panca ad ascoltare il prete che recitava la messa. Ero seduto vicino a papà e a mamma, Giò stava con i nostri due cugini che hanno più o meno la sua età. Quando il prete ha cominciato a parlare dell’ultima cena, di quando Gesù spezza il pane, mio padre si è messo a ridere. Ci sono rimasto di sasso. Mia madre lo guardava con le labbra tirate sui denti. Alla fine si è dovuto alzare ed è uscito dalla chiesa. Quando poi siamo andati al cimitero, lui ha raccolto una manciata di terra e l’ha buttata sulla bara di nonna. Io lo vedevo che ci stava male, per nonna, però lui mi ha guardato, ha incrociato le mani come se facesse un’ombra cinese e ha mimato un colombo. Poi ha detto: Fiut, è volata via e intanto sorrideva. Così è mio padre, gli piace fare il sarcastico. Per questo non so se posso parlargli delle mie tette. Metti che inizia a ridere?
Mi alzo dal letto e vado in cucina. Apro il frigo, chiudo il frigo. Mia madre sta girando un mestolo dentro il ragù. Lo so perché c’è profumo di alloro e questo vuol dire ragù, a casa nostra. Le dico Ciao, ma’ e mi siedo su uno sgabello intorno all’isola. Di solito, quando voglio attirare l’attenzione di mia madre faccio il capriccioso, così inizio a dirle che ho fame, che il frigo è vuoto, che non c’è mai niente da mangiare.
– C’è del prosciutto – dice.
– Ma è crudo, rispondo. Sai che non mi piace.
– Arrangiati – dice lei, senza voltarsi.
Apro il frigo, prendo il prosciutto e mi faccio un panino anche se non ho fame e il prosciutto crudo mi fa senso, perché sa di sangue.
– Mamma?
– Che c’è? – dice mettendo sul fuoco il bollitore. Mia madre adora il tè e si dà il caso che siano le cinque, l’ora in cui gli inglesi bevono il loro afternoon tea e mia madre, che ha studiato a Londra quando era giovane, li imita perché è una donna nostalgica. Almeno, questo lo dice Giò.
– Mamma, esistono gli uomini con le tette?
Lei alza gli occhi dal contenitore del tè. Poi dice: Sei strano in questi giorni.
– Che vuol dire?
– C’è qualcuna che ti piace? – chiede con civetteria.
– Ma è impossibile, secondo te?
– Se gli uomini avessero le tette, sarebbe un bel guaio.
– Mi sa di sì – dico guardando il mio panino.
– Cosa c’è che non va? – mi chiede dopo un lungo silenzio. Adesso la sua voce è preoccupata e quando lei fa la voce preoccupata io non riesco a dire le bugie.
– Ieri ero nella doccia e…
– Oh Dio, ti stavi toccando.
– No, mamma. Mi stavo lavando.
– Sei sicuro? Non c’è niente di male a toccarsi un po’ alla tua età.
– Sono sicuro. Posso finire? – via madre sbuffa. Io vado avanti – mi stavo lavando e, non lo so, avevo fastidio a un capezzolo e l’ho grattato. Adesso è enorme, sporge e sembra proprio una tetta. E fa anche male, se lo tocco.
– Vedi che ti sei toccato.
– Mi sono grattato i capezzoli.
– Avrai i linfonodi gonfi. C’è in giro l’influenza, chiedi a tuo padre un antibiotico.
Il bollitore inizia a fischiare. Mia madre si alza e prende una tazzina. Accende la tv e mette I Simpson. Me ne torno in camera con il mio panino.
Terzo giorno.
La tetta è sempre lì. Non c’è niente da fare, non decresce. Ho deciso che d’ora in poi metterò solo più felponi enormi. Per fortuna è inverno e non sembrerei un pazzo. E comunque questa cosa delle felpe mi ha occupato tutto il giorno, perché non è che uno può cambiare look da un momento all’altro, no? Non sarebbe fico. Cioè, se inizio coi felponi da skater bisogna che finisca con i jeans larghi larghi e delle scarpe adeguate. E poi ci vuole un bel cappellino. Il cappellino è importante. Così ho trascinato mia madre in centro e mi sono fatto comprare un bel po’ di roba. Quando sono uscito dalla cabina di prova, sommerso sotto strati spessi di vestiti larghissimi, mia madre ha alzato gli occhi dal cellulare – stava seduta con le gambe accavallate su uno di quegli sgabelli morbidi che nei negozi mettono per chi aspetta – e ha detto: Non ci sono della tua taglia?
In questo momento mi trovo nella mia stanza. La casa è tutta in silenzio. Giò è all’università, papà lavora e mamma dopo lo shopping mi ha scaricato a casa: ha detto che andava a fare pilates con due amiche, non so. Ho chiuso la porta a chiave e mi sono steso a letto. Non sopporto più questa situazione.
Dio, che fastidio. Voglio dire, prima della tetta ero molto contento, sul serio. Anche l’idea di essere bocciato non era poi così insopportabile. Uscivo da scuola, tornavo a casa, cazzeggiavo un po’, mangiavo e dormivo. E tutti gli spazi vuoti che separavano quei momenti li riempivo con un fottio di pensieri fichi. Io sono uno che pensa molto, se non si è capito. Lo chiamo attività cerebrale. Mi succede parecchio in classe, soprattutto durante le lezioni di matematica, storia e geografia, tre materie proprio del cazzo. Ma anche tantissimo quando parla più o meno chiunque, a parte Giò. Per esempio, mio padre a cena parla un sacco, no?, ma davvero tanto. Fa tutto un preambolo su quanto è stata una giornata pazzesca e su quanto sia davvero fico ispezionare culi – ah, mio padre è gastroenterologo: lui dice sempre che gli basta infilare un dito in culo per guadagnare 500 euro; ogni volta che lo dice, solleva l’indice a mezz’aria e fa il gesto di infilarlo da qualche parte. Giò lo prende in giro perché dice: Okay, cinquecento euro a infilata, per carità. Ma non è che il dito lo infili proprio in chissà che culi, eh, papà? Mica lavori per un’agenzia di modelle russe.
Queste cose di solito Giò le dice quando mia madre è in bagno. Lui critica papà perché non gli piace l’intestino della gente. Preferisce il cervello, Giò, per questo magari è così sveglio. Mi sono perso. Ah, no, stavo dicendo che mi faccio dei gran viaggioni quando mio padre parla. Okay, quindi dopo il suo preambolo – e le eventuali obiezioni di Giò – a un certo punto si parla di me. Il più delle volte come se non ci fossi. Mio padre aspetta che siamo tutti seduti, poi guarda mia madre e dice: Umberto come se la cava? Questa frase è recente, ossia da quando mia madre gli ha detto che potrei essere segato di brutto, quest’anno. Quindi papà in realtà sta chiedendo: Sono sempre decisi a segarlo? Ma non lo dice così, perché non vuole ammettere che uno dei suoi figli possa essere segato alle medie. È un uomo ambizioso, papà. Comunque, in genere mia madre inizia a raccontare i miei voti, quello che dicono i professori e poi mio padre abbassa gli occhi sul suo piatto e quando li solleva mi guarda. Poi comincia un pistolotto che comprende, in questo ordine:
1. L’importanza della cultura
2. L’importanza del lavoro
3. L’importanza di un buon lavoro, non di uno qualsiasi
4. L’importanza che ti danno le tipe se hai un buon lavoro, non un lavoro qualsiasi
L’ultimo punto è un suggerimento di Giò, ma tanto quando arriva al punto due sto già viaggiando da un pezzo, l’ho detto, prima. Per esempio m’immagino un sacco di essere Spiderman e di arrampicarmi sui grattacieli. Ci penso sempre a cose come: chissà come reagiranno tutti quando planerò sulla città reggendomi a un filo di ragnatela? Ci resterà secco, Giò, perché io ho i poteri e lui invece è sveglio, okay, ma solo quello. Io sono super. Da qualche tempo penso anche un sacco a Veronica, che io nei miei sogni chiamo Vero. Lei fa la terza B – io sto nella A, una classe di merdosi – ed è una tipa speciale. Cioè, non è come Serena, che lo dicono tutti che è porca. Lei non va in giro con quei leggings che si vede tutto il culo. E poi non va mai “in bagno”. Da noi si dice così quando una fa un succhia-succhia a un tipo che le piace. Non c’è niente di male a fare un succhia-succhia, okay. Prima o poi capita a tutte. Serena però in bagno ci va davvero un sacco; ecco perché lo dicono tutti che è porca. E poi passa sempre l’intervallo a fare la scema con due amiche che l’adorano, perché vorrebbero essere porche come lei, ma alla fine non c’hanno il coraggio. Veronica invece se ne sta sempre sul termosifone, all’intervallo. Di solito mangia dei cracker in fretta e poi si attacca a un libro. Sempre uno diverso. È una tipa sveglia, Veronica. Io m’immagino sempre di mettermi dall’altra parte del corridoio, dove c’è un altro termosifone, con un libro in mano. Ci guardiamo, lei mi saluta con un cenno del mento, un po’ scazzata perché magari pensa che la copio. Il primo giorno non dice niente, il secondo nemmeno, ma il terzo continua a distrarsi e alza spesso gli occhi dal libro. Io invece li tengo ben incollati al mio – anche se in genere leggo la stessa riga per tutto l’intervallo, visto che leggere è una cosa da sfigati, se lo fa un maschio: ecco perché nella mia fantasia ho detto a tutti che lo faccio solo per agganciare Veronica, così non rischio il culo – ma lo vedo che mi guarda. Il quarto giorno, lei sbuffa, chiude il libro e attraversa il corridoio. Mi si pianta davanti e inizia a parlare.
– Che leggi? – chiede con fastidio.
Io alzo due occhi che sono uno spettacolare misto di furbizia e sex appeal. Poi dico: Il grande Gatsby. E lei ci resta di sasso sul serio, perché si vede che non lo conosce. Nemmeno io lo conosco, ma Giò dice sempre che è uno dei libri più fichi che siano mai stati scritti, quindi un po’ lo conosco e magari lo leggerò, un giorno.
– E di che parla? – chiede lei. A questo punto la mia fantasia sta prendendo una brutta piega. A volte, non mi sento padrone nemmeno dei miei pensieri.
– Di uno con parecchi soldi.
– E basta?
– È anche innamorato.
– Allora? – dice lei sollevando le sopracciglia, con una nota di sarcasmo nella voce
– Ti va di leggerne una pagina insieme, ogni tanto?
Lei mi guarda a lungo, i suoi occhi azzurri sono in ombra dietro la frangetta rossa, quindi non riesco a capire se la mia proposta la stuzzica o meno. Alla fine, mi sorride e dice: Vediamo.
Come tutte le fantasie che si rispettino, a questo punto la mia accelera di brutto e balza in avanti al momento in cui io e Vero siamo nascosti dietro la scuola a pomiciare come pazzi. Anzi, no. Meglio una cosa romantica: ho trent’anni, forse di più. Dopo le medie io e Vero ci perdiamo di vista e io parto per la Guerra – prima o poi ce ne sarà un’altra, i dettagli non sono importanti. Dopo due anni di duro servizio, mi congedano con onore e me ne torno a casa strapieno di medaglie, un po’ come Rambo, ma non così paranoico, ecco. Comunque la guerra mi ha scosso parecchio e passo tutto il giorno a bere birra dentro un bar del centro, rivivendo gli orrori degli scontri. E poi un bel giorno arriva lei. Sono seduto davanti al finestrone del bar e vedo questa ragazza dai lunghi capelli rossi che attraversa la strada quasi a rallentatore. Indossa una gonna beige, una camicetta azzurra e un giubbottino di jeans. Ai piedi ha due stivaletti neri. La pelle delle sue gambe è bianca e mi viene subito duro. Mi alzo dal tavolino con uno scatto, rovescio la birra e con un balzo sono fuori dal bar e…
Dio, che male alla tetta. Mi prude di nuovo fortissimo. Mi alzo dal letto e decido che è il momento di una bella ispezione. Esco dalla mia stanza, vado in bagno e mi chiudo dentro. Apro l’acqua della doccia per sviare possibili intrusioni, poi mi metto davanti allo specchio del lavandino e tolgo la maglietta.
Eccola lì, la bastarda. Non è proprio una tetta, in effetti. È più come se il mio capezzolo lo stesse diventando, però. Voglio dire, è così gonfio e sporgente che avanti di questo passo finirò da Intimissimi con mia madre, altroché. In più fa un male porco. Il capezzolo è molto largo, rosa scuro, e prude. Anche il destro, mi accorgo con orrore, è ingrossato.
Ommioddio. Ora che ho davvero le tette, con Veronica ho chiuso. Possibilità zero, è finita. Tornando alla fantasia di prima, se ora scegliessi di approfondire la versione in cui pomiciamo come pazzi dietro il cortile della scuola, sarei fottuto. Cioè, v’immaginate se durante una calda giornata d’estate, poco dopo la fine della scuola, io e Veronica ci sdraiamo che ne so?, su un’aiuola e lei magari infila una mano sotto la maglietta per cercare i miei pettorali duri da macho e ci trova due cazzo di tette? È la fine, lo sento.
Sono le undici di sera, è sabato. Giò è uscito con la sua ragazza, credo. I miei invece sono a letto e io mi sto torturando la vita col pensiero della tetta. Fa male da pazzi e se devo dirla tutta sono parecchio depresso. Non riesco a vederci niente di buono, in questa storia. E se sto diventando un transex, come li chiamiamo noi a scuola? I transex sono le donne col pisello. Però so che loro hanno cacciato un sacco di grano per essere così. Possibile che Dio mi abbia graziato in questo modo maledetto? Perché è così difficile essere se stessi a tredici anni? A un certo punto non ne posso più. Sto per mettermi a piangere e decido di fare l’unica cosa possibile. Non posso perdere il sonno. E poi la tetta mi sta fottendo la testa, mi sembra di essere tutto solo dentro una stanza sempre più buia con i suoni delle cose ovattati. Quindi mi alzo, infilo un pigiama a caso – dormo nudo, io, ho sempre un fottio di caldo – e vado in camera dei miei. Busso e quando mi dicono di entrare chiedo a mamma se può venire un secondo. Lei insiste per sapere cosa voglio a quest’ora e si vede che non ha per niente voglia di alzarsi. Mio padre, invece, tiene gli occhi fissi sulla tv che trasmette A piedi nudi nel parco, un film vecchio e cencioso. Alla fine si alza dal letto e io le chiedo di seguirmi in bagno. Quando lei si accorge della mia faccia – sono più malconcio di quella volta del pisello corto – fa due occhi seri e mi chiede: Che succede? Me lo dice così preoccupata che è un miracolo se non piango. Mi limito ad abbassare gli occhi.
Mamma, devo farti vedere una cosa, dico togliendo la parte di sopra del pigiama. Lei resta immobile, ancora più preoccupata. Ha i capelli tutti scompigliati dal cuscino e si è struccata. Così è molto più mamma, per me.
– Guarda – le dico, indicandole il capezzolo.
– Che ha? – dice avvicinando la punta delle dita al mio petto. Quando lo sfiora, mi ritraggo per il fastidio.
– Fa male, dico con una smorfia.
Lei incrocia le braccia, sorride. Fa un sorriso materno, comprensivo, di quelli che mi mandano in bestia perché non mi prende sul serio. Poi dice: È per questo che mi hai chiesto se ci sono uomini con le tette? Io annuisco e lei scoppia in una vera risata. Mi rimetto subito il pigiama, pieno di vergogna e le chiedo perché deve fare così ogni volta che io ho un problema. Giò lo prendete sempre sul serio, dico. Lei mi scompiglia i capelli con una mano e mi dà un bacio sulla guancia.
– Puoi guardare ancora un po’ la tv, ma a mezzanotte vai a dormire.
– Come Cenerentola – dico.
– Come Cenerentola; ma senza le tette – dice lei con le labbra che tremano. Poi esplodono in una nuova risata e a quel punto esco dal bagno e me ne torno in camera sbattendo tutte le porte che attraverso.
Ottavo giorno.
La tetta fa male da schiattarci, lo giuro. Praticamente non parlo più con nessuno. Mi sono chiuso in un mutismo più totale. Sono stufo marcio di essere preso per il culo da tutti. Io ho un problema serio e i miei pensano che mi faccia le seghe mentali. Vorrei vedere loro, se avessero un corpo che fa il cazzo che vuole e un bel giorno decide che mettere su una bella tetta del cazzo è un’idea da paura. Per fortuna ho i miei vestiti larghi e ci annego dentro per bene.
Stasera a cena c’è anche la ragazza di mio fratello. Giulia è una parecchio fica, una che va di moda, dice Giò. Io non so cosa voglia dire andare di moda, per lui, ma sicuro somiglia più a Serena che a Vero, nel senso che ha le labbra carnose come Serena. Da porca, cioè. Quindi immagino che vada di moda perché “va in bagno” spesso e ci va bene, una cosa molto importante. Comunque adesso ce ne stiamo tutti a tavola e mio padre ha due occhi da cane per le tette di Giulia. Fortuna che mia madre passa più tempo sui fornelli che a tavola, sennò scoppierebbe un gran casino. Sono tutti molto allegri, perché alla fine Giulia è una tipa okay che fa un sacco di battute spiritose e poi studia medicina, quindi per forza che ce l’ha, il cervello. Io però non riesco a fare altro che guardare il mio piatto. Non perché sia chissà quanto interessante o perché abbia fame, nono. In realtà, più lo guardo, più somiglia alla tetta.
Mi sembra che tutto somigli alla tetta.
Persino il naso di mio padre, la saliera, i colli delle bottiglie d’acqua, le rotondità in genere mi ricordano la tetta. A un certo punto della serata mia madre mette in tavola una specie di budino che ha fatto lei apposta per Giulia e mio fratello chiede a tutti che cos’ho che sto zitto.
– È un adolescente – dice mio padre.
– È per una ragazza? – chiede Giulia.
– È perché lo segano, quest’anno – dice Giò, rispondendo da solo alla sua domanda del cazzo.
– È perché pensa di avere le tette – dice mia madre.
Io ci resto secco. Ma secco sul serio. Nel senso che m’immagino seccare come le foglie dopo una gelata potente. Alzo gli occhi dal piatto e guardo mia madre come se fosse impazzita, ma lei è seria seria e chiede a mio padre, visto che è l’unico medico praticante a questa tavola, di rassicurarmi perché i maschi non hanno le tette. A questo punto mi sento sollevato. Voglio dire, non ho avuto il coraggio di parlarne con mio padre, pur sapendo che il suo parere di professionista cazzuto metterebbe fine per sempre alle mie angosce. Ora sto per riceverlo e finalmente tornerò a dormire e a liberarmi di questi vestiti da skater di merda.
Invece, tutto va in vacca alla velocità della luce.
Mio padre scoppia a ridere, subito imitato da mio fratello. Giulia lì per lì non vuole prendermi in giro, ma quando persino mia madre si mette a sussultare dalle risate non riesce a trattenersi. A questo punto, la mia faccia brucia. Mi sento umiliato.
– Ehi, dice mio padre, di che taglia lo compro, il reggiseno? – e tutti giù a ridere – sul serio, continua lui, di pizzo può andare?
Giò è in apnea. Mia madre invece si tappa la bocca con la mano.
– Se vuoi compriamo anche un gonnellino – aggiunge mio padre.
Non sono triste, ma deluso. Li guardo uno a uno con la gola stretta e non riesco a piangere. Lo vorrei tanto, davvero, ma non ci riesco. Mia madre si accorge della mia espressione e smette di ridere, ma non mio padre, no, lui continua a fare battute. È strano, mi sento molto più grande di tutti loro. Non perché sia più furbo o più intelligente, ma perché non ci trovo niente da ridere. Fino a qualche mese fa ero solo un bambino. Neanche mi guardavo allo specchio, tanto il mio corpo era stupido. Cioè, cosa lo osservi a fare, un corpo bianco, senza peli, senza increspature? Poi un giorno stavo infilando la maglietta e ho visto che sotto l’ascella ch’avevo dei pelucchi neri. Una roba da vergognarsi, mi è venuto da piangere.
Perché nessuno di loro capisce quanto sia spaventoso cambiare così?
Mi alzo da tavola e me ne vado, seguito dalle loro risate.
Due giorni dopo quella cena infernale è sabato. Mia madre entra in camera mia alle nove e mi dice: Svegliati che andiamo dal nonno.
Io c’ho un sonno porco, ma sono felice. È un sacco che non lo vedo, il mio nonno. Lui è il padre di mamma e vive da solo in un paese poco lontano dalla città. È un tipo forte, il nonno.
Una volta in macchina, mia madre dice che c’è anche lo zio, ossia suo fratello, con la moglie.
– E come mai Giò e papà non vengono? – chiedo allacciando la cintura.
– Vanno a un congresso, una roba da medici.
Quando la macchina di ma’ entra nel vialetto e le ruote scricchiolano sulla ghiaia, mio nonno si catapulta fuori di casa. Lo scricchiolio della ghiaia è come un campanello, per lui. Da quando è morta la nonna, non c’è molta gente a fargli compagnia e lui passa un sacco di tempo da solo. Quindi è normale che abbia sviluppato quest’attenzione per la ghiaia del vialetto: se scricchiola, vuol dire che è arrivato qualcuno. E quel qualcuno magari gli vuole bene.
Mio nonno è un tipo da paura. Cioè, uno forte. Mi racconta sempre delle storie pazzesche. In genere, quelli della mia età non ci vanno d’accordo con gli anziani. Voglio dire, se uno come me sta seduto alla fermata del bus e un vecchietto arriva e poi accatta a parlare di quando era giovane e c’era la guerra, lo scazzo parte di default, no? Uno inizia a dire sì sì e annuisce guardando a vuoto il display del cellulare. Col nonno non è affatto così. Io ci passerei le giornate, ad ascoltare i suoi racconti. Tipo quella volta che stava finendo la guerra e lui era un ragazzino di sedici anni. I nazisti scappavano da tutte le parti e gli aerei mitragliavano la gente nei campi. Mio nonno aveva deciso di darsela a gambe, vista la mal parata. Caso vuole che stava attraversando un campo pieno di zolle, uno di quelli dove una volta ci mettevano il grano. Cammina cammina e a un certo punto spunta un ricognitore. Vede mio nonno e gli punta il muso contro. Lui inizia a correre come un pazzo e alla fine, quando ormai ha capito che il ricognitore sta per scaricargli addosso la mitragliatrice, si butta nel fosso d’irrigazione e ci rimane come un morto finché l’areo non passa oltre. Vicino al campo c’era un bosco e dentro questo bosco ci passava la ferrovia. Ma era abbandonata da un pezzo. Mio nonno lo sapeva perché ci lavorava, per le ferrovie. Metteva le rotaie e lo pagavano con un pacchetto di sigarette e un tozzo di pane nero. Comunque, dopo che il ricognitore se n’è andato, mio nonno capisce che è meglio passare dai boschi sennò se ripassano lo riempiono di confetti, come lui chiama le pallottole. Oh, sapete che ci ha trovato mio nonno nel bosco? Un treno abbandonato. E allora uno pensa: okay, ma chissenefrega di un treno, se è abbandonato. E mio nonno gli risponde: Quel treno aveva un vagone pieno di lingotti d’oro. Ce n’erano così tanti, che uscivano dal portello sfondato e si spargevano sull’erba. Gli americani dovevano aver bombardato la zona proprio mentre passava di lì. La prima volta che ho sentito questa storia pazzesca ho pensato che mio nonno fosse ricco sfondato. Invece è ricco normale, perché quel giorno gli prese il panico a veder tutto quell’oro e se ne andò con l’idea di tornarci con due amici. Tre giorni dopo, quando entrò nel bosco di nuovo – seguito da due ragazzotti di paese che avevano la bava alla bocca – il vagone coi lingotti era stato ripulito. Una bella fregatura. Questa storia mio nonno la racconta sempre con gli occhi che luccicano. Non perché gliene importa di aver perso il grano, ma perché gli piace proprio raccontare storie sensazionali. È uno sensazionale, lui.
Esco dalla macchina e mi tuffo tra le braccia del nonno. Poi lui saluta mamma e insieme entriamo in casa. Il caminetto scoppietta nel salotto e la tavola è già apparecchiata. Mio zio sta guardando la tv e mia zia invece è immobile davanti alla tavola con un bicchier d’acqua in mano. Li saluto e mi chiudo in bagno.
La tetta mi fa un male porco. Il capezzolo è così sensibile che dà fastidio anche se sfiora la maglietta sotto il felpone. Insomma, un vero disastro e io non so più che fare. Mi tolgo la felpa e mi guardo allo specchio. La tetta è lì, sembra una pera acerba, una pera piccola, ma comunque una pera che non dovrebbe esserci. Sospiro, mi rivesto e poi tiro l’acqua così nessuno si fa strane domande. Quando esco dal bagno, mi trovo davanti il nonno. Mi guarda senza sorridere, perché lui il sorriso ce l’ha negli occhi sempre. Poi dice: Accompagnami a comprare il vino.
Io annuisco e pochi minuti dopo siamo in macchina e stiamo uscendo dal cancello. Ogni volta che andiamo a trovarlo, mio nonno s’inventa un pretesto per stare un po’ solo con me. Dice che gli manca il parmigiano, che deve prendere il giornale oppure che gli è finito il vino, come oggi. Ma la verità è che vuole farsi un giro in macchina con me, non so come mai. Anche a me piace quando ci facciamo i nostri giri sulla sua vecchia Ford verde bottiglia, chissà perché. In genere, andiamo sempre al supermercato. Ci piace fermare la macchina nel parcheggio, prendere un carrello e poi fare tutto con calma. Se è mattina, come adesso, facciamo colazione al bar che c’è dentro il grande magazzino: io bevo una Coca e lui un caffè mentre legge la Gazzetta. Gli piace il motociclismo, al nonno. Poi facciamo un giro in mezzo alle corsie e di solito compriamo un sacco di roba tranne quella per cui siamo venuti fin lì.
Mio nonno ingrana le marce con clama. La macchina percorre la strada con un dolce fremito del cruscotto. Una bella sensazione, davvero. Io non parlo un granché, sono tutto preso dalla mia tetta. Lui guarda davanti a sé, le mani rugose appoggiate al volante. Penso così forte alle mie angosce, che mi sembra di sentire un ronzio. Dopo un po’, quando mancano circa dieci minuti al grande magazzino, mio nonno inizia a parlare. Non parla proprio come me, è più una specie di monologo, il suo. Sembra che racconti una storia. Forse è così perché io me ne sto zitto e guardo il cruscotto. La prende alla lontana, lui.
Cavolo, dice come se vedesse le cascate del Niagara per la prima volta, che roba avere tredici anni. Me lo ricordo bene.
Io tengo gli occhi sul quadrante e leggo il contachilometri. Mi ripeto i numeri in fila, uno alla volta.
Uno, comincio coi pugni stretti.
Cavolo, continua lui, andavo pazzo per le ragazze, quando avevo tredici anni. Sembra che siano dappertutto, eh? Te le ritrovi in mezzo ai piedi di continuo.
Zero, penso.
Mi ricordo quando giocavamo a calcio noi. Era sempre uno spettacolo. Undici cretini che giravano intorno a una palla di pezza. Roba da farti uscire di testa. E gli spogliatoi? Non ti dico cosa succedeva lì dentro.
Nove. Dopo l’uno e lo zero, c’è il nove.
Una volta hanno pisciato addosso a un ragazzo, dice mio nonno. Sono entrati nella sua doccia e gli hanno puntato i piselli contro. Sembrava una sparatoria, lì dentro. Un bel casino, avere tredici anni.
Due.
Un gran casino, ripete. Quando hai tredici anni, ti sembra di essere su una giostra, eh? Una veloce, non quelle con i cavallini impalati. E hai un pensiero dopo l’altro, vero? Non fai tempo a finirne uno come si deve, che già ti sei perso in altri due. Roba da pazzi. Alla mia età non si pensa più così bene.
Uno, penso con gli occhi bagnati.
La vuoi sapere una cosa? Non ci tornerei neanche per tutti i lingotti di quel maledetto vagone a tredici anni. Col cavolo. Tutta quella confusione – e ti senti solo come un cane, t’arrabbi con tutti. Le persone che fino a ieri ti capivano, sembrano rincoglionite all’improvviso, eh? Un brutto affare, avere tredici anni.
Zero, di nuovo.
E il corpo? Uno pensa che almeno lui se ne stia buono, già è dura stare dietro alla testa che va per conto suo. Invece ti ritrovi con un sacco di peli che spuntano come funghi. Inizi a puzzare, puzzi sempre, anche dopo la doccia. E poi i capezzoli ti diventano gonfi e duri da scoppiare. Ti sembra di non essere più tu, eh?
109210 chilometri. La macchina del nonno non è poi così vecchia.
Ho le guance calde, salate. Non ho il coraggio di asciugarmi le lacrime perché non voglio che mio nonno si accorga che sto piangendo. Così resto fermo, un po’ piegato in avanti con gli occhi sempre immobili sul cruscotto, su tutto questo dolore che è crescere, diventare grandi.
Mio nonno stacca una mano dal volante e l’appoggia sulla mia gamba. Mi dà una pacca e ancora un’altra. Affondo la faccia nelle mani e inizio a singhiozzare forte.
Dio, com’era bello avere tredici anni, dice il nonno.
*
(pausa di riflessione a margine del testo)
ecco un racconto che con apparente noncuranza lambisce l’essenza, o meglio, l’essenziale delle cose umane. niente colpi di scena o finali a sorpresa, niente artifizi scenografici né effetti speciali: il nucleo polposo de “la tetta” è un rigonfiamento di parole cresciuto attorno alla vita così come ciascuno di noi la conosce (e la ricorda), con la sua corposa farcitura di drammi piccoli e grandi, di salvifica routine nonché di cronico deficit di senso. e quali migliori interlocutori per mettere in scena la sostanza nuda di cui si parla che un ragazzino tredicenne e un vecchio vedovo? l’esperienza insegna, e l’autore mostra di avere grande sensibilità nell’aver imparato la lezione, che soltanto i bambini e gli anziani per qualche curioso gioco di specchi e di rifrazioni in prospettiva, sono capaci di vivisezionare la realtà e di varcare quella soglia invisibile che separa l’essere umano dalla consapevolezza della propria fragilità; soglia che l’adulto si premura di sprangare con una doppia mandata di affaccendata seriosità o di sarcastica superiorità. ecco allora che la metamorfosi diventa soprattutto una metanarrazione della *perdita* di facoltà umane, con conseguente paura e smarrimento per il nostro trasformarci in qualcosa di “completamente diverso” (Monty Python, 1971, docet). “Perché nessuno di loro capisce quanto sia spaventoso cambiare così?” – chiede sconvolto l’io narrante al cospetto del mondo adulto/alieno (Gli Invasori Spaziali, 1953, docet). e in ultima analisi, che tutto cambi così o cosà – che il corpo maturi nella pubertà o decada nella vecchiaia – poco importa perché ciò che è fondamentale è proprio *il cambiamento* in sé e per sé: il cambiamento ha la spiacevole funzione di rammentarci l’equilibrio precario e temporaneo della materia che rende possibile la nostra esistenza come animali pensanti. “un pensiero dopo l’altro, non fai tempo a finirne uno come si deve, che già ti sei perso in altri due” – dice il nonno nella sua istintiva saggezza – “roba da pazzi, alla mia età non si pensa più così bene.” magari è proprio questo sgrammaticarsi del pensiero che arriva ad emozionare il lettore, che gli consente di approdare al significato più profondo della perdita di equilibrio. eh, in fondo, cos’è la narrazione stessa se non il tradursi in parole di un disequilibrio? lo schema di Propp suggerisce infatti, che più o meno tutte le storie nascano dalla rottura di un equilibrio iniziale (esordio) che attraverso una serie di peripezie verrà ristabilito nella conclusione.
tutto ciò per dire che se è vero com’è vero che in ultima analisi siamo soprattutto delle *storie*, è nelle fasi iniziali e finali della nostra vita che conosciamo davvero noi stessi (i due Raymond, Bradbury e Carver, in proposito, la sanno lunga).
forse per questo, una volta terminata la lettura di “la tetta” si prova la sensazione precisa di aver letto qualcosa che durerà, che quasi con noncuranza lascia un segno tangibile sul nostro modo di interpretare la realtà delle cose. nessuna banale pretesa di “risposte universali”, però: la scrittura di Emanuele Altissimo è un autobus che ci invita a salire, pronto a darci un passaggio lungo un viaggio circolare (Borges docet) per poi farci scendere lasciandoci in mezzo alla strada o se preferite dirlo in poesia, nel mezzo del cammin di nostra vita…
Innanzitutto complimenti all’autore specialmente se ha l’età del protagonista o è comunque un giovanissimo, è una bella prova di talento. Come è evidente il cambiamento è un argomento piuttosto coinvolgente su tutti i fronti e ad ogni età, un macigno mutevole che testando la nostra resilienza dapprima ci costringe a sopportarne il peso e poi ad attribuirgli un senso per convertirlo in una nuova stabilità vivibile. Questo è un po’ il fulcro dove si dipana il racconto e la bravura primaria dell’autore credo sia stata mantenere il giusto ritmo fra l’ossessiva attenzione di Umberto alla metamorfosi e la presentazione di una stabile alcova familiare e sociale in apparente rischio di sfaldamento. Vengono quindi descritte bene le fasi di riifuto e disperazione iniziali e poi di ricerca di aiuto e infine rassegnazione al problema, laddove si passa dalla vicenda personale all’ambito familiare per poi tornare ad un nuovo equilibrio di interdipendenza. In ultima analisi è una mancanza di informazioni che genera l’instabilità del ragazzo come anche degli altri protagonisti. Dico ciò perché credo sia davvero difficoltoso vivere in armonia con il mutamento da qualunque distanza lo si viva. In proposito colpisce lo smarrimento dei genitori quando non sapendo bene la situazione vogliono comunque assicurasi che tutto sia nella norma e solo dopo riescono a sdrammatizzare con l’ironia, quasi a volersi godere un raro momento di superiorità nei confronti di quel mostro legato al tempo che scorre. Stessa reazione degli amici che possono solo denigrare per allontanare il problema della diversità. Il fratello idem non scappa da questo rituale pur nel suo ruolo di amorevole ma distaccato supporto, un po’ denigra, un po’ conforta. E c’è uno sbilanciamento implicito anche nel tenero finale da parte del nonno che rassicura il nipote e ricorda nostalgicamente i suoi 13 anni, infatti prima di tutto ha dovuto intuire e rivivere il problema per poi accorrere dal ragazzo a dare un senso che riequilibri il suo mondo interiore. E che bello magari ci fosse anche per lui qualcuno a dare un senso ai cambiamenti della vecchiaia. Insomma un argomento non facile da trattare data la vastità dei possibili risvolti, ottima scelta non esagerare troppo con le divagazioni extra-familiari per esaltare ancora meglio un domino di sentimenti e situazioni di vita diverse all’interno del cerchio di una famiglia unita
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