Per Adolf Eichmann
Corre libero il vento per le nostre pianure
eterno pulsa il mare vivo alle nostre spiagge.
L’uomo feconda la terra, la terra gli dà fiori e frutti:
vive in travaglio e in gioia, spera e teme, procrea dolci figli.
… E tu sei giunto, nostro prezioso nemico,
tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.
Che saprai dire ora, davanti al nostro consesso?
Giurerai per un dio? Quale dio?
Salterai nel sepolcro allegramente?
O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole,
cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga,
dell’opera tua trista non compiuta,
dei tredici milioni ancora vivi?
O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.
Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:
possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,
e visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide
rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,
intorno a sé farsi buio, l’aria gremirsi di morte.
Questa poesia è stata scritta il 20 luglio 1960, subito dopo il rapimento di Adolf Eichmann, avvenuto nel mese di maggio, da parte del Mossad e la sua conduzione in Israele per esservi processato. E dunque non ha nulla di quella discussione sul nome e sulla rilevanza storica di quest’uomo che si articolò durante e successivamente al processo per opera soprattutto di Hannah Arendt.
Qui è semplicemente la non vita che si presenta sulla scena dove l’uomo feconda la terra che a sua volta gli restituisce fiori e frutti e dove infine procrea i suoi figli.
Corre libero il vento per le nostre pianure
eterno pulsa il mare vivo alle nostre spiagge.
L’uomo feconda la terra, la terra gli dà fiori e frutti:
vive in travaglio e in gioia, spera e teme, procrea dolci figli.
Anche lui vi fa parte. E’ il nemico che compare quando non lo aspetti ma che adesso è prezioso testimone per comprendere ciò che è accaduto. Troppo grande il mistero di ciò che effettivamente si abbattette sui quattro angoli del mondo, originando dal suo ventre, dalla sua cultura millenaria avvezzo ad ogni tipo di violenza. Troppo grande e imperioso il bisogno di sapere per lasciare fuori chi all’assalto al genere uomo, per molti aspetti diverso da ogni altro avvenuto in precedenza, partecipò da protagonista carnefice:
… E tu sei giunto, nostro prezioso nemico,
tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.
Che saprai dire ora, davanti al nostro consesso?
Giurerai per un dio? Quale dio?
Salterai nel sepolcro allegramente?
Prima che il giudice incalzi, solo un cenno a quel Dio che in questa vicenda sembra il grande assente ed esposto ad una domanda: quale dio? Se ce ne fosse uno avrebbe titolo nel giudizio? Anche spergiurare sarebbe una colpa assai lieve dinnanzi all’ imponenza del resto. Quanto poi al corpo delle domande esse ruotano intorno al lavoro ma non possono avere risposta per quanto perverso e senza confronto sia quello in questione dal momento che per portarlo a termine ed eseguirlo compiutamente significava compiere un genocidio:
O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole,
cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga,
dell’opera tua trista non compiuta,
dei tredici milioni ancora vivi?
E in effetti come inquadrare quello in cui era impegnato Eichmann?
E soprattutto come comportarsi quando il lavoro umano è messo a servizio di un’opera che è anche l’azione di un popolo contro altri popoli, l’ebraico in particolare, che concepisce gli esseri umani come ostacoli materiali su cui trasferire la propria onnipotenza per edificarci il futuro come si trattasse di una via plausibile per legittimarsi nei consesso delle nazioni?
È qui nel voler misurare quest’opera, smisuratamente disumana, con il lavoro umano, che la poesia stride in tutta la sua drammaticità.
La natura sociale della perversione consiste di una distorsione del mezzo rispetto al fine inumano e nel farlo apparire del tutto umano.
È la parte restante di quel popolo che adesso ha in mano l’iniziativa o invece lo stesso genere umano in quanto obiettivo ultimo da colpire e dunque parte in causa?
A leggere l’enormità della sentenza è quest’ultima a risultare prevalente tanto è adeguata alla colpa che “il figlio della morte” non può colmare morendo come tutti si muore:
O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.
Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:
possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,
A chi viene dalla morte e si mette a suo servizio come si trattasse di un Dio svuotato di essere per trasformare la terra in un immane cimitero, potrebbe sembrare la “propria” morte un dolce ritorno nelle braccia paterne, quasi rivivere a rovescio, svuotandolo di ogni possibilità di bene, l’avventura biblica di un messia. Anche la condanna allora deve seguire un percorso inverso per essere all’altezza della situazione e dunque andare verso la vita per rivestirne la capacità indistruttibile di esistenza, propria dell’affermazione del Genere che permane nello scorrere del tempo.
L’altezza della condanna appartiene al mito, quanto quella inflitta a Prometeo o a Sisifo o a Tantalo, a chiunque, avendo superato i propri limiti subisce la punizione adeguata:
e visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide
rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,
intorno a sé farsi buio, l’aria gremirsi di morte.