Improvvisi per… Il Nero e il Rosso Permissivo – romanzetto pendolare – di Alessandro Gabriele

 

Ascolto Clocks dei Coldplay, tutte le sere intorno alle 18 e 30, da tre mesi a questa parte.

Che io lo voglia o meno, in effetti, succede: mentre faccio grandi passi di fretta e affronto scalini e ancheggio slalom tra i flussi incrociati delle pallide governanti dell’est, dei salary men ingrigiti dal Prozac, degli spara-cd nigeriani attracollati di gravi borsoni, sono costretto a farmi circolare in corpo queste ellittiche scale di pianoforte che si rincorrono e la voce trendy, un po’ scazzata, che le contrappunta.

(Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go)

La musica, tu dici, è quel grimaldello di stati d’animo buono per farti tornare a pelle qualsiasi fandonia. La musica di questa vicenda minima, che si dimentica presto, ha l’estensione di una sola canzone, l’ultima Hit di un gruppo precocemente impaludatosi nell’olocausto creativo della post-modernità che ci assedia.
Intanto la macchinetta obliteratrice si mangia il mio biglietto, lo risucchia per strani tempi che variano ogni volta, talvolta producendo un lungo singhiozzo di masticazione elettrica, altre volte emettendo un semplice sospiro e un acuto di bip a chiudere.

Dietro le spalle, quasi sempre, qualcuno che arriva di corsa, armato della lucidità di un manzo prossimo al macello, e mi sbatte addosso come se non ci fossero altri cinque tornelli liberi che giacciono proprio lì accanto.

La radio a circuito chiuso della stazione Cipro, intanto, manda e rimanda ossessivamente il ritornello di Clocks. Immagino che da qualche parte qui dietro resista una remota consolle polverosa che nessuno si cura più di aggiornare causa un ennesimo taglio di budget.

Ma tant’è, il senso del provvisorio pericolante comincia a far parte delle nostre percezioni nitide quando tendiamo l’orecchio virtuale a cercar di fermare un significato che provenga dal futuro collettivo che ci aspetta.

In un ovunque di mondo i conti piangono, i piatti si svuotano, noi tutti si pensava che sistemati peste, pellagra e scorbuto, noi si pensava a tutto meno che a una lebbra finanziaria incontrollabile.

Ma è anche vero, dopotutto, che sto tornando a casa dall’altra parte della città, che è tardi e non ho voglia di sganciare cagate cogitabonde, solo abbandonarmi alle mie lievi confortanti allucinazioni di pendolare inurbato.

(Confusion never stops

Closing walls and ticking clocks

Gonna come back and take you home

I could not stop but you now know, singin’)

Eccomi adesso, in prossimità della linea gialla (allontanarsi dalla linea gialla, treno in arrivo, allontanarsi allontanarsi, allontanarsi dalla linea gialla, treno in arrivo) – questo è lo strillato recitare dell’operatore che sostituisce per qualche secondo il tema di Clocks), in trepida attesa che il nuovo treno fiammante della linea A, sganasciando tutti i sospiri e gli stridori di freneria strapazzata del caso, allunghi il suo muso affilato verso di me che aspetto, di capire quanti gomiti e borse e braccia e schiene e fetide alitate m’inchioderanno stasera e in quanti centimetri di spazio relativo potrò acrobaticamente disporre del mio imprescindibile romanzo.

Sono dentro, ce l’ho fatta a conquistare il mio palo che sgronda mani sbiancate dallo sforzo di stringere. Sento la gente a due passi che litiga malamente, quelli che vorrebbero entrare, quelli che vorrebbero uscire, le porte che sbattono tre o quattro volte e su tutti la metallica divinità dell’operatore che sta per incazzarsi (si prega (si prega, si prega) di consentire la chiusura delle porte (delle porte), c’è un altro treno in arrivo a un minuto di distanza (a un minuto, si prega)) [(cristo!)].

Stasera, in realtà, non mi è concesso nemmeno di precipitare nel lieto oblio del mio scrittore demiurgo, perché sto finendo una storia bellissima che val la pena centellinare.

Così ogni dieci secondi rialzo testa, fantastico, vado a cercarmi dentro il piano scalato di Clocks che mi è diventato necessario. Così scopro improvvisamente come le donne che s’attaccano e si staccano dal palo matrixiano che ci tiene in vita abbassino leggermente il capo e flettano le gambe per decifrare sulla copertina cosa cavolo io abbia di così grave da leggere.

(Come out of things unsaid

Shoot, an apple off my head.)

Mi pare un piccolo miracolo d’umanità nella Cambogia asfittica che ci porta a giro verso casa, e mi pare subito dopo che io sia un po’ coglione a formulare un pensiero del genere, e mi pare del tutto superficiale che io non sia affatto preoccupato della mia integrità fisica ma piuttosto di scrittori e donne e cazzi vari, e mi pare (ma subito dopo capisco che è proprio così) che il treno abbia piantato giù la sua frenata da fin-du-monde e le luci si siano spente per due secondi e l’onda dei corpi cinetici abbia sciabordato violentemente a destra e manca schiacciando palle e tette e fianchi senza nemmeno la requie di un’umana bestemmia ad elevare il tutto.

Sai tu cos’è il rosso permissivo, lo slogan di una nuova formazione anarchica, l’immagine delicata che trasuda da una poesia erotica, forse un qualche pel-di-carota lentigginoso che non si sa imporre nella vita.

Oppure la spiegazione allucinante di un dirigente dell’azienda Me.tre.bus che illustra come sia stato possibile che la settimana scorsa, alla stazione Vittorio Emanuele, un treno sia entrato senza frenare nel culo di quello che lo precedeva provocando una trentina di feriti e la poltiglia umana di una povera ragazza pendolare che veniva dalla Ciociaria.

(Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go)

Tanto sta per il fatto che i sistemi di frenatura automatica dei treni ci sarebbero pure, ma in un cesso di Metro pari a quella romana ti si dice che per gestire il flusso dei manzi pendolari bisogna disattivare il sistema e procedere a vista.

A vista come i vecchi galeoni spagnoli nei pressi dei covi della Tortuga.

Rosso permissivo, in effetti, non è altro che il colore del buon cuore del conducente, l’invocazione celeste che non si distragga, non si gratti il naso e non si scaccoli troppo. E chi s’è visto s’è visto.

Il vero miracolo è che subito dopo ognuno riprende ineffabilmente quella bell’espressione di bubbola assente che fa da schermo, non un commento, nemmeno un quinto di sana indignazione.

Ecco, se fossi pienamente in me, se avessi saldo il controllo delle viscere, cosa mi farebbe paura del futuro, più di tutto. L’attitudine a farsi scivolare addosso ogni porcheria, la massa delle incombenze che ci ipnotizzano, la crosta di ultracorpo intangibile in cui imbozzoliamo la pena e la seccatura residua, quell’attitudine di schiavo che ci rimane dopo la centrifuga, nel potere assoluto di una faccia globale che governa tutto, una faccia che non si sa bene, se non che è piena di rughe che hanno l’andamento e la distribuzione dei grafici finanziari.

Scendo a Termini, che non è finita, e m’infilo nel delirante labirinto di mezzanini e scale e transiti incrociati che portano alla linea B.

Sgocciolii dall’alto, scale mobili rotte, sporcizia ovunque, lavori e deviazioni e tabelle con frecce scritte su cartone da mani malferme, tutto il Blade Runner che ogni romano che si muove in Metro ha già digerito da anni.

Prima dell’ultimo gomito di corridoio che apre sul marciapiede, con una punta di pena, osservo lo spessore d’assenza a coprire il muro che mi si para di fronte.

Stasera non c’è, la pallidissima ragazza slava seduta immobile per terra guardando con fissità di madonna allucinata il fagottino del figlio trattenuto tra le braccia, non c’è stasera.

Vuol dire che qualcuno l’ha fatta sloggiare, vuol dire che alla prossima svolta mi si parerà di fronte tutta la solita falange schierata dei controllori impettiti. Finalmente un vago senso di missione incipiente mi rianima, faccio quegli ultimi passi con una leggerezza e un’elasticità che non mi riconosco tanto, sono nel potere di qualcosa di simile a un’incazzatura civile: passerò dichiarando che il biglietto ce l’avrei pure, ma non glie lo farò vedere, no, home, home where I wanted to go, ecco sì, sperando che qualcuno provi a fermarmi con un’occhiata, con un braccio, ancora meglio, con tutto il corpo, sarebbe l’apoteosi Bronsoniana della giornata.

(You are, you are

You are, you are

You are, you are

Nothing else compares.

Oh, no nothing else compares

Oh, no nothing else compares)

In due, uomo e donna controllore, mi guardano passare come un occhio di ciclone sulle Bermuda, i miei, i loro, sono arabeschi di gesti potenziali che rimangono nell’inespresso.

Devono aver capito qualcosa, lei e lui, son mica coglioni a smanazzare l’utente imbufalito, adesso io però mi sento come un missile intelligente Patriot tradito dal bersaglio, un missile edipico costretto in un gruppo di supporto per l’autostima.

(Attenzione, allontanarsi dalla linea gialla (allontanarsi, allontanarsi!), si prega la clientela di fare attenzione, treno in manovra, treno in manovra, allontanarsi dalla linea gialla (allontanarsi, allontanarsi!), si avverte la gentile clientela che il treno in manovra non fa servizio (non fa servizio, servizio!) allontanarsi dalla linea gialla!! Prossimo treno in arrivo…..crak..bzzzzzz…..

(Antò, ohhh, Antò!! Ma quando cazzo passa il prossimo treno?

Quindici minuti?? Ma che sei scemo?? E chi glie lo dice adesso a questi??

Io??? Cioè? Che ho una bella voce??

Senti, m’avete rotto i coglioni, io dovevo staccare già da venti minuti, so categoria protetta e non posso fare gli straordinari! Hai capito????

E se volevo fa il disk-jockey…

me facevo raccomandà pe la radio, li mortacci vostra!)

(Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go

Home, home where I wanted to go)

*

[photo di Alessandro Gabriele]

Alessandro Gabriele è autore di racconti e reportage di viaggio, presente in numerose riviste e antologie di narrativa. Nel 2013 ha pubblicato: “Geografie Fuori luogo”. Ha fatto parte della redazione del Words Social Forum e cura un blog personale, nel resto del tempo fa lo psicoterapeuta, fotografa e progetta viaggi.


2 risposte a "Improvvisi per… Il Nero e il Rosso Permissivo – romanzetto pendolare – di Alessandro Gabriele"

  1. dopo una manciata di righe, quando arrivo alla “macchinetta obliteratrice”, un senso di vertigine m’ingoia. siamo un biglietto (di sola andata), un branco di scimmie nude precocemente impaludatesi “nell’olocausto creativo della post-modernità che ci assedia”. e nelle orecchie resta l’eco (di un lungo singhiozzo di masticazione elettrica) e in gola si strozza un sospiro che vorrebbe farsi verso (poetico) e invece si trasforma in “bip”.
    il malessere che ne deriva è proprio quello (di un ro-“manzo prossimo al macello”), un tuffo nel vuoto affollatissimo – il nostro liquido amniotico – che tampona le ferite aperte d’una realtà così provvisoria e pericolante che anche le parole precipitano a capo
    per poi tornare a dire solo il moto ipnotico, alienante/assente e pendolare delle righe (tra le righe).
    mmm… non rende bene “assente”, l’idea che mi ronzava in mente era di un “blank” che in traduzione perde sfumature. perché in fondo son proprio le parole a sciabordare “a destra e manca” nel cervello, saltando da un pensiero all’altro per donarci una complessità altrimenti impraticabile per la materia semovente.
    ed ecco allora quell’espressione “di bubbola assente che fa da schermo”, ecco che senza rendercene conto, in modo del tutto automatico, siamo istintivamente diventati la fiction di noi stessi (se qualcuno ha visto Boris – “gli occhi del cuore”! – forse può intuire ciò di cui).
    azzeccatissima, poi, la chiusa cacofonica che avvolge e ingloba l’io narrante, lasciando il posto a un/a “home” (altra parola d’imperfetta traduzione in italiano) con le pareti molto “blank”.
    un abbraccio e complimentoni al buon Alexgab, dunque, qui in versione narratore a raggi ics che sferra un colpo basso all’inespresso, mettendo a nudo l’evidenza nascosta in bella vista nonché sottolineata da una lunga linea gialla… d’evidenziatore.
    : )
    il primo che mi scrive (“ancora c’è speranza”) si becca una pernacchia…
    : )))

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  2. Molto interessante questo racconto, frammento, immagino, di un romanzo. A parte “l’olocausto creativo della post-modernità che ci assedia”, come dice malos, mi ha ricordato, molto più prosaicamente, Roma. E viaggiare/vivere a Roma – la mia è un’esperienza di diversi anni fa oramai ma tant’è che mi è tornata fresca fresca in mente – è un continuo “quanti gomiti e borse e braccia e schiene e fetide alitate m’inchioderanno stasera”. Un circo-zoo di umanità varia, che poco ti rimane se non la presunta nazionalità o etichetta. Bello il ritmo del racconto, a tempo con le canzoni citate, molto efficaci anche le parentesi. Grazie.
    Sì, non c’è speranza!

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