Fernando Della Posta: Voltacielo

Sotto la volta del cielo esistono, inoltre, altre volte che alla prima burrasca voleranno via, perché il cielo non si fa contenere in limiti entro i quali l’umanità è offesa, neanche se si tratta di luoghi dove si va per cercare Dio e si trovano solo i calchi delle genuflessioni a lucidare i pavimenti. Nella Voltacielo o nel “cielo voltato”, come meglio si preferisce, suggerisce l’autore stesso, invece, potresti ancora sentir risuonare gli echi di “perduti microcosmi” che come stelle spente continuano a mandare luce.
Infine, allo slancio verso l’alto di questa umanità ordinaria corrisponde, quaggiù, la ricerca dell’immenso mare che, sebbene avvenga per sentieri secondari, sottoscala angusti o dentro un bicchiere, potrà contenere, con l’aiuto della visione altra del poeta, ugualmente e ancora più sorprendentemente la sua maestosità: “ci sono tanti poeti che non hanno mai scritto una riga/ e tanti Nobel la cui unica scena/ è stata un marciapiede illuminato da un’insegna”.

Dall’introduzione di Roberta De Luca

Ogni testo di Fernando Della Posta è un microcosmo isolato e polimorfo, capace di aprirsi morbidamente al passo della voce narrante che si svela al contempo in piani differenti, ognuno dei quali equamente indagato.
Stupore, nostalgia, denuncia, desiderio, canto alla bellezza, luoghi o persone in esame, delicata ironia, ogni frammento si scioglie insieme con altri all’interno del nodo cui è incluso. Ne deriva una commistione convincente, l’impressione paradossale di una modulazione senza tempo raccolta in presa diretta, capace di soffondere il necessario rumore di fondo della “storia” complessiva e complessa, diffratta in svariate tonalità esperitive. Appare un quadro d’insieme intimista, dove il senso si carica di un calore per le – cose – familiare, come ritrovato, contemplativo, da vivere intensamente camminandovi attraverso.

Dalla postfazione di Doris Emilia Bragagnini

Matera

Come d’estate il verde oro rigoglioso
dei campi assolati viene attaccato
da strali di polvere e la ruggine abrasa
offende la malva cresciuta in geografie sfavorevoli
così se non ci fossero pioggia e neve
a riempire le cisterne, la vita colerebbe via
goccia a goccia da questo deserto
dopo l’ultima tempesta. Cosa spinse queste genti
ad intagliarsi posticini in queste ossa
in queste midolla farinose della Terra,
forse un intimo ed ostinato senso
della bellezza?

***

Quello che non si può dire

Ci sono persone a cui non potrà mai
entrare nell’anima
una fraterna pelle che vacilla.

Ma fa più male una gabbia invisibile,
che una fragorosa scarica di botte.

Questo non si sa, o si fa finta
perché la vita è dura per tutti
e ognuno capta quello che può
con le proprie antenne di lumaca.

Facciamo spallucce come se la vita
fosse un piccolo appartamento
da girare col triciclo:
un monolocale con cucina
e il technicolor a chi lo vince.

Scegliamo per amico
sempre chi ci appare innocuo.
Amiamo solo chi può farci male.
Una persona alla volta, spesso di sfuggita
e c’è chi resta dispari.
Bontà sua.

***

La Foiba Grande

Attraversavamo ciarlieri sulle strisce
come ballando un’allegra quadriglia
e non sapevamo
che per via di una storia stranita
ingabbiata in schermaglie da festa
non pacificata, qualcuno a Basovizza
tanti anni fa, risparmiò ingrato alla bellezza
a tanti procaci papaveri d’aprile
i giorni in cui il sole fa un nascondino
per poi riapparire in tutta la sua implacabile
santità.

Fernando Della Posta, nato nel 1984 a Pontecorvo in provincia di Frosinone, è laureato in Scienze Statistiche, vive a Roma e lavora nel settore informatico. Numerose solo le sue recensioni e le sue sillogi reperibili su diversi blog letterari come Neobar, di cui è redattore, Words Social Forum, Viadellebelledonne, Poetarum Silva e Il Giardino dei Poeti. Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’anno, la notte, il viaggio (Edizioni Progetto Cultura, 2011), Gli aloni del vapore d’Inverno (Divinafollia Edizioni, 2015), Cronache dall’Armistizio (Onirica Edizioni, 2017), Gli anelli di Saturno (Ensemble Edizioni, 2018).

 


7 risposte a "Fernando Della Posta: Voltacielo"

  1. MATERA. Il poeta è come l’Astolfo ariostesco che dalla volta del cielo guarda la terra, e lo fa attraverso uno specchio rovesciato: ciò gli permette di riflettere da un altro punto di vista luoghi e persone, da cui ricava il rimario universale delle parole e delle cose. Il lettore è indotto a fare altrettanto ed è così che mi viene di leggere la poesia Matera, una delle città inserite nei quadretti brevi e leggeri di Fernando Della Posta, cominciando dalla fine e risalendo verso per verso nella storia della città, che approda all’ultima parola-chiave, bellezza, oggi celebrata nella nomina a capitale europea della cultura. A questa bellezza, scaturita dalle geografie sfavorevoli, dalle ossa e le midolla farinose della Terra, ci conduce il paesaggio scabro ed essenziale della Murgia lucana in cui la ruggine abrasa offende la malva, dove l’estate calcinante spoglia lo scheletro e asciuga goccia a goccia la vita, facendo il deserto. Ma ecco che il poeta, come il Palombaro Lungo trasforma con la sua poesia il nome della città, nel novero delle etimologie possibili, da mucchio di sassi a fossa scavata dai torrenti, raccoglie l’acqua e la neve della natura generosa, ne riaccende la vita e la bellezza, attraverso la presenza dell’uomo. È la città invisibile di Calvino che viene alla luce dalle cisterne ipogee per mezzo del canto e della memoria. Proprio come le genti, i cui volti conosciamo bene per averli visti in Lucania ’61, un tempo, andarono ad annidarsi lì in condizioni precarie, quasi preumane, e mostrarono all’inferno il “non inferno” dell’umanità. Non si può non pensare al punto in cui Carlo Levi descrive il suo arrivo nella città:
    “…Arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera[…]Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo […]un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca ed impaludata tra i sassi del greto […] Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante […] Alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante. La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone[…] Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto” (C.Levi “Cristo si è fermato ad Eboli”)»
    È la stessa struggente bellezza che Pier Paolo Pasolini ha raccontato nel Vangelo secondo Matteo, gli stessi colori annientati dall’oro del sole, che pure nel bianco e nero si possono vedere, la stessa lacerante violenza del paesaggio, dei chiodi conficcati nelle mani e nei piedi, la stessa poesia dei volti scavati, degli occhi infossati senza acqua eppure pieni di vitalità, da cui trapela un intimo ed ostinato senso della bellezza. Senza forse e senza punto interrogativo.

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  2. “Quello che non si può dire” ha strappato dal cuore, pensieri veri, ricchi di concreta sostanza purtroppo. Ma il tentativo di migliorare e andare per una strada opposta tampona di speranza ogni cedimento che vuol annullar la spinta.
    Bene che si dica, in dichiarazione per un volgere altrove..Grazie!

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