Le donne di Sodoma
Lo spazio narrativo in cui sono ambientate le vicende di Sodoma, almeno in apparenza, è un grande ospedale del Sud. Se è vero però che, dai tempi di Giotto, lo spazio esiste in quanto creato dalla presenza dell’umano, questo ospedale, in cui i corpi sono entità declassate al plusvalore economico e oggetti funzionali all’esercizio del potere, è un non-luogo. Essendo privo di umanità, salvo che nell’atto della nascita dei bambini -fatto di per sé naturale che accadrebbe anche per strada-, esso non assurge mai allo status di spazio narrativo. Questo è evidente nonostante la descrizione della struttura, che di tanto in tanto affiora, ma che non assume mai urgenza realistica e organica. Il luogo del romanzo è da ricercare altrove, e cioè, quasi per contrasto, nell’universo femminile denso, popolato di donne molto diverse tra loro, che svolgono il compito di condurci in due livelli di lettura, uno monodico, l’altro polifonico. Riguardo al primo livello è riconoscibile un leit motiv ben preciso: nella dialettica corpo/potere, letterale e metaforica, quale emerge già dall’incipit del romanzo di Vitagliano, il ruolo del corpo è ricoperto dalle donne, quello del potere, dagli uomini. Il corpo delle donne partorisce e abortisce, fa nascere e morire, ma soprattutto è preso e utilizzato dagli uomini a seconda delle motivazioni più o meno psicologiche o d’interesse. E così Chiara diventa il contenitore fungibile dell’horror vacui di Marco, che per sua scelta, e solo sua, non prende la donna nel modo cui il titolo allude; Felicita, la brava ostetrica che studia per arrivare al suo posto, lavora sì, ma soltanto grazie all’intervento del potere politico maschile; la Bettini, ostetrica pure lei, si trova già in reparto, ma per meriti tutt’altro che professionali; Eleonora autodistrugge il suo corpo con disturbi alimentari di lunga data. Per narrazione polifonica invece si intende in questa sede quella individuata da Bachtin in alcuni romanzi moderni, soprattutto nelle opere di Dostoevskij. La pluralità di punti di vista, di cui le donne sono portatrici in Sodoma, intreccia un dialogo che non è unificato nell’ottica ideologica dell’autore, che pure non rinuncia a presentare il suo pensiero ponendosi come soggetto autonomo rispetto ai personaggi e, addirittura, scindendo la sua visione in più parti.
Questa modalità narrativa, infatti, non nasconde l’idea del narratore-autore, anzi, permette lo svolgimento e il recupero, in chi legge, dell’esistenza di una sua ossessione quasi felliniana: la ricerca dell’eterno femminino, che si snoda tra frasi celebri poste nel testo a mo’ di sentenze -come quella di Mario Monicelli Le donne sono tutte puttane e gli uomini sono tutti soldati, o quella pronunciata da suor Cristina L’uomo è cacciatore; è la donna che si deve difendere, sintesi di una mentalità che dalla natura è passata alla storia- e la galleria di figure femminili. Delle donne di Sodoma soltanto Chiara/Marta sembrerebbe essere un personaggio positivo. È ordinata, onesta, serena nel suo essere donna, ama sinceramente, non insegue modelli maschili; tuttavia risulta priva di una sua spiccata personalità. Felicita appartiene a un’altra generazione ed è una stronza che la vita ha forgiato come tale, Eleonora una figura fragile e disturbata; le comparse rendono il quadro ancora più sgradevole. E ancora, la donna più spregevole è quella che gioca a fare l’uomo, che è uscita indurita dalla guerra di genere, che non possiede un suo specifico femminile. Siamo ai limiti della misoginia. Però c’è anche un’altra verità che il narratore afferma. Le donne sono la parte più buona e importante della vita di un uomo, non solo come compagne di vita, ma anche come presenza all’interno di sé. Conservare dentro una zona squisitamente femminile porta l’uomo a essere migliore. Il corpo rivela, il corpo non dissimula; quindi la donna rivela, non dissimula. È “la verità che giace al fondo”. L’onnagata giapponese è per Vitagliano il simbolo di quella che lui definisce circolarità e rappresenta il senso stesso del rapporto uomo-donna, maschio-femmina, senza il quale l’intero immaginario dell’umanità sarebbe perduto.
Roberta De Luca
Grazie, Roberta, per questa recensione che aiuta ad approfondire uno dei temi più importanti di Sodoma, appunto il ruolo delle donne. Tema centrale anche nel primo romanzo di Pasquale, “Volevamo essere statue”, in cui tutto alla fine viene a determinarsi intorno all’universo femminile, a sottolineare quell’incompiutezza destinata a rimanere tale del mondo maschile, come noti anche tu qui. Molto efficace trovo il richiamo a Fellini, che più di tutti ha catturato nel cinema fantasie, paure e limiti del mondo maschile italiano, e la cui visione delle donne si può riassumere con le parole che Fellini stesso utilizza per definire il cinema: “Penso che il cinema sia una donna a causa della sua natura rituale. Questo utero è il teatro, il buio fetale, le apparizioni- tutti creano un rapporto, noi ci proiettiamo sul rapporto…noi forziamo lo schermo ad assumere la personalità che noi esigiamo, come facciamo con le donne, su cui ci abusiamo”. Per quanto, tuttavia, i personaggi femminili alla fine rispondano alla costruzione del “teatro” creato dal protagonista maschile, rimangono comunque i più riusciti. Si stagliano come figure nitide e credibili, di vita “vissuta”. Scriverò quanto prima una mia recensione del libro, che ho trovato avvincente e letto tutto di un fiato.
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Grazie davvero. Non aggiungo altro.
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Ti ringrazio Abele per gli ulteriori spunti di riflessione. Tra due settimane sarà presentato a Itri. Vieni anche tu! 🙂
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Magari! Sarebbe stato bello ma tra due settimane saro’ ancora impegnato con le lezioni.
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Comunque, a presto! 😉
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