Ebbene un altro anno è passato e con servile coerenza anche quest’anno i media hanno narcotizzato le nostre orecchie inoculandoci tonnellate di “prodotti” sonori ben confezionati. Il Mercato è tornato a dominare incontrastato la scena musicale come da sempre accade nei periodi di orchestrato conformismo globalista usa e getta (i tempi i cui i Nirvana scalavano le classifiche di vendita sono morti e sepolti per sempre).
Dunque?
Dunque non ci resta che tornare a scavare tra i “rifiuti” del Mercato, poiché proprio ciò che è stato “rifiutato” dalla grande distribuzione è per sua intrinseca natura fuori dal coro, *dunque* preziosissimo per una sana alimentazione musicale. Dunque non resta che imparare nuove melodie, ascolto dopo ascolto (visto che, banalmente, vi ricordo che ciò che è nuovo il cervello deve impararlo, mentre un brano che ci piace fin dai primi ascolti è roba già sentita… e infatti dopo appena qualche ascolto il cervello è già stufo e cerca altro, con grande soddisfazione del mercato discografico).
L’annata nel complesso è stata più che buona, e se è vero che vecchie glorie sono tornate a ruggire (Pixies, Bob Mould, Kim Gordon), la scena indie è comunque ricca di nuovi talenti: il podio è tutto occupato da opere prime e in particolare le Knife Wife sono a mala pena ventenni!
Buon ascolto.
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1. Empath – “Liberating Guilt and Fear”
In precario equilibrio tra rumore e melodia, nonché tra garage e wave. Album caleidoscopico e sfuggente, ma foriero di cospicuo e crescente godimento a chi saprà concedergli più ascolti. E pensare che mi ero quasi convinto che fosse impossibile usare sintetizzatori e non suonare artefatti e leziosi come i Low… “Ti porto dove vado anch’io / lo spazio vuoto è il massimo che abbia mai sentito” grida Catherine Elicson. E d’un tratto, i synth e la batteria si ritirano, lasciando il posto a una dissolvenza cosmica infinita che occupa tutta la seconda metà della canzone. Senza dubbio il disco più interessante dell’anno (e, non bastasse, contiene pure “Roses that cry”, brano del decennio).
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2. Knife Wife – “Family Party”
Band giovanissima, tutta al femminile. Autodefiniscono la loro musica come “regurgitation of the tear inducing boredom and ecstasy that is being 15 years old”. L’album disegna trame musicali scarne/naif ma nel contempo scomode fino al limite del disturbante (si ascolti, ad esempio “Fruity Void”), tanto che ha scosso la mia consolidata routine musicale come il primo album omonimo dei Violent Femmes nel lontano 1983, pur avendo con esso un’attinenza sonora solo marginale. E in effetti, il lirismo crudo e viscerale dei testi si salda in modo perfetto allo scazzo totale delle parti vocali, riuscendo nella magica sinergia di rendere dannatamente viva una musica quasi morta per un’overdose di apatia. Non avrebbero stonato nella già ottima colonna sonora di “End of the f***ing world” (migliore serie TV 2018-2019).
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3. Kill Birds – “Kill Birds”
Post-punk nevrotico “senza filtri”, come dimostra il fatto che l’intero album sia stato registrato in “presa diretta” modello concerto live in meno di otto ore. Kim Gordon, anima dei leggendari Sonic Youth, si è presa la libertà di etichettare la loro musica con un emblematico “hot as fuck” (e qui, potrei anche chiudere il discorso). Invece aggiungo che davvero la cantante Nina Ljeti comunica una vitalità caotica fatta di testi visionari “recitati”, accompagnati da linee melodiche solide ma oblique che ad ogni successivo ascolto paiono mutare continuamente centro e prospettive, quasi che di volta in volta l’album potesse svolgersi e riavvolgersi senza mai suonare esattamente nello stesso modo. Nel complesso, la personalità del tutto è tanta e tale che non mi stupirei se in un futuro prossimo potessero anche avere un minimo successo commerciale.
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4. Weird Night – “This Is Weird Night”
Con sincero e ostinato spirito lo-fi pop-punk, i Weird Night impastano un ottimo album fatto dei soliti vecchi ingredienti: melodie ruvide ma orecchiabili e spirito indie “operaio”. Mentre in giro per il mondo ormai tutto suona posticcio e commerciale, i Weird Night sono tangibili quanto l’abbraccio fraterno di chi ama la propria musica e tira dritto per la sua strada. Di volta in volta, si torna a riascoltarli con lo stesso piacere con cui ci si perde in lunghe chiacchierate fino a notte fonda con un vecchio amico d’infanzia. Nota particolare per “Here’s a Light”, la caleidoscopica e avvolgente suite di circa 11 minuti che chiude l’album.
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5. Control Top – “Covert Contracts”
L’album di debutto dei Control Top è un vero e proprio grido di battaglia contro il sistema capitalista e il mercato globale. L’essenza del migliore punk-rock c’è tutta: assalto all’arma bianca fatto di urla feroci, testi pregnanti e rasoiate di chitarra elettrica. Perdenti fino al midollo, i nostri eroi non si rassegnano e provano a scuotere il popolo dei consumatori ormai troppo “consumed to have imagination”. vieppiù, mostrando una consapevolezza confortante, dimostrano di essere ben consci che se “everything looks like a commercial” anche l’essere contro, se non sostenuto da invendibile cinismo, rischia di diventare solo un altro prodotto sugli scaffali dell’ipermercato.
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6. Stef Chura – “Midnight”
Album completo, maturo, fatto di un garage/indie rock rotondo, che trova il suo ottimo fulcro nei sofferti virtuosismi dell’ugola di Stef. E ciò che più colpisce negli avvitamenti della voce è la naturalezza “discorsiva” con cui riesce a comunicare fragilità e forza nel contempo: nessuno svolazzo di maniera (se non nella cover finale, il pezzo meno riuscito dell’album), solo urgenza di raccontare il mondo con la propria voce. Giunta alla sua seconda fatica, Stef suona sicura di sé quanto PJ Harvey (si ascolti ad esempio, “Modern man”), eppure obliqua quanto Kristin Hersh (si ascolti, ad esempio la splendida “Love Song”). Mica roba da poco…
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7. Mount Eerie – “Lost Wisdom, Pt. 2”
Phil Elverum, pioniere del lo-fi indie, torna a far coppia con Julie Doiron (mente degli indimenticabili Eric’s Trip, la band più sottovalutata della storia del rock) e di nuovo il miracolo accade: la profondità dell’arte si denuda. Nel vuoto, voce maschile e femminile si aggrappano l’un l’altra, cercando (invano) di non esporre il fianco al sadismo del caso: ma ahinoi, non c’è saggezza, non c’è poesia che possa metterci al riparo dall’ennesima disillusione. Non basta che l’album sia stato registrato “in mutande, con le porte spalancate” e che “tra i respiri si sentano gli uccelli, martelli pneumatici in lontananza, e in alcune canzoni l’aria notturna.” Alla resa dei conti, la fragilità del potere della musica e della parola diventano drammaticamente evidenti ogniqualvolta incrociano la morte.
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8. Bob Mould – “Sunshine Rock”
Il buon vecchio Bob si libera del “fantasma vivente” di Grant Hart (morto il 13 settembre 2017 insieme a un pezzo della mia vita) e sfodera il suo miglior album dal burrascoso scioglimento degli Husker Du in qua (Sugar compresi). Non so se il nostro eroe, essendo venuto a mancare Grant, si sia preso la libertà di riesumare qualche brano mai pubblicato del lontano passato o se l’ispirazione sia venuta da una sorta di riconciliazione con Grant e con se stesso, fatto si è che un brano come “I Fought” stava benissimo in “New Day Rising”, “Thirty Dozen Roses” stava benissimo in “Flip your Wig”, “Sin King” stava benissimo in “Candy Apple Grey” e “What do you want me to do” stava benissimo in “Warehouse: Song and Stories”. E, nell’insieme, ciò ci consente di verificare sperimentalmente la lezione di G.B Vico: anche nel 2019 tra la musica di sostanza e i fenomeni commerciali alla Ed Sheeran/Drake/Ultimo e compagnia bella c’è sempre un’abissale distanza.
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9. Shady Bug – “Lemon Lime”
Melodie orecchiabili “molestate” da chitarre dissonanti e da un cantato fragile che spesso e volentieri rimodula il concetto di armonia in modo personale ed intrigante. Ne scaturisce quella strana meraviglia che ti coglie quando raccogli da terra un carillon quasi andato in pezzi, lo fai partire e quello si mette a suonare qualcosa di adeguatamente sgangherato, o meglio, di ugualmente diverso. Insomma, un album che non ha paura di essere se stesso fino in fondo e di spaziare dal rumore grunge al flauto, abbracciando in modo organico frammenti solo parzialmente ricomposti, ma che proprio per questo comunicano con forza un sentimento di umanissimo sconvolgimento.
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10. Kim Gordon – “No Home Record”
Anima dei leggendari Sonic Youth, Kim Gordon ritorna a noi con un album coraggioso che ci regala nuove sperimentazioni nonostante le oltre 65 primavere. Il marchio di fabbrica, comunque, resta quello: una musica da vivere ancor più che da ascoltare, per sfidare i propri limiti e, nel contempo, i limiti dei singoli e diversi generi musicali. La consapevolezza dell’artista nel gestire divagazioni elettro-noise mi ha ricordato i mitici Big Black, altrettanto capaci di trascrivere in musica deliri post-moderni e alienazione in saldo che nel mio immaginario campagnolo ben s’attaglia alle metropoli d’oltreoceano. I colpi di chitarra si fondono l’un l’altro mentre la voce distorta di Kim diventa un tutt’uno con la musica e col pulsare ossessivo della drum machine. E il risultato è un album tanto ipnotico quanto lucidamente viscerale.
11. Dehd – Water
12. Comet Gain – Fireraisers Forever!
13. Cassels – The Perfect Ending
14. Pixies – Beneath the Eyrie
15. Eerie Wanda – Pet Town
16. Surfbort – Friendship Music
17. Crushed Beaks – The Other Room
18. Guided By Voices – Sweating The Plague
19. Halfsour – Sticky
20. Cherubs – Immaculada High
21. The Woolen Men – Post
22. Sunnsetter – Naturally Occuring Improvised Music For The End Of The World
23. Clinic – Wheeltappers and Shunters
24. Truth Club – Not an Exit
25. Necking – Cut Your Teeth
26. Imperial Wax – Gastwerk Saboteurs
27. Zebra Hunt – Trade Desire
28. Westkust – Westkust
29. Arre! Arre! – Tell Me All About Them
30. Deep State – The Path to Fast Oblivion
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Il messaggio arriva forte e chiaro – non dice ascolta questa musica, ma taglia più netto e profondo nel nostro confinato indirizzato ascolto, ovvero impara a ascoltare il diverso – ovvero non ascoltare la solita solfa. E, come dice bene Malos , ciò che è nuovo il cervello deve impararlo. Di certo non solletica le nostre orecchie con dolci sognanti melodie, ma le obbliga a prendere una posizione -di ascolto, appunto, e non di un comodo sterile lasciarsi attraversare. Imparare il diverso. Che esiste e se ne sta spesso defilato e non aspetta clienti ma diversi uguali come lui/lei.
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buon annano, Iole! : )
leggendo il tuo commento mi sono trovato a ragionare sul fatto che musica e poesia seguano percorsi di ascolto e produzione molto simili: in entrambe la prestazione artistica peri-massimale si ottiene danzando spericolata/mente sul *limen*, che per alcuni è confine (tra sentore e dispercezione, ovvero tra dissonanza e armonia), per altri è dimora (schizofrenia o lucida follia), per altri ancora è soglia verso oltreumane trascendenze (amen). l’equazione dunque potrebbe essere la seguente Empath : Plath = Tiziano Ferro : Gio Evan. intendo, non si tratta (forse) di rifiutare melodia o sognanti parole in quanto tali, ma più che altro di rifiutarne l’uso furbofunzionale o turbodozzinale che viene scientemente propalato dal mercato. ad esempio, di melodia (e di poesia) ce n’è a pacchi in “Lost Wisdom, Pt. 2”, eppure mentre la ascolti e la riascolti lo *senti* che non è piegata/piagata a fini commerciati ma che vive “in mutande, con le porte spalancate”.
: )
insomma, lunga vita ai diversi uguali come tutti noi.
: ))
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Buon ognigiorno a te, caro Malos!
La tua risposta al mio commento mi ha fatto tornare a quanto ho scritto e mi ha fatto riflettere soprattutto sul fatto che a volte si legge (si ascolta) o troppo frettolosamente o condizionati dalle proprie condizioni. Così io. Così ho viaggiato per i miei pensieri dentro il tuo testo -leggendo quello che volevo leggere io – ma non tutto, ma non così a fondo. Le tue riflessioni sempre articolate e snodate, fanno ruote pindariche nel mio cervello e per riuscire a sentire ogni bip devo rileggere più volte 😄
Eniuei (come diresti tu), grassssie
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Che bello ritrovare il tuo musicazzotto, malos. Per me sempre una ventata di nuovo. Ho chiesto a mia figlia, che dice di amare l’indie e si diletta a strimpellarlo all’ukulele, e a conferma di quello che dici non conosce gli artisti della tua classifica. Le ho quindi passato il tuo post e in attesa di sapere cosa ne pensa ecco la mia sui primi dieci brani. Mi sono piaciuti particolarmente ai “primi ascolti” (virgolettato d’obbligo visto che mi trovi d’accordo sull’importanza di un ascolto continuo, le cose potrebbero quindi cambiare più in là):
Belief · Mount Eerie (struggente)
Jesus Did – Kills Birds (d’accordo con te, notevole la cantante)
Empath – Roses That Cry (onirico che si dipana in tanti rivoli melodici)
Control Top – “Covert Contracts” (dirompente. Da ascoltare e riascolate)
Shady Bug – “Blow” (fresca e coinvolgente).
Thanks, passerò poi agli altri, intanto mi riascolto questi :)))
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buon annano anche a te, Abele!
: )
che tuffo al quore (in ogni senso) questi figli che amano l’indie e/o se ne vanno di casa per adeguarsi al mondo (Mambo, il più “anziano” dei miei è in Olanda da sei mesi)! ahinoi, si invecchia, eh?
circa l’*indie* cheddire: ormai è una parola ibrida, come “democrazia”… esiste, resiste, ma definisce un ambito semantico diverso, ovvero, è una realtà formale più che sostanziale. sì, insomma, col passar degli anni – 1984 docet – la neolingua professata dal ministero dell’Amore (quella che “la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza”) ha riempito la parola indie – mero contenitore – di significati altri, più spendibili nell’ambito del mini-market “sconformista” (che, comunque, sempre mercato è)…
: )
sì, insomma i Sebadoh che cantavano “just gimme indie-rock” oggi suonano adorabilmente ingenui…
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