Nota di lettura a “Tempo di riserva”, Silvia Rosa (Ladolfi editore, 2018)
di Anna Maria Bonfiglio
Tempo di riserva, recita il titolo di questa raccolta di poesie di Silvia Rosa. Potremmo pensare che si tratti di un tempo in cui bisogna fare delle provviste per un eventuale periodo di magra. Ma perché non assegnargli altro possibile significato? Per esempio, un tempo in cui ci si prepara a proteggersi, a mettersi in riserva nell’attesa di eventi più favorevoli. O ancora ad assumere una posizione defilata per proteggersi dal dolore e dalla delusione, un tempo dell’abbandono e un tempo in cui curarsi da un futuro negato: “ (…) ed è da questo tempo di riserva, /e con la stessa intensità di prima, /che adesso esercito la cura”. Scrive così la poetessa. Il tempo, nel suo valore di Kronos, scandisce la successione degli eventi, data la vita attraverso le varie fasi, regola la sequenza dei fenomeni della natura. In questo avvicendamento che dà ordine al percorso vitale s’immette il tempo Kairos, l’attimo fulminante, lo scatto che illumina lo spazio fra il presente e il futuro, il frammento che crea la speranza e il rimpianto.
Questa raccolta di Silvia Rosa si scansiona in quattro segmenti cronologici espressi dalle stagioni; il primo, contrariamente a quanto rappresentato dalla metafora esistenziale, si configura con la stagione invernale. È un inverno dell’anima, più che una stagione è lo sguardo verso un orizzonte nudo, se non per la “morte bianca di lucciole di felicità intermittente” (da “Che sperpero questa quotidianità”). E quando la vita riprende la “voce torna ai suoi silenzi come in un corteo funebre”. I ricordi di una presenza amata sono reliquie che suscitano tenerezze perdute e ritornano in immagini di fisicità sensuale vissuta nell’attesa di un ritorno. Nel testo “Reliqua” il tempo è Kairos, la sublimazione di quell’attimo in cui credere che tutto si possa inverare e al contempo percepirne l’effimerità. In questa poesia, meditata in ogni verso, puntuale nel lessico, ampia nella composizione strutturale, l’orizzonte ritorna per un momento limpido e il paesaggio emozionale si mostra in tutta la sua potenza evocativa. La sezione si chiude con il testo “Da qualche parte”, un breve monologo che risuona di echi shekspeariani per la ricchezza delle similitudini e per il taglio interlocutorio del narrato. L’io-poeta innalza lode a un’assenza, cercando da qualche parte la luce di un punto non tanto lontano da non permettergli di poterlo raggiungere.
L’inverno che ha portato “ere glaciali” di parole mute cede il passo a una primavera pallida, a uno sposalizio gioioso che tuttavia immalinconisce: lo sguardo si volge verso gli altri e forse per la prima volta si prende coscienza che il trascorrere del tempo ha seminato germogli sbocciati in un terreno che non ci appartiene più, che di quel che s’è vissuto restano solo “ombre da imparare a memoria”. “Sono il frutto per terra, ora – recita il testo – e osservo i fiori crescere altrove”.
Ma dal “corpo dei desideri” non si può fuggire, sfuggono invece dalle dita le parole della sensualità e della nostalgia. “Nemmeno” è un lungo testo, forte, pungente, impietoso, sviluppato in due parti di genere compositivo diseguale, un inizio poetico e una fine in forma di lettera d’amore. Una donna si spoglia di ogni riserbo e riversa nelle parole tutta la forza dei propri sentimenti mortificati, una donna che si perde nell’amore, che nell’amore cerca la guarigione da un male antico, da una mancanza mai colmata, da una e più assenze che l’hanno spogliata, impoverita. E al centro di queste assenze, fughe o abbandoni consapevoli e manifestati, sta un evento vissuto in un tempo lontano, in una fase primordiale della vita, quando tutto è ancora argilla a cui dare forma. E così l’abbandono subito è vissuto come una colpa, non si trovano spiegazioni diverse se non quella della propria incapacità di farsi amare. Una bambina disegnata su un foglio di carta è l’alter ego a cui consegnare la propria solitudine. Tocca corde molto sensibili questa “Bambina di carta”, figura in cui ognuno di noi può in qualche modo rispecchiarsi, poiché è facile nell’età infantile sentirsi traditi ed essere colti da risentimento, rabbia e tristezza. Alla bambina corrisponderà più tardi la donna adulta, altrettanto anelante d’amore ed egualmente sperduta fra assenze e abbandoni, e se nell’infanzia è assente la madre, ora l’amarezza risiede nell’impossibile realizzazione di un rapporto a due e quindi la privazione dell’affetto materno si costituisce nel corrispettivo distacco della persona amata. “Ventimila volte”, testo poematico scandito in due frazioni e collocato nell’ultima sezione del libro, Autunno, connota questo ulteriore congedo. Il confronto uomo-donna si svilisce in conflitto: lei avverte che la considerazione del partner è vincolata ai canoni estetici, lui le chiede di cambiare, di trasformarsi in ciò che lui vuole che sia; dalla delusione, dalla consapevolezza di non volere essere quello che non è, scatta la ribellione per l’atteggiamento mortificante dell’uomo e dunque la rinuncia. Questa raccolta racconta di una donna ma parla alle donne e i versi che la strutturano sono come quelle piccole spine che si conficcano nella carne e che non si è in grado di estirpare, talmente sono minuscole e infiltranti. In questi testi il tempo è seminatore di ombre, di silenzio, di distacchi, è un tempo ingeneroso, coscienza dell’impossibilità di riconversione e la poesia “La margherita” ne configura la metafora. Nell’incipit il fiore, a cui si chiede un responso d’amore, è vivo e pulsante come il desiderio di vivere, ma la vita, appena accesa, si spegne. Si ricomincia ad attendere quasi per dovere, per dare un senso al tempo, ma “quel tempo che deve ancora arrivare, è un futuro anteriore passato per sempre”.
Questa di Tempo di riserva è una poesia emotivamente dura, che pone il lettore di fronte alla realtà della perdita avvertita e mediata da una sensibilità particolarmente accesa ed estremamente delicata. Poesia formalizzata in una gabbia robusta costituita da versi lunghi, linguaggio forte e strutturato. Leggendo questi testi, che si susseguono quasi come in un diario e che come in un diario si autoriferiscono, ho avvertito l’eco di quella confessional poetry americana degli anni ‘50 e ’60 particolarmente riferita alla Plath e alla Sexton, come del resto accenna nella prefazione anche Gabriella Montanari. Con i dovuti distinguo e nella diversità del contesto storico e delle personali vicende delle due autrici citate, mi è parso di riconoscere nella poesia di Silvia Rosa la stessa aspirazione a rivendicare un ruolo nella vita affettiva e sociale e lo stesso sguardo disabitato di chi sente la mancanza di quel qualcosa necessario alla propria sopravvivenza.
“Quella volta che il sole/è caduto per terra/con uno sparo di voce/dentro la sua stessa luce/colpito forte/sembravano lucciole le schegge/che mi cascavano tra i capelli/legati in un nodo/sembrava la fine del mondo.” C’è una volta, una scaglia di tempo, un frammento di vita, un atomo di infinito in cui tutto cambia. Uno switch che commuta uno status, e da qui bisogna ricominciare. Dalla stagione oscura dell’infanzia risale il lutto di un’attesa mai soddisfatta alla quale bisogna opporsi vivendo il tempo come un’eredità da guadagnarsi; mancano le presenze e le radici d’affetto necessarie alla costruzione di un equilibrio emotivo che metta in salvo dalla perdita, dall’abbandono. “ ed è da questo tempo di riserva/che adesso esercito la cura”, laddove la cura, il rimedio è la capacità di sostituire il carico d’amore con la negazione di un’attesa di futuro. “Le attese hanno radici a uncino”, recita infatti un altro testo. Il tempo di quell’innocenza consegnata e maltrattata ha determinato l’impulso a fuggire da ogni desiderio per la paura di denudarsi e perdersi. “L’innocenza che mi è costata un tempo/ più della mia vita intera, si è fatta acqua di colonia/ (…) Mai più consegnerò il mio nome/ perché qualcuno lo trasformi in vetro/ per poi, di netto, tagliarmi i polsi.” Sono versi affilati, la metafora di un omicidio-suicidio che non riguarda il corpo ma la sostanza immateriale, la struttura dell’anima. L’innocenza è lo sguardo incantato dell’attesa, la presunzione dell’incorruttibilità della vita che ci attende ed è per sua stessa natura il bene che per primo si perde.
Tempo – Attesa –Abbandono – Assenza, sono le coordinate principali di questa raccolta in cui qualunque pagina aperta a caso ci sorprende con una rivelazione diversa, una ulteriore sfaccettatura della stessa genealogia creativa. Silvia piega gli strumenti della composizione poetica in modo da costituirne uno stile molto personale che si distanzia sia dalla poesia sostanzialmente lirica sia da quella neomodernista. Il suo linguaggio è ricco, puntuale, accurato, ma sempre chiaro, inequivocabile e i versi ipermetri di alcuni componimenti mantengono comunque il carattere prosodico.
_________________________________________Anna Maria Bonfiglio
DA QUALCHE PARTE
Mio pettirosso spiumato
quello del libro dell’infanzia
con la testina reclinata nella neve,
mia foglia immaginaria rame
e oro che porto in una tasca,
mio colore cangiante che viri al cielo
e poi al nero di vulcano, mia parola
che non basta a dire, troppo scomoda
per tenere i nostri mondi vicini stretti,
mio astro luminoso che ti adombri
in un secondo e fai sembrare
intorno tutta polvere e tempesta,
mio tesoro nascosto a tre anni
dentro una culla vuota con i ricami
all’uncinetto, mia lettera perduta, mio futuro
rispedito indietro al suo mittente,
mio specchio impertinente con una crepa
lunga un taglio di sorriso, mio cuore
identico, stesso sangue, fratello di una vita
altra, mio pianto silenzioso, mia chiesa d’echi
sconsacrata, mia destinazione ignota,
mio solitario fantasma delle notti insonni,
mio primo e ultimo signore con un biglietto
di sola andata, mio cavallino che dondola
veloce troppo e cado, mio improvviso dolore
che mi lasci senza fiato, mio mancato ritorno,
mio battito scomposto, sonaglio ammutolito
ceduto controvoglia al tempo, mio rimpianto,
mia gioia e mio lamento, mio fuoco
*
LA MARGHERITA
La margherita mi sboccia in grembo
è un piccolo bianco insetto
tutto petali e memorie,
vorace e crudele come la vita
quando alza la voce.
Per così tanto tempo
l’ho interrogata cocciuta:
m’ama o non m’ama? rispondimi,
mentre strappavo me stessa
dal corpo dei miei desideri,
ma lei era un fiore di latta
una medaglietta dipinta e
perdeva colori a ogni nome
che mi abitava dentro
la misura precoce di una stagione
e poi tornava al buio
da cui era emersa ‒ per noia,
la mia, per questo maledetto
bisogno di mettermi
tra le fauci di un lupo ‒.
Poi, per caso, una volta
che ero distratta dal verde
cupo del suo centro pulsante
ho sentito che niente e nessuno
la margherita era solo quel vuoto
in cui cadono le mie parole ammaccate
perché tutto abbia un senso
(ma quel tempo deve ancora arrivare,
è un futuro anteriore, passato per sempre).
*
Bellissimo libro questo di Silvia Rosa, di quelli che scavano dentro lasciando un segno, che è ciò che la poesia dovrebbe fare. Il suo è un tempo dilatato e contratto insieme, è il tempo della vita, nelle sue declinazioni e stagioni, “centro pulsante” di una natura in dinamico fervore. Linguaggio asciutto e denso.
Complimenti alla poetessa e a questa nota di lettura molto esaustiva
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