Marina Pizzi, Feritoie ogivali (I Quaderni del Bardo, 2018)

In formato e-book I Quaderni del Bardo di Stefano Donno pubblicano la nuova raccolta di Marina Pizzi,  Feritoie ogivali. Questa poesia è parola pura. Risuona dall’interno del corpo, riporta la poesia a casa, nella dimora della lettura silenziosa. Impero di scrutinio perpetuo perdere/ dentro il vassoio intriso di catrame/ sepolta viva la gioia del caso raro. Questo testo rigetta l’imperativo dell’Io e mette al centro il gerundio dell’azione che collega, mette in ascolto, congiunge il tempo presente del sentire con quello passato della memoria. Anche questa poesia non ha altri tempi, altre complicazioni. La parola è la sua forma nominale.  Ferita carnale questa insulsa epoca/ poco gerundio molto imperativo/ è stare a letto a mo’ di sfinge marcia. Come il movimento della Terra dall’alba al tramonto scandisce il giorno, così la scansione argentea di ogni singola parola del verbo unisce un verso all’altro, costituendone l’intima prosodia. la casa sismica/ l’ovale del viso più bello/ questa vanga che scava la fossa/ saturnina bestemmia il ricordo/ dominato da trilli di stonìo.

Il gerundio è il modo poetico, l’occaso ne è causa, costituendone la sostanza, l’anima. Questa di Marina Pizzi, almeno nella sua ultima raccolta, è semanticamente una poesia di commiato. Ha già compiuto una parte del suo viaggio, si è già mosso dall’orto delle illusione e con un lucido e consapevole passo si muove verso il momento del crepuscolo, che non è il luogo della fine ma quello della somma. Miracolo d’andarsene/ cortesi oltre il cimiteriale corso. C’è la consapevolezza che la poesia non albeggia più, ha già vissuto tutti i tempi e le stagioni delle forme e dei significati;  ha raggiunto la serenità di lambire la realtà senza più giudicarla. Si è messa a fianco e non si volta indietro. Ecco perché si interessa più alla nuca delle cose, ha lasciato indietro con serenità ogni sguardo diretto e frontale. Così si apprende l’ubriaco altare/ il più remoto calpestio d’ostie/ quando di te rammento solo la nuca.

Il gerundio è anche il modo della maternità, emancipata dal genere sessuale e innalzata ad archetipo di fertilità, indissolubilmente dolorosa e gioiosa. Feritoie ogivali la pietà del muro/ quando si affloscia la cicogna/ in coma. Il compleanno dei sassi/ si fa guerra contro chiunque. Quasi/ dimessa perfino la meraviglia/ di stare occasi in fronte al sole. Queste feritoie, come l’utero degli Incurabili di Napoli, è origine e approdo della vita, dolore e insieme cura, pharmakon sapienziale che ci orienta verso la verità che ci sfugge perché è invisibile all’uomo, è sempre oltre.

In fumo le vestali infantili/ quando il brevetto era/ meraviglia atomica e le giare/ colme di olive attendevano/ l’olio per far girar le trottole/ spartane le tegole delle bettole/ lacrimose tombe barbicate al nulla. Attraversando questa mitologia domestica Marina Pizzi percorre al contrario il viaggio di Dioniso alla ricerca della poesia-che-salverà-il-mondo. La poetessa risale gli inferi, perché la vita quotidiana possa fornire ancora una qualche risposta di senso. Gerundio bacatello dover campare/ sotto le giostre umide di sassi/ o tra filari di uve passe/ senza vino o liquido vitale./ Le nostre menti spariscono maestre/ d’occasi, cimiteri si bagnano le oasi/ sillabiche di un poeta orto verdetto./ gabbia serena tempesta amicale/ rullare la fronte temporale/ senza amicizie da contare. Anche se a indicare la rotta non incontra le rane della tragedia, ma girini afoni. Il rischio è mortale ma la vita è promessa. Vale la pena inoltrarsi in essa.

Si sente nella solidità che questa poesia ha raggiunto un alto livello di maturità del pensiero, del sentimento e della parola. Contro la morte che bussa con le nocche./ Sferzata dal vento la mia chimera/ Giace soppressa lapide/ Epigona alla terra senza segnale.


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