prosenze inquietanti: settembre-ottobre

e siamo così giunti a quel periodo dell’anno in cui, come ben scrisse Ungaretti, si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. un malinconico senso di precarietà si impadronisce degli esseri umani 2.0, ormai incapaci di soffiarsi il naso senza un iPhone con installata l’applicazione “i-ilmoccio?”. e quando penso a un equilibrio instabile, tipo un guantone appeso a una parete, mi vengono i mente i racconti di Bobboti , noto anche come Bob Otti o Birambai (ma potete chiamarlo Ismaele).

Rosa da vedere

“Sì, c’è proprio un rospo” disse l’uomo, quando ebbe finito di svuotare il sifone.
“Un che?”
“Un rospo”.
“Non dica sciocchezze, i rospi non si infilano nei lavandini”.
“Ce l’avrà messo qualcuno, magari uno dei suoi nipotini…”
“Non ho nipoti”.
“Un vicino, allora”.
“Non ho vicini”.
“Forse l’aveva nascosto in una tasca. A volte i vicini sono dispettosi”.
“Lei è pazzo”.

La signora Elvira stava perdendo la pazienza. Si vedeva dal tic alla spalla sinistra che aveva cominciato a muoversi a scatti. In più, le rughe sulla fronte sembrarono all’improvviso più profonde. “Scempiaggini!”, aggiunse.
Era ancora molto elegante e dai lineamenti si poteva intuire che era stata una gran bella donna, ricca di fascino e di sostanze, a giudicare dalla casa lussuosa nella quale viveva. Aveva decine di mobili in stile Luigi Filippo. Ma questa notazione non è di grande utilità, non so neppure perché mi è venuta in testa. Quel che conta è che la signora Elvira stava perdendo la calma.

A quel punto Reginaldo da Costa picchiettò con la chiave inglese sulla parte in metallo della tubatura, poco sopra la sezione di plastica chiamata “a bicchiere”. Poi si chinò nuovamente e scrutò con grande attenzione. “E’ così come le dico, signora, riesco a vederne una zampa”.
“Senta, rimetta tutto a posto e se ne vada. Le pagherò comunque il disturbo”.
“Perché? Lei stessa, quando ha chiamato, ha detto che i rospi stavano tappando i tubi”.
“Groppi! Io ho parlato di groppi!”
“Groppi? Non ho mai sentito nessuno parlare così”.
“Un groppo, un viluppo, un groviglio di capelli. Le è chiaro adesso?”
“No signora, i suoi capelli sono bianchi, questo gro…questo coso è nero”.

E’ arrivato il momento di dire che Reginaldo da Costa non era un vero e proprio idraulico. L’idraulico era il cognato, Filippo Bianchini, quello scritto in grassetto dentro un riquadro a pagina 45 delle pagine gialle. Lui dava una mano nei fine settimana, per arrotondare lo stipendio da muratore. Tuttavia, pur non essendo esperto, nel suo lavoro si comportava da vero signore. Prima e durante ogni intervento si prodigava in spiegazioni dettagliate sull’entità del guasto e sulle possibili cause.
“Quando finisce il letargo, vanno dove c’è l’acqua. In primavera si accoppiano proprio vicino all’acqua. Lì i maschi si aggrappano alle ascelle delle femmine, si chiama amplesso ascellare. A volte i maschi sono così tanti che la femmina muore soffocata”.
“I rospi non si riproducono dentro i lavandini” disse a denti stretti la signora Elvira, mentre la sua spalla andava su e giù.
“Ma infatti questo non stava facendo l’amore. E’ solo. Questo ce l’ha messo qualcuno per farle un dispetto. Potremmo farlo uscire attirandolo con delle lumache. Ha delle lumache in casa? ”.
“Mi ascolti bene: io ora vado a farmi un caffè in cucina, se al mio ritorno non avrà messo tutto a posto le farò passare un brutto guaio”.
Reginaldo da Costa si voltò di scatto ma la signora era già sparita. Rimase per qualche secondo come una scultura di gesso, con la bocca aperta e gli occhi spalancati in un’espressione stramba, un misto di sorpresa e delusione. Avrebbe voluto parlare delle verruche e di quanti rospi muoiono schiacciati dalle macchine. Invece restò così, come in una foto scattata a tradimento.
Quando si riprese, si piegò nuovamente di lato e ricominciò a guardare fra le anse dei tubi. E dentro quel buio ripensò all’amplesso ascellare.
Vide Mercedes, le sue ascelle depilate, le curve così misteriosamente sensuali. Il cuore cominciò a battergli forte, a martellare nelle tempie. Poi lo sentì nella pancia. Perciò, per non fare brutta figura, si fece precipitare in uno stato di malinconia: “Non riuscirò a conquistarla, è troppo bella per me”.
Quel pensiero si portò dietro anche un accesso di tenerezza verso il mondo animale. Allora prese uno dei suoi strumenti di lavoro, uno spazzolino da denti dotato di prolunga, e cercò di liberare il rospo. Agì con delicatezza, attento a non ferirlo, e una volta sicuro di averlo afferrato lo tirò a sé.
Era proprio un melmoso groviglio di capelli. Mentre lo osservava, incredulo, sentì che la caffettiera stava cominciando a gorgogliare. In tutta fretta buttò la palla nel wc e tirò lo sciacquone. Poi, appoggiando le mani a terra, in una posizione che ricordava quella di un anfibio, cercò di imitare il verso di un rospo : groac e uaar. Provò in diversi modi, gonfiando il collo più che poteva.
“Che fa?” urlò dalla cucina la signora Elvira senza ottenere risposta.
“Si può sapere che fa in quella posizione?” replicò, entrando nel bagno.
“Oh, niente, stavo raccogliendo l’acqua finita sul pavimento”.
“Bene, mi dica quanto le devo”.
“Dieci euro. Il guasto è riparato e il rospo è ancora vivo, l’ho liberato nel suo giardino, qui dalla finestra”.
La vecchia lo guardò sbigottita e strinse le sue labbra bluastre. Senza aggiungere altro, Reginaldo si alzò in piedi e cominciò a scalpicciare.
La parola “scalpicciare” nell’economia di questa storia è quasi inutile. Sarete però concordi nell’ammettere che produce davvero un bel suono.
Comunque l’idraulico disse “rosa da vedere, rosa da fuggire”. E improvvisò una danza goffa, una specie di samba tutto sbilenco. Poi si fermò, infilò una mano nella tasca della tuta da lavoro e ne trasse fuori un grosso fiore di plastica con lo stelo di metallo. “Questo è per lei”.
La signora Elvira non trovò le parole per rispondere. E quasi le venne da piangere.

I due non si incontrarono mai più. Forse un giorno, al mercato, lui le passò vicino ma non la riconobbe.


5 risposte a "prosenze inquietanti: settembre-ottobre"

  1. ecco una narrazione che senza particolari giri di parole riesce nel contempo ad essere tanto minimale quanto surreale. ebbene sì, c’è qualcosa di magicamente naturale nel modo in cui Bobboti inquadra la realtà dando profondità alla prospettiva che in un attimo vira la lettura da piana a obliqua senza mutare di una virgola, semplicemente in base al mondo in cui il cervello mette a fuoco le parole. una consapevolezza da regista di gran manico, un’insolita ibridazione tra Truffaut e Bunuel dove le parole si fanno racconto e il racconto si fa *allegoria* di naufragi, per dare una storpiata ad Ungaretti. il tutto per tenere bene a mente che davvero, a seconda del contesto, può fare male o bene pure una carezza.

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  2. Che delicatezza di tocco! Mi ricorda un po’ alcune atmosefere dei primi, soprattutto, racconti di Tabucchi (Piccoli equivoci senza importanza); di quegli amori, storie che si sfiorano, il non detto che rimane in eterno e viaggia con il tempo, l’incontro casuale con il doppio. La signora Elvira, distratta, si dimentica delle fiabe e non afferra la poesia del bacio al rospo. Reginaldo da Costa (anche il nome suona tabucchiano) deve proprio ricordarglielo con un bel fiore di plastica.

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  3. Davvero una piacevole lettura, ottima l’osservazione di Malos su una narrazione che parte minimale e che poi si espande in una complicazione surrealista, aggiungo solo che questa scrittura sembra dotata di quelle proprietà che Calvino elenca nelle “lezioni americane” come caratteristiche della letteratura di questo millennio, cito la leggerezza, l’esattezza e la visibilità.

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