Sin dai titoli – prologo, parodo, epiparodo, esodo – si dispiega il manifesto poetico di Asmundo: l’affresco di una mitica e teatrale Magna Grecia, in cui la vita è intesa come rappresentazione tragica o come parodia platonica. [… ]
Tutto è visto sotto l’aspetto della caducità. Il presente è già passato, prim’ancora che si dipani. Il paesaggio è ridotto a sito archeologico, dove giacciono brandelli di rovine, vestigia dell’antichità.
A narrare è soprattutto un io collettivo, che si fa moltitudine, coro, sfondo anonimo. La Sicilia allora diventa un’isola omerica, in cui Odisseo è scomparso. Restano solo i suoi compagni, figuranti e coreuti di un dramma collettivo: la Storia.
(dalla prefazione “I Ciclopi piangono” di Domenico Notari)
***
V
Nutriamo la cenere anche noi
pingendo nerità variopinte
cerchiamo consistenza
fiatando vapori vani
che non si miscelano
in fredde striature di luce.
Sfumano aloni d’intenzione
mentre sboccia d’indaco la notte.
—
XVI
La chiacchiera non gli arrivava, era sordo
sedeva su un seggio di vimini
masticando saluti ai passanti e agli antichi
che lui solo aveva davanti.
Le mani coppute sulle ginocchia
tormento del pollice e un filo sdrucito
scappato ai calzoni stirati, ma corti
(lasciavano scoperti i calcagni).
Pigliato dai pensieri suoi
guardava alle cime dei monti
aspettando il ritorno di chissà che fantasmi
a momenti. E chinandosi dietro la coppola
contrito, sdentava parole
unne sunnu, unne fineru*.
*N. d. A.: trad. it. dal dialetto siciliano: “dove sono, che fine fecero”.
—
XVII
Al riaffacciarsi sul Belice.
Nascondemmo il pane
sotto le stesse pietre
con cui coprimmo i piedi ai nostri morti.
Non cade una goccia
sui tuoi occhi disseccati
per troppo lucido senso.
—
XXII
Addentrandosi, meandri della casa
sino all’angolo più buio
seduta, statuaria
come terra
acefala o serra le palpebre
occhi come calcare
muta
i figli spersi
il cordone è reciso
—
XXVII
Mimiche di un venditore di fichi
e di un vecchio suo compagno
in braccio agli anni
ampi gesti da maschere tragiche.
Lontano, un tranciatore di tonnina
ripete mesti i confini dell’uomo.
Sul vaso, scivolate figure
profonda e buia scena, nera argilla.
***
Mamma Affacciata, Ramon Hamidi Metacubismo
Giovanni Luca Asmundo (Palermo 1987) lavora, con base a Venezia, nel campo dell’architettura, della ricerca universitaria e della didattica. È tra i fondatori e co-curatori di progetti e festival intermediali di poesia. Nel 2017 una sua silloge è pubblicata nel volume “Trittico d’esordio”, a cura di Anna Maria Curci (Cofine). Il libro “Stanze d’isola” (Premio Felix 2016) è edito per i tipi di Oèdipus (2017, nota introduttiva di Domenico Notari). Vincitore e finalista in diversi concorsi nazionali, sue poesie e prose liriche sono inoltre pubblicate in antologie, riviste e blog letterari. Promuove progetti di poesia, fotografia e installazioni pubbliche sulla memoria dei luoghi, le migrazioni e il dialogo, attraverso riflessioni sulla città e il paesaggio contemporanei. Il suo blog personale è http://peripli.wordpress.com.
Bello il titolo della raccolta, come belle le poesie qui proposte. Potente quel “nutriamo la cenere anche noi”, la sospensione che creano i versi seguenti e la chiusa degna di un Lorca/Alberti/Bodini: “mentre sboccia d’indaco la notte”. E il vecchio seduto su “un seggio di vimini”, il venditore di fichi, il tranciatore di tonnina, come perfetto corollario del tempo e di ciò che è stato: “unne sunnu, unne fineru.”
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