Per quanto sia ormai – o proprio perché è – infinitamente vasto il nullallà che riempie miliardi su miliardi di pagine del web, ieri ho scoperto che non esiste in italiano una monografia che sia una su Julie Doiron.
“Julie chi?” – direte voi.
Ok, ok… non state a rigirarmi il coltello nella piaga: so bene che mentre tutti conoscono fin troppo bene Ariana Grande (“ai wonit, ai gatit…”), nessuno conosce Julie Doiron. Beh, in fondo non è mica colpa vostra ma del sistema-mercato globale che confeziona e vende *prodotti* musicali coi quali riesce ad “avarianarci grandemente” il cervello orientando i consumi fin dalla più tenera età. E infatti, già a quindici anni, non solum consumiamo per essere (in perfetta comunione col verbo consumista “cogito ergo consum”), sed etiam consumiamo per dire miamo (in buona sintonia con l’infantilismo egoide di una società piena di Peter Pan). Ebbene sì: la promessa della Nuova Religione Mondialista non è più quella della vita eterna ma del consumo infinito, come reclamizzato da un’ammiccante liturgia fatta di stupefacenti realtà virtuali pronte a donarci l’eterno presente. Ma questa (forse) è un’altra storia: meglio tornare a noi…
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Or dunque, è ancora possibile, mi sono chiesto, far breccia in orecchie foderate da decenni di desquamazioni commerciali somministrando come terapia 8 gocce di Dancerulisina® (presidio medico che scioglie i tappi di musica dance/commerciale che ostruiscono il condotto uditivo esterno dell’umanità 3.0)? In fondo l’arte comunicata da Julie è pervasa da un nitore così urticante da poter anche… sì sì… da poter anche, ecco! Boh… o forse no. Forse è impossibile, chissà. Mmmmm…. difficile a dirsi, così in astratto.
Ergo, vengo al dunque: il mio usuale approccio sperimentale alla realtà mi impone di verificare il dato realizzando un inusuale esperimento musicale mediante questo post. Pronti, partenza, via!
Julie Doiron nasce il 28 giugno 1972 a Moncton, cittadina Canadese del New Brunswick. A 18 anni, viene convinta dall’allora fidanzato, il chitarrista Rick White, ad entrare a far parte degli Eric’s Trip (nome tratto dal titolo di una canzone dei Sonic Youth). Nel decennio seguente, gli Eric’s Trip si ritaglieranno un ruolo di primo piano nella scena underground canadese e internazionale, dando alle stampe una manciata di EP e tre album (“Love Tara” 1993, “Forever Again” 1994 e “Purple Blue” 1996), tutti di eccellente caratura grazie ad un personalissimo modo di declinare l’arte di Euterpe osando perigliose intersezioni tra rumore e melodia. In un certo senso, gli Eric’s Trip sono un ottimo antidoto all’ansia di omologazione e conformismo che il marketing musicale giovanilista instilla e promuove da mezzo secolo su scala industriale globale. Oltre alla band canadese, pochi altri gruppi della storia del rock hanno dimostrato di saper gestire con minimale disinvoltura tanto esplosioni di cruda violenza (si ascolti “Blinded”), quanto lievi ballate acustiche (si ascolti “Allergic To Love”). Nell’insieme della loro discografia nessun brano è di troppo, nessuna intuizione è scontata e il risultato è sempre quello di un piccolo miracolo difficilmente ripetibile.
Dopo lo scioglimento della band, nel 1996, Julie attraversa un periodo molto difficile, tanto da firmare con lo pseudonimo di “Broken Girl” il primo album solista post Eric’s Trip. Negli album successivi, invece, tornerà ad usare il nome di battesimo per regalarci una fertile carriera solista che la porterà, tra album “in proprio” e collaborazioni (l’ultima, con Mount Eerie, ha partorito “Lost Wisdom, Pt. 2” finito nella Top Ten 2019 del Musicazzotto), ad appore la propria firma musicale su almeno una ventina di album. Il tutto mentre la vita scorre, tra altri a bassi, come un bel sogno (un felice matrimonio e 3 figli) tanto da spingerla a cantare – anche se in doveroso lo-fi – “I’m living the life of dreams”. E oplà, diamo il via alle danze.
Purtroppo, si sa che i sogni durano lo spazio di una notte, o tuttalpiù d’una vita, e in entrambi i casi terminano con un brusco risveglio che per Julie assume le sembianze d’una gravosa separazione coniugale. Ahinoi, tutta l’umanità è paese: chi può vantare di non aver mai sperimentato sulla propria pelle gli inevitabili alti e bassi della vita?
Ciò che invece accompagna in modo sempre uguale l’ultimo quarto di secolo della vita dell’artista sono le inevitabili difficoltà economiche (tanto da costringerla a sbarcare il lunario reinventandosi istruttrice di yoga tre giorni a settimana) e un approccio musicale coerente e sincero, fatto di melodie che “fanno rumore” anche quando si denudano prendendo le sembianze di chitarra acustica + voce per raccontare le sue storie piene di amori, affetti, lutti, maternità, disperazione, ostinazione e coraggio. Il tutto senza mai smarrire quella capacità tipica dei bambini di stupirsi e fare “oooh”, capacità che spesso e volentieri consente di mettere a nudo il senso profondo delle cose più dì un ponderoso trattato di filosofia. E per meglio capire ciò che intendo, possiamo gustarci “Nice to come home“, il cui video è un collage di spezzoni-video casalinghi che ritraggono una Julie Doiron adolescente.
“Ho una bella nicchia di fan affezionati” – dice in un’intervista – “e non ho nessuna intenzione di tradire chi mi ha dato tanta fiducia negli anni mettendomi a fare musica commerciale. Beh…” – aggiunge con un sorriso – “immagino che sarebbe bello poter sostenere economicamente la mia famiglia in modo più rilevante… accade ogni Natale: durante l’anno non riesco a pianificare un numero sufficiente di tour e non ho i soldi che servirebbero.”
Infatti, di questi tempi, traiettorie musicali “underground” non possono certo più sperare nel ripetersi dei corto-circuiti “dal basso” che hanno fatto le “democratiche” fortune di band indiependenti come i Nirvana o i REM: basti pensare che iMercatiTM sono ormai così blindati e onnipotenti da comandare incontrastati non solo sulle “produzioni” artistiche, ma anche da dettare la politica a interi popoli e nazioni del mondo. Julie Doiron non si è mai piegata alle “regole del gioco”, non si è mai umiliata di fronte a nessuno e con ciò sancisce la sua inappellabile condanna nel fast food dei prodotti – compresi quelli artistici – usa e getta. Chissà se siamo ancora capaci di rallentale e di ascoltarci l’un l’altro, come si chiedono l’un l’altro Julie e Rick in “Stove”, un brano tratto da “Love Tara”, primo album degli Eric’s Trip: “you could even slow it down a bit… at least for me…”
E proseguiamo dunque secondo una linea temporale che muove dagli esordi ai tempi più recenti. Senza crucciare eccessivamente le orecchie di chi non ama il rumore (che invece è fertile e prezioso, come ci insegna anche un ispirato Maurizio Manzo qui su Neobar), concediamoci almeno un estratto di “Purple Blu”, secondo album degli Eric’s Trip. “Eyes Shut” è davvero una perla rara per come la melodia accennata dalla voce di Julie si arrampica cantilenando sul muro di chitarre elettriche. “I miei occhi non sono aperti, sei tu a vederli brillare”, canta Julie, e aggiunge con reiterazione e urgenza quasi autistica “I feel like you, I feel like you, I feel like you, I feel like you just everyday / You’re not alone, you’re not alone, you’re not alone in the same way”.
Conclusa l’avventura di una vita con Rick White, l’elaborazione di una propria dimensione post-Eric’s Trip richiede a Julie qualche anno. E’ un risveglio faticoso, e direi che possa esserne buona prova documentale il brano “Me and My Friend”, tratto dall’album “Woke Myself Up” del 2007.
Tra parentesi, bellissimo anche il video minimalista, con quelle inquadrature sghembe di Julie che sul finale accenna un sorriso e guarda in camera. E altrettanto bello è pure il video di “Consolation Prize” che trovate qui di seguito, tratto da “I Can Wonder What You Did with Your Day” del 2009. Da notare l’incipit della canzone, quasi un colpo da ko alla prima strofa: “You got the heart consolation prize / For having to survive, having to survive”. E da notare pure la parte finale dei video dove Julie letteralmente “tira fuori dalla terra” il suo zombie e se ne vanno in giro insieme danzando e saltando. E i denti…. oh, quei denti….
Ma la dimensione umana di una artista, perdonate la mia fissa, si misura nelle performance dal vivo. E allora andiamo ad ascoltarci Julie nel 2009 che suona e canta “Heavy Snow”. Adorabile soprattutto la spontaneità del sorriso quando con la chitarra si prende la libertà di impuntare una nota o di “sporcare” un accordo per ottenere un effetto straniante che ai puristi parrà fastidioso, ma che riesce a stabilire un senso di intimità da contesto familiare con lo spettatore (passando dal flusso verticale proprio dell’artista “professionista” che si abbassa verso il suo pubblico, al flusso orizzontale e fraterno dell’artista “amatoriale” che si fa pubblico).
Qualche anno dopo, siamo al 2013, possiamo ascoltarla di nuovo dal vivo in un pub di Monaco. “Swan pond” è una ballata cantilenante straziata da inserti di chitarra elettrica dove la voce fragile di Julie crea un prezioso effetto chiaroscurale che ben si sposa col bianco e nero del video nonché coi giochi di luci ed ombre dello stagno. L’acqua placida dello specchio d’acqua, coi suoi suoni dolci crea una sorta di realtà sospesa dove il ronzio delle zanzare pare un malfunzionamento cerebrale che spazza via la vita, al punto che “under your trees I forget about about me and I’m sure of no one”. Ma si sa che la memoria è spesso dispettosa e a volte basta un ondeggiamento d’erba per innescare una marea di ricordi.
Comunque, ciò che mette completamente a nudo più d’ogni altra cosa la dimensione umana di una artista, è la performance da vivo in versione “unplugged”, per dirla all’inglese. Passiamo dunque al 2015 dove troviamo Julie in versione “folksinger” gitana: ascoltiamola a tu per “noi” con la sola chitarra acustica (e durante il brano anche in voce spoglia), ascoltiamola mentre con voce da pelle d’oca supplica tutti quelli che l’hanno amata di perdonarla e condividiamo con lei l’essenza dell’arte musicale che si fa carne e vive e strazia. Su un arpeggio alla “House of the Rising Sun”, ecco a voi “Homeless”.
E direi che a questo punto, può essere abbastanza. Quale miglior modo per chiudere questa breve monografia se non citare un significativo frammento di parole tratto dalla viva voce di Julie Doiron?
“Faccio quello che sono, meglio che posso” – afferma, regalandoci un sorriso, durante una recente intervista. E proprio per questo il Musicazzotto Nellorecchio non può che amarla incondizionatamente: baci, abbracci e a presto, Julie.
Non sono un grande appassionato di musica, ma ho sentito tutti i pezzi, soprattutto quelli di chitarra acustica e voce mi sono piaciuti, in particolare “consolation prize” , ho trovato i testi, che spesso parlano dell’amore e della sua fine.
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grazie per la tua presenza, Giancarlo. e anche se premetti di non essere “un grande appassionato di musica” è evidente che sai fermarti ad ascoltare (quindi…).
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“consolation prize”, che citi nel commento, è un brano quasi totemico per come racchiude l’essenza di Julie Doiron. intendo, *potrebbe* essere un brano composto ed orecchiabile, ma a metà canzone deraglia per quasi 30 secondi sporcato da uno pseudo-assolo di chitarra elettrica distorta e stridente: pura follia, da un punto di vista commerciale. che, però, non è – *non deve* essere – il punto di vista di un artista (“se il mondo fosse un immenso centro commerciale, l’arte non esisterebbe” recita il portale di Copylefteratura…)
circa i testi, è vero, in genere parlano di scimmie nude 1.0 (amore, morte, figli, vita, maternità e così via): un perfetto distillato minimalista della quotidiana tragedia umana. in un mondo che è sulla buona strada (per diventare quell’immenso centro commerciale di cui sopra), dove intere generazioni rinunciano a vivere per esistere 24 ore in Instagram, Julie mi riconcilia col senso profondo delle cose.
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